VIAGGIO INVOLONTARIO
Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano
Questo libro è stato stampato
per la quarta edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1999
Federico Nobili
LA COSA IMPERFETTA
(quattro ritmi per un teatro vuoto)
Le langage n'est pas la vie, il donne des ordres à la vie;
la vie ne parle pas, elle écoute et attend.
Figure:
l'uomo che parla, l'uomo che cammina, la donna seduta.
Dietro di loro, su due file di panche, dodici spettatori, uomini e donne, statuari.
La scena non cambia mai.
I titoli non sono che indicazioni musicali.
Unica prescrizione generale per gli attori: NIENTE PSICOLOGIA, nebbia d'astrazione che s'incarnerà di volta in volta in corpi predisposti al bianco.
Chi scrive vede con precisione le figure nei loro rapporti dinamici - movimenti, sguardi, gesti.
Ma preferisce indicarli raramente.
Il concreto, a volte, è una feroce barbarie, uno stereotipo vincolante.
A chi legge, a chi è tentato di tradurre nello spazio e nel tempo, l'ascesi e il piacere di una propria composizione di luogo.
Voci: macchie, spugne e raschiamenti della materia verbale, forme accidentali dell'immediato.
Musica: basso continuo amplificato di ronzio elettrico del parco lampade; metronomo degli anfibi pesanti dell'uomo che cammina.
Spazio: bianco.
Luce: limite di incandescenza.
Un minuto iniziale di buio e silenzio.
Silenzio di voce, scandito dal ritmo sostenuto dei passi dell'uomo che cammina.
Un altro minuto di buio e parola.
120 secondi senza immagini.
E subito: ustionare le figure.
Niente ombre, niente grigi.
Il primo a parlare è l'uomo che parla...
In corsivo si dà la voce dell'uomo che cammina.
In grassetto quella della donna seduta.
I. RADIOGRAFIA DELLA VIOLENZA
Ora.
Prova a dirlo.
Ora.
Vai.
Ripeti.
Ora.
Non c'è musica o rumore, nessuna distrazione, neppure l'illusione del buio tra una parola e l'altra. Figuriamoci del bianco. Quale bianco? Non vedi che è tutto sporco? Come potresti fare un quadro? Che espressione maldestra: fare un quadro... Non ti avvicinare, capito? Inciamperesti. Quanto alla bocca, premi le labbra dove vuoi, ma sta' zitto.
[PAUSA]
Ehi, Nefertiti! Non dici mai niente tu, eh? Brava! Mater dolorosa spugna muta e sposa. Mangia mangia, che poi caghi... Fare e disfare, ti ricordi?
[PAUSA]
La regola la sapete. È l'unica rimasta: non chiedetemi spiegazioni. Oggi fa caldo e freddo. E il tempo è passato invano, come al solito. Io non imparo nulla, voi non imparate nulla. Stiamo qui a giocarci una manciata di sabbia. Gli orologi non hanno più ingranaggi, ormai. Che cosa vorresti sabotare: i fremiti del quarzo? Le intermittenze del silicio? Lo sgocciolio dei cristalli?
[Luce. Con il pollice della mano sinistra l'uomo che parla si preme il polso destro. È in piedi. Guarda verso il pubblico.]
Pulsa pulsa pulsa pulsa: lo senti? Pulsa pulsa pulsa pulsa: lo ripeti e si cancella. Ripeti una parola e si cancella. Se continui non resta neppure il suono.
[PAUSA]
Quando faccio quello che mi piace fare spero sempre di potermi incantare. Da solo o con qualcun altro. Su e giù, dentro e fuori, fiato fiato, suda e suda, la macchina si ferma, schizzi via, rapido e stanco, schizzi via, l'ascesi non basta, non basta, l'atletismo... è un abbaglio comico. Padre del deserto. A volte mi visita un pensiero senza tenerezza che dice: padre del deserto, unico modo di dire padre senza infamia. Invece di fottere ingoiare defecare, invece di guerra e lavoro e speranza, intrecciare corde. Tre anni con un sasso in bocca per imparare a tacere. Rispondere alle offese del mondo con l'indifferenza della pietra. Non giudicare se stessi. Intrecciare corde seduti per terra. Ruminare incessantemente la legione di schegge punte e solventi che tumultuano nelle vene. Il sangue ti scorre davanti, lo puoi vedere, un fiume rapido e implacabile. Globuli rossi intrisi di sole. Uno stormo di uccelli che punta verso nord.
[PAUSA]
Sterilità è come silenzio: appena li pronunci svaniscono.
[PAUSA]
Non c'è nessuno. Nessun nome da nominare. Adesso il guanto è senza mano, capisci? Un guanto di lattice sul tavolo operatorio. Guardalo, sforzati! Guarda! Fissalo con attenzione! Pesante e freddo come il marmo. Una pietra viva, dicono. Il pezzo staccato di un insetto, piuttosto. Prima si tendeva sottile, al limite dello spasimo, compenetrato da quell'arto forte, deciso, sicuro. Adesso è rivoltato, il dentro fuori, qualche palpito d'inerzia, poi fermo, immobile. E se il tuo sguardo si concentra a lungo capirai quant'è pesante quella cariatide. Non stringe, non carezza, non colpisce, non sfida più nessuna legge. Si adatta al piano orizzontale del suo abbandono con la smemoratezza dei mortali.
[PAUSA]
A volte mi visitano pensieri senza tenerezza. A volte, invece, tutto quel mare divoratore vien fuori dagli occhi. Voluttà del pianto. Che bella vecchia parola! Voluttà. Ho voglia di girare in tondo.
[Ruota.]
Le mie braccia disegnano il piano dell'eclittica, sopra e sotto il vuoto pneumatico del cielo. Voluttà. Ogni volta che ritorna questo mese...
[Smette di ruotare.]
Lasciamo perdere, sto diventando lirico. Finisce che vi montate la testa, vero? Che vi sentite importanti, considerati. E, come al solito, alla confidenza si accompagna la perdita delle distanze. Poi sopraggiunge la mancanza di rispetto. Arrivereste addirittura a giudicarmi. E io sarei così debole da farmi condizionare da quel pallido riflesso di me che s'accende nella distrazione delle vostre teste. Cenere spenta, siete, nient'altro. Nessuno di voi due mi manca. Cenere spenta. Non siete un branco. Non c'è mai stato il branco. Non riuscite a riempirmi. E neppure a svuotarmi.
[PAUSA]
Tutto. Voglio dire tutto. Come si fa a dire TUTTO senza spiegarsi? Io non voglio spiegarmi. Non voglio chiarire. Prego per un po' di buio dove ci si possa toccare e basta.
[PAUSA]
Parlare nella notte. È un modo di sospenderne il corso. La voce continua a sgorgare, ma non è da dentro che viene. Ti senti attraversato da quel suono, incantato da onde che sembrano incantare il tempo. E la seduzione giunge come una grazia involontaria, frasi a spirale che si avvicinano e si abbracciano, sciogliendo la diffidenza nel vetro degli occhi. L'altro si trova ad amplificare le tue frequenze con l'intera massa calda del suo corpo, labbra sulla pelle e lingua nei buchi, il panorama della vista sostituito dall'odore, dal premere e dal graffiare. Parlare nella notte, così, è versare la bottiglia per terra e credere che non finirà mai. Con gli anni continuo ancora a sputtaneggiarmi, come un pianeta che sfida la noia delle sue infinite rivoluzioni. Non ho nulla da vendere e ho il terrore di sentire dentro le ossa che non c'è niente da comprare. Dico così perché lo penso e accanto a questo pensiero corre un vento gelido. Dico così perché lo penso. Allora mi fermo e non dico più.
[PAUSA]
[Indica la propria bocca spalancata, a lungo. Si volta verso i dodici spettatori, mantenendo il gesto. Poi di nuovo verso la platea.]
Quando dici bocca hai detto tutto. Che ci posso fare io se la vita è una pausa? Non ci sei, ci sei, non ci sei: margherita con un unico petalo. Un unico suona male, d'accordo. Sfogliatemi bene, però. Voi non avete tempo da perdere. Io ho soltanto quello. Non è vero. Ma a volte vorrei avere soltanto quello. Cosa significherebbe essere il tempo e basta? Forse che riuscirei a capire (ma non con la testa e basta) che dire bocca è dire tutto. Fate finta di non ascoltarmi, vero? Fabbricate i vostri giorni e il vostro riposo. Siete continuamente impegnati a prepararvi per qualcosa che non accadrà. La vostra festa del tesoro non arriverà mai. Mai. Il tesoro è qui, nella bocca, qui, qui, non è nascosto. Abbiamo bisogno di una parola come: nascosto. Siamo bambini. Il mistero si smargina lungo le labbra dell'infanzia, perde via via le sue tinte vive e fiabesche. Il calendario aggiunge patina a patina. E nelle fibre crescono scosse elettriche secche, ronzanti, che adesso chiami ansia. Sei adulto. Il rombo del traffico nell'autostrada lontana, di notte, è quanto ti resta della tua ninnananna d'infinito. Ma di giorno, recise le palpebre, c'è solo questo attrito insensato, questa luce che disegna profili taglienti. Il piombo sale lungo le narici, ebbro di benzene, urti e sguardi, salire e scendere, mai svegliare, mai dormire. La vita non è che una pausa. Forse esagero. Questa non l'ho pensata io. Forse esagero l'hanno detto loro, tutti in coro, è una vita che me lo ripetono: esageri sempre, esageri... Anche voi due lo pensate, vero? È inutile che proviate a negarlo. Non vi crederei.
[PAUSA]
A volte vorrei morire e continuare a parlare. Non per me, per gli spettatori. Per recuperare un po' di raccapriccio, un po' di spavento, un po' di stupore. Immagina lo spettacolo delle facce di chi si trovasse ad ascoltarmi. Da soli magari funziona, ma quando si è già in due ci vuole sempre un muro di parole per tentare il silenzio. Un muro di parole per arginare le parole. Comunque non funziona neppure da soli. Il silenzio, voglio dire. E nessuno t'ascolta se sei vivo. La parola è quotata solo nella borsa dei defunti. Ci consola e rassicura l'idea di un tempo in cui la lingua possedeva forza di vincolo, peso di terra e pietra, intensità di sguardo che affonda dentro le pupille. Parola detta e cantata, legame di musica e patto di sangue. Una volta sbrigato l'omaggio ai nostri abbandoni nostalgici, torniamo. Archiviato il cadavere del passato, torniamo. Torniamo dove? Alla commedia della maturità: ma sì, lascialo dire, ormai lo conosco, mascherina! E se invece tornassi da morto?
[PAUSA]
Se si potesse abbattere una parola come un aereo nemico, la prima che punterei con i miei cannoni è: disincanto. Hai mai ascoltato un dialogo, tu? E tu? Disincanto...
[PAUSA]
Schifosi! Non provate a rispondere, tanto non vi crederei.
[PAUSA]
I prodotti della notte. Non parlo dei sogni. Escrementi. Consumare produrre sprecare. Che brutta malattia che è la fame, paparino! Perché non sono un pesce? Spalanco la bocca nell'immenso latte salato e senza sapere continuo a mangiare, galleggiando in questa ipnosi materna. La fame è fatta di terra. Aria di polvere e terra di terra. Soltanto la terra conosce la fame. Lo stomaco mastica se stesso, pieno d'aria, vuoto. Hai notato che gli animali usano il culo più degli uomini? In noi la testa è troppo pesante. Troppo. Siamo sbilanciati, tutto dalla bocca, dagli occhi, starnuti e fiati, decreti di morte e cartoline d'amore. Fretta, ho sempre fretta. Non riesco a dire per esteso neppure una parte minima di quello che mi attraversa. Anche la mia voce è stenografia parziale. Non sia prolisso, continuavano a ripetermi. Credo d'essere sincero, ma proprio non ci riesco a raccontare tutto. Noia, fretta. E diffidenza. Ma soprattutto fretta. Lo sai che deriva da fregare? Questo perenne attrito che ci produce, che ci consuma, che ci spreca. Quasi quasi mi faccio una sega. È sempre un modo di fregare, no? Dischiudo le labbra e si aprono le dighe del mare. Come faccio a parlare con calma se non ho le branchie? E tutte queste esplosioni nel cielo, corpi gassosi combusti, immense fornaci senza pane, cottura d'infinito: non le vedo, ma le sento. Le sento sulla pelle, nella massa del cervello, nel sesso e nel cuore e nei polmoni. L'infinito è un mostro addormentato dall'abitudine. Lo cerco nei tuoi buchi, mi sfinisco, non trovo riposo. Di che cos'è fatta la mia memoria? Di macchie, di materia, di musica, di morfina? Il dolore provoca contrattura e la contrattura genera altro dolore. Vedo dei cani che scompaiono. Che strano, vederli, così composti, tutti in fila. Processionarie. Meno male che non abbaiano. Te lo immagini un esercito di farfalle colorate che prende a latrare nel cielo? Ho sempre odiato l'abbaiare dei cani. Perché siamo usciti dal mare? Per cercare la fame?
[PAUSA]
Cosa? Non hai detto niente? Ma non dite mai un cazzo voi due? E perché ridete adesso? Ridete di me, vero?
[PAUSA]
A volte ci provo. A spegnere la parola, voglio dire. A raschiarla via. Uso abrasivi, stracci e spugne. Chiudo la bocca, ma il treno continua. Anche se invisibile da fuori, è lì. Il callo, voglio dire. Il callo che fai a questo fiume. Si chiama letto, quel callo. Il letto del fiume. Ti ci addormenti in quell'inerzia, l'acqua scorre, scorre, scava il tuo letto sempre più profondo e tu quasi non te ne accorgi. L'infinito è un mostro addomesticato dall'abitudine. Sentito? Sentito come risuonano a pieno orizzonte le mie frasi? A volte chiudo gli occhi. Ma le immagini non si cancellano. Il treno continua a passare. Un finestrino illuminato e poi un altro e poi un altro ancora. Figure sconnesse, senza alcun controllo. Un tempo potevo riposarmi. Qualcuno aveva preparato una parte del mio cammino. Qualcosa avrebbe avuto la discrezione appassionata delle mie impronte. Adesso è adesso. Fa meno impressione che: infinito. Prova ad afferrare una trottola senza uccidere un bambino! Adesso è adesso. Fa meno impressione, ma è un mostro, capito?
[PAUSA]
Perché sento la mancanza di qualcosa che non ho mai avuto? Un popolo, per esempio. Mi vien voglia di cantare. Ma non voglio cantare da solo.
[PAUSA]
Notte. Cielo terso. Orione fa la guardia al portone di casa. Alzo gli occhi, ficco lo sguardo dentro la parola: Orione. Non vedo l'innominabile stellare. Dico: vertigine del buio, distanza irrespirabile, disumana - ma non sento nulla. Al telefono ascolto tuo figlio che ti succhia il capezzolo. Stacca i suoi piccoli denti dal seno e prende a esibirsi nella retorica incomprensibile di suoni inarticolati. C'è una sola voce, un unico fiato compresso attraverso bocche diverse. Questa frase ispirata e tronfia l'ho segnata su un foglietto ieri l'altro sera, semiubriaco, dopo essermela ripetuta più volte in testa, portandomela dietro come un cagnolino, camminando lungo le strade della città padana, sotto i portici che riparavano maldestramente dalla nebbia enorme.
[PAUSA]
Vogliamo parlare del tragico? Tutte le volte che mi son dovuto defilare da una conversazione in preda alle contorsioni budellari d'un attacco di colite, sfintere anale che sputa rosso emorroidale, flusso d'acqua e merda che si svasa nel cesso, strizzato come una vite isterica sulla tazza a liberarmi d'una parte ribelle di me stesso, ingoiando pasticche di buscopàn, trattenendo e scaricando apocalittici fragori, miscele intestinali, schianti e soffi... tutto questo non suona tragico, vero? È il naturale processo di eliminazione...
[L'uomo che cammina scuote la testa.]
[PAUSA]
C'è poco da ridere. Un giorno ti svegli e l'equilibrio è cambiato. Le piante dei piedi scivolano sul marciapiede come fosse un tappeto mobile. A ogni passo la velocità è diversa. La velocità della strada, dei muri, delle automobili, delle nuvole. Pressione bassa? Ictus? Cervicale? Cambio di stagione? La vertigine dell'equinozio di primavera m'arriva tutti i giorni, adesso. È un predone nascosto alla svolta d'ogni ora. Togli l'orologio dal polso, il sangue bussa, la terra ronza attorno alla sua stella. Ti allontani. Ci provi. Un salto sordo da pianeta a pianeta. Silenzio. E il rumore del sole? Lo senti quel rumore di ferraglia fusa, quel soliloquio sereno e infernale, quelle deflagrazioni che da lontano sembrano soltanto luce? Il mio muscolo farfalla continua a sbattere e sbattere dentro la gabbia torace. Ali scarlatte sottili continuano ad irrigare le pupille. Mi sforzo di guardare verticale: alto e basso, piombo e volo. Inutile. Questo guardare inutile. Talete è caduto dentro un pozzo. La donna ride e lui replica, impassibile come Buster Keaton: è per osservare meglio il cielo... Mi sforzo di guardare altrove, stracciando l'abito dello sguardo orizzontale. Ma anche lì non c'è che...
[La donna seduta s'abbraccia di scatto. Poi le mani scivolano lentamente da dietro la curva delle spalle. Si palpa i seni, sollevando progressivamente il volto verso l'alto. L'uomo che parla s'infila le mani nei pantaloni, sotto la cintola. Afferra il sesso. Comincia a manipolarsi. Mentre si compiono queste azioni, sta già parlando. Le frasi sono rapide e trasparenti come una fontana che sgorga ad alta pressione.]
Puro presente e nient'altro. Sento tutto 'l sangue c'affluisce qui, tra le mani, in questa carne ancore molle. Vuoi sapere cos'è 'l puro presente? Non sapere niente, non vedere niente...
[L'uomo che parla chiude gli occhi.]
Mia leonessa, mia regina, MIA... voglio coprirti con parole di fiato e sperma sprecato, voglio fare rima con tutto 'l tuo corpo... giugno l'avverto nel midollo, polvere di ginestra dei tuoi occhi che mi sfuggono come macchie gialle ai bordi dell'autostrada, petali di papavero al posto della massa del cervello, porpora velluto che esce dal buco della bocca e si porta via il grigio dei neuroni... quand'ho cominciato a scrivere, da piccolo... voglio dire... quand'ho cominciato a dedicarmi alla scrittura fuori da incombenze scolastiche sentivo di compiere qualcosa d'illecito... un'azione pericolosamente anomala, che mi eccitava, mi eccitava fisicamente... il bisogno la decisione e 'l fatto stesso di scrivere rendevano il luogo e 'l momento immediatamente sovversivi e loschi, come uno sparo imprevisto tra le maglie ovattate del quotidiano... e trascorrevano ore e ore, rubate alla casa del sonno, quasi sempre in erezione, riuscendo a malapena a macchiare la pagina con un po' d'inchiostro che produceva magari soltanto una manciata di verbi all'infinito e di sostantivi astratti...
[PAUSA]
Mi dici che ti faccio male... ti faccio male con i due giorni di carta vetrata della barba del mio mento... mi dici che ti faccio male e mi dici di continuare... poi cambio, smetto di leccare... è la mia mano che ti fa bagnare così tra le gambe? o è il pensiero della mia mano? com'era piccolo il tuo ventre! come stringeva! un guanto, un guanto! e ora le mie dita arrancano nella stanza dell'utero, sorprese dall'eco del proprio tastare cieco, si perdono e confondono in quello spazio dilatato... ora che ci son passati dentro due corpi vivi e interi, che li hai nutriti e sgravati, com'è enorme il vuoto che sento... dovrei avere un cazzo smisurato per riempirti, per aderire alle tue pareti e tenderle e colmarti... veloce, sempre più veloce... son troppo veloce? rapido, sempre più rapido... sciabordare di schiuma attorno alle pupille, bianco nelle vene che deflagra nel buio, sotto la volta del cielo, sotto la volta del cranio... cosa tiro fuori, scavando? cosa tiro dentro, fottendo? ansimare d'una pianta senza nome, sradicata dalla terra, dolcezza putrefatta del sesso dei fiori, odore di gelsomini, quarzite cangiante della testa di Nefertiti, Lei che mi manca, Lei, la regina, mia leonessa, florida vaghezza delle tue labbra, labbra di sasso e labbra rosse, carne scolpita, pelle levigata... adesso smetto di contare tutte le volte che ti ho preso e che mi hai preso, adesso smetto, lo giuro, lo giuro...
[PAUSA]
[L'uomo che parla riapre gli occhi e smette di manipolarsi sotto la stoffa dei pantaloni.]
E quando nell'orgasmo continuavo a ripetere frasi, tu ridevi se inciampavo, se invece di "ancora" veniva 'NCOA, se invece di "non fermarti" NOFEMANTI... i tuoi capezzoli ridevano, i tuoi capelli mi carezzavano... e ridevo anch'io e non sapevo più dov'ero e non sapevo quanto il riso fosse bagno d'endorfina o comico di parola maldestra...
[PAUSA]
Non sapevo... Perché? Adesso forse lo so dove sono?
[La donna seduta torna alla posizione iniziale. A lungo terrà gli occhi chiusi. L'uomo che parla estrae rapidamente le mani dai pantaloni, impacciato. Ne osserva i palmi per una manciata di secondi.]
[PAUSA]
Ho perso l'uso delle mani. Ho perso la fatica che piega le ossa. Ho perso la necessità del coraggio. Qualcuno uccide per me la carne che mangio. Qualcuno abbatte per me i boschi, per scaldarmi al fuoco, per scrivere sulla carta spianata, per nettarmi il buco del culo. Qualcuno estrae petrolio e sotterra gente, per farmi agitare nel mio carro mobile di plastica e metallo, lungo l'asfalto e sotto la pioggia. Qualcuno canta alla radio per farmi sentire ancora più solo.
[PAUSA]
[L'uomo che parla si rivolge alla donna seduta, ruotando il capo. Lei non ricambia lo sguardo.]
Scùpati, mia regina, ti prego! Se tu ti scupi, io ti scopo, promesso. O forse è il contrario? Se tu mi scopi non sei cupa, non ti sciupi e io non scappo, e poi lo so, certo che lo so, quando faccio il buffone è perché ho paura, magari di perdere qualcosa, ché dire qualcuno sarebbe già troppo, sarebbe incupirsi sciuparsi e non pensare più a scopare... ma che razza di verbo è questo? Ora prendo il copione e controllo, perché ‘sto scopare non mi piace, il verbo intendo, e l'autore mi deve delle scuse per avermelo messo in bocca, il verbo intendo... l'autore del copione: anche questa mi sembra una parola cretina e del resto la cosa stessa lo è... dicevo, l'autore del copione finge di darvi roba vera in un teatro finto, vi figurate immagini d'un corpo sensuale e ritorto come un prigione michelangiolesco, che poi sono io che parlo, una magnolia gigante con la faccia mai statica al posto dei petali del fiore, una faccia mutante come le tinte dei gerani farfalla, e sullo sfondo il cosmo, fuga di nero dietro lo smalto del cielo e nèi di stelle sul muso dell'animale che non è dio, e poi quell'altro lì dietro che si muove sempre e batte e batte con le sue ciabatte militari, e ci sta anche la ninfa seduta la muta la donna la fióla la bimba la mamma, che cos'è? ma che cos'è quello stare? e quei dodici incerati manichini sulle panche chi sono? non ho ancora capito, questo autore non è molto chiaro, forse fa bene a non esserlo, comunque son stanco, così stanco di queste chiacchiere... e non mi trovo affatto in piedi, come credete se mi leggete, fingo d'esserlo, fingo di farvi vedere qualcosa con razionalità, e invece son seduto a scrivere su una sedia che pretende d'esser vera, sgranocchio una mela verde come la gelosia, ma poi chi l'ha detto ch'è verde la gelosia? e non c'è un motivo plausibile, di questo masticare, di questo scrivere, che so, la gloria il pensiero il successo, non mi pagano nemmeno, poco razionale vero? Anche il mal di collo è vero. E pure il bruciore degli occhi è vero. Ora lo sapete. Tutto ciò che è razionale non è reale. Fate i vostri conti. Prendete le misure. E uscite dalla pagina, perché in teatro non siete mai entrati, uscite dalla pagina e spaccate tutto, amate tutto, dimenticate tutto, fate un po' quel che volete, oppure non fate niente, che magari è proprio quel che volete. Ma a chi sto parlando? Non c'è nessuna folla, neppure un gruppetto sparuto, magari qualche passante distratto, uno, dico uno solo, il macchinista, che so, il guardiano notturno, un vagabondo con l'insonnia, un calore da avvicinare, due labbra, anche una sola, l'inferiore, va bene, va bene anche se non è carnosa, va bene pure un po' bavosa, e invece niente, rigorosamente niente, neppure l'ombra d'un insetto ronzante. Ben ti sta. Avresti dovuto diventare un atleta, stronzo d'un poeta, passare il tempo della tua vita così breve all'aperto, niente aria viziata, niente chiappe infrollite, scolpire i muscoli, tonificare le fibre, velocità per ossa e tendini, stretta d'acciaio di gambe e braccia, sguardo di falco, il mondo come preda, nessuna memoria, nessuna, a che serve, che tanto il tempo si perde lo stesso... Ma tu che stai ascoltando, perché non mi dici il tuo nome? Non provare a farmi credere che non ci sei, perché il mio sproloquio è la dimostrazione a priori della tua inutile quanto inoppugnabile presenza. Il mio sproloquio significa che sentivo bisogno di scrivermi, di parlarmi, e quindi - stringente, vero? - di leggermi... Credo che l'autore, sì, quello che promuove, fa crescere e avanzare, come spiega il vocabolario; quello cui appartiene questo nome un po' tronfio: l'autore... si stia chiedendo se questa tirata può reggere, sia stampata nel libro che pronunciata nel vuoto...
[PAUSA]
Prova a osservare le mie labbra tappandoti le orecchie. Osserva attentamente. Questa macchina fradicia di frasi lavora senza di me, vero?
[PAUSA]
Anni fa incontrai un tipo colossale e straccione che urlava a un semaforo: "Vi credete sensibili? Davvero? Allora perché non provate a fare come me? Diventate un'antenna anche voi! Alzate le braccia e cominciate a captare con le mani aperte tutte le conversazioni telefoniche che stanno fluttuando nell'aria, tutte le trasmissioni radio, tutte le immagini televisive, tutte le transazioni finanziarie ridotte a impulsi zero e uno. Chissà: tu apri la bocca per raccontare le tue amenità e dentro, oltre a questa merda purulenta dei tubi di scappamento, si infila la pubblicità di un frigorifero o una sinfonia di Brahms o le chiacchiere di due teste macerate dalle microonde dei loro cellulari! Magari un'intera tempesta speculativa sui mercati orientali ti ha appena insanguinato le gengive o scrostato un herpes... Io allargo le dita a rana e nelle falangi vibra imperturbabile e costante il vento solare, anche se è notte e buio; decifro con i polpastrelli il rombo dei quasar, le peripezie quantistiche di astri già morti, l'urlo a spirale dei buchi neri, lo schiocco secco dei petardi stellari, il primo vagito delle cose senza nome ridotto a rumore di fondo, tre gradi appena sopra lo zero assoluto. E poi tutte le lingue extraterrestri, sai? gettate nel gelo intergalattico come reti a strascico, e le mie cartilagini sono pesciolini tremolanti impigliati in quelle maglie ormai indifferenti, ogni scaglia una sillaba, ogni buco una pausa. Ma non ci sono pause. Ci conforta crederlo, ma non ci sono pause. Non capisco niente di quelle lingue. Lo so. Che importa. Tanto non potrei rispondere a dei messaggi senza bottiglia. E allora mi accontento di questo solletico abissale che mi colpisce e mi attraversa, come il tappo d'aria fetida del metró spinto dal treno in corsa... Sì sì, anche se siete protetti dai vetri e dalle lamiere, io riesco lo stesso a percepire i tracciati del vostro encefalogramma. Ora avverto che vi state dicendo, senza neppure il coraggio di parlarmi in faccia: ti chiami poeta, sensitivo e visionario perché presti orecchio ai contorcimenti del tuo ombelico fallimentare, crocevia del cosmo! Sei soltanto passato e ridicolo, a mala pena ottocentesco. Ma almeno mi rendo utile, dico io. Mi informo ogni tanto sull'economia dell'Universo e poi agisco. Agisco... si fa per dire. Corroboro piani prescritti, cercando di ascoltare il maggior numero di urti, spinte e soffi che mi hanno voluto qui. Provo ad aggiornare, ogni tanto, la mappa sterminata di incidenti che mi ha tradotto qui. Chiaro? Comunque non mi fa paura questa mole di notizie, non mi soffoca di impotenza o di rabbia puerile. Io ci nuoto come una papera felice in questo oceano di radiazioni. Seguo l'onda che mi trascina più forte, la cavalco, me ne compiaccio. Oppure agito le antenne come un ventilatore impazzito, falciando l'erba volante di tutti quei segnali, mescolandoli e perdendoli. Già, prima di scomparire provoco i miei danni, in tempo reale, senza stare troppo a interpretarli. Mentre la ruota di pietra del mulino mi macina, mi illudo di incepparla con le mie ossa, capito? Oggi è il primo luglio e se questo fosse un campanile di campagna potresti vedere attorno alla sua cima la giostra impazzita delle rondini che stridono stridono e non si scontrano mai. Trenta quaranta cento, polverizzate sopra la tua testa, ali nere appuntite a caccia di cibo, curva linea angolo, caduta e slancio, fuochi d'artificio di bitume tagliente, diradarsi accumulo e intreccio. Non si riposano mai. È possibile? E da dove sono arrivate? Se sto fermo ben bene son subito convinto che mi attraversano il cervello, confondendosi con i miei pensieri."
[PAUSA]
Poi abbracciò il pennone d'acciaio inossidabile del semaforo e fissandomi per la prima volta negli occhi emise un fiato sottile: "Tucti sète arbori d'amore, e però sanza amore non potete vivere, perché sète facti da me per amore."
[PAUSA]
[L'uomo che parla alza le mani e capta: occhi chiusi, concentrato, il volto verso il basso. Comincia a dimenare gli arti superiori come scacciasse uno sciame d'insetti. Poi riapre gli occhi e guarda di sbieco in direzione dell'uomo che cammina.]
Hai sentito?
[PAUSA]
Tutte le parole soffiate fuori, sfiatate. Le parole solo pensate, impazzite nel cervello, scorpioni e tarantole, bestie mute che avvelenano il sangue. Sento voci piegate, schiacciate a terra, mano che preme, braccio che spinge, colpisce, piede che spezza e frantuma. Braccato dai loro cani, morso profondo nel collo, denti senza labbra, lingua di rasoio che non conosce lo stupore del tu. Se fossi diretto, se fossi chiaro, sarei complice di quelle grinfie, di quel caino afferrare. Non ricordo. Non c'ero. Non accordo al muscolo del cuore nessuna musica di segni, non c'è geometria ch'io riesca a tracciare - treno di storia piombato, piombo che affonda, mare divoratore del dire. La parola. La parola consegna figure, invece di bruciare.
[PAUSA]
Sporchi feriti e offesi. Ho visto compagni cittadini e fratelli attraversare quelle che tu chiami linee immaginarie...
[PAUSA]
Vieni vieni, scalpellino meridiano, sbozza fuori il mio occhio dalla cima del cranio! Io sto qui, piantato come un palo, ad aspettare il tuo lavoro. Fissa bene il bersaglio! La tua punta batte a piombo. Scalpellino scalpellino, aggiusta bene il tuo mirino... Quando cadrà l'ultima resistenza, traforata l'estrema sfoglia ossea, nel cervello sarà alluvione di luce. E nessuno per accoglierla.
Finiscila! Non sai che bisogna rendere conto d'ogni parola inutile? Va' a lavorare, piuttosto, va' a lavorare, vagabondo!
Molto eccellente cavaliero, non posso che riscontrare la necessità e il dovere di trasmetterLe il mio più sincero ringraziamento per cotanto consiglio, a cui di certo, però, non m'appiglio. Esprimo voto e fiducia, malgrado il suo ferino cipiglio, che la mia ricusazione non sia travisata in guisa di offesa volgare. Ma io rispondo soltanto all'ordine muto delle cose; io riconosco soltanto l'ordine muto delle creature senza lingua; io...
[L'uomo che cammina , che si era lentamente avvicinato con maschera sardonica all'uomo che parla, lo afferra per il collo, scuotendolo come una pertica, con effetto comico. Segue lunga colluttazione, calci e pugni, calci e pugni. L'uomo che parla soccombe, faccia a terra, ansimante.]
II. RADIOGRAFIA DEL PANICO
[L'uomo che cammina torna a camminare. Due minuti senza parole. 120 secondi. La donna seduta canticchia una ninnananna. L'uomo che parla manterrà la faccia rivolta a terra.]
Me la racconti una barzelletta?
Questa è una domanda difficile.
La risposta, forse. La domanda m'è venuta senza problemi.
Devo comprarmi un paio di scarpe nuove. Mi presti i soldi?
[PAUSA]
Perché ridi? Sono importanti le scarpe. Non posso permettermi un cavallo. E poi la barzelletta è una donna scaltra e sfacciata, non mi piace. Lo sai che i piedi sono le nostre radici mobili?
Radici mobili?
E lo sai che Darwin non osava contemplare un piede femminile, per non rischiare di credere nell'esistenza di Dio?
Chi?
Darwin. Charles Darwin. Il teologo della liberazione...
Me la racconti una barzelletta, sì o no?
Questa l'ho letta pisciando in una latrina della stazione di Pisa: CERCO MASCHIO NON GAY CHE NON SI LAVI IL CAZZO DA TANTI GIORNI PER SPOMPINARLO BEN BENE. PAGO £ 100.000. Avrei voluto aggiungere accanto l'equivalente in Euro... Ti à piaciàto o non ti à piaciàto?
Credi di provocarmi? Non fai ridere. E poi parli difficile, non ti capisco... Ma tu l'hai fatto il militare? Com'è che fanno quelle parole a venirti in bocca? Vaffanculo, io... io non ho voglia di seguirti...
Senti questa allora: pensierino rosa - ‘a son' com' la tèra: ciàpo tuto quel c'al vén'. E s'an vén' gnénta ‘a ne pi' gnénta. E s'al vén qualco' ‘a pi' ogni co'. *
[L'uomo che cammina si avvicina all'uomo che parla, gli posa il piede sinistro sulla schiena. Preme e urla.]
Non ho voglia di seguirti non ho voglia di seguirti non ho voglia di seguirti! Non ho mai sognato. Non mi sono mai ricordato un sogno. Al risveglio tutto uguale, nessun cambiamento. Tuo nonno. Mi dici al telefono che tuo nonno era sicuro di non avere mai sognato. Ogni vecchio che muore è come una Biblioteca che brucia, sai? Un film infinito non è più un sogno. Si deve interrompere per essere un sogno. Un film infinito... Lo senti? Posso parlare anch'io come te! Che me ne faccio? Che me ne faccio, se devo schiacciarti la testa? Che te ne fai, quando ti schiaccio la testa? Quando quel po' di calcio rappreso si sbriciola sotto la mia suola e tutti i tuoi libri sgusciano fuori da quelle feritoie senza più dire niente, senza potere niente, che te ne fai, allora? Quando senti il passaggio ultrasonico dalla tensione delle pareti che resistono al crollo farinoso di quelle lamine mirabilmente ricurve e poco prima compatte, adesso neppure briciole alla mia tavola di predatore, cosa accade allo zoo delle tue parole? Vedo le tue fibre spugnose sparpagliate a terra, senza ordine alcuno, e il vocabolario sta chiuso, chiuso come il pugno di un bambino che non vuole mollare quello che nasconde. Non dici nulla, adesso? Non dici nulla? Fai schifo! Non vedi che fai schifo, qui, a terra, alla mercé del mio capriccio? Mi ricordi mio padre, quando si ubriacava in casa e trattava tutti come merde e non sapevi più se aver pietà o fracassargli le ossa. Perché cazzo ci ha messo al mondo, allora? Vipere piene di veleno, risentite. Aprite bocca ed è un tanfo anche il vostro silenzio. Vergogna! Ma cosa vuoi dimostrare con la tua presunzione di cartapesta? Cosa vuoi dimostrare con i soldatini grotteschi delle tue parole?
[PAUSA]
[La donna seduta interrompe la nenia primordiale e monotona. L'uomo che cammina riprende a camminare...]
Non cambierà mai Continuerò a camminare avanti e indietro Come un lupo Su qualsiasi pavimento...
[PAUSA]
Ancora.
Che cosa vuoi tu?
Ancora. Schiaccia ancora. Spremi e schizza.
Il contratto è sfondato, nessun rapporto obbligatorio vincola i nostri atti. Se chiami il sole la ruota dell'ordine che non finisce mai è una pia menzogna, un abbocco mimetico, per costringere tutti quanti a giocare la stessa parte. È difficile capirmi, lo so. Io non sono uguale a voi. Non c'è nessun termine che ci accomuni, nessuna qualità condivisa, nessun desiderio che suoni con lo stesso nome, nessun problema posto e risolto nello stesso modo. Il diverso per me è la regola. Proverei stupore nell'incontrare qualcosa che mi assomigli. Dovrei stringere la mia lingua come un pugno, invece che frantumarla in suoni. Se vi parlo, è per farmela inchiodare al legno della vostra sordità. Il male è natura antica, una cicatrice ottusa. Il sole è una bestia. È generoso perché non lo sa. Il presente non ammette spiegazioni. Staccarsi da queste cose e non guardare più.
Intenzioni sdentate, piccolo... Ma non lo sai che non esistono più i posteri? Non ti sforzare, lascia perdere.
[L'uomo che parla prende a tastarsi freneticamente il corpo. Sempre faccia a terra, voce forte e in falsetto, scandita.]
Esame del torace: nessuna lesione polmonare o pleurica. Ombra cardiaca nei limiti. Esofago con buona peristalsi. Abbondante liquido e deflusso. Il bulbo duodenale si distende e si contrae bene e non presenta ulcere. Stomaco un po' allungato e ipotonico, senza lesioni organiche. Modesta ematomegalia con ecostruttura diffusamente iperriflettente di aspetto steatosico. Nessuna lesione focale. Colecisti e vie biliari non dilatate. Disegno vascolare conservato. Pancreas di aspetto ecografico regolare. Eccessiva risposta tachicardica allo sforzo, recupero ritardato. Flussimetria doppler normale. Segni spondilo-artrosici osteofitici a livello cervicale. Corretta posizione dei segmenti di frattura delle clavicole. Frattura biossea dell'avambraccio destro. Nessuna alterazione osteo-strutturale al piede sinistro.
[PAUSA]
Aspetto limpido. Colore giallo paglierino. Si consiglia di applicare bendaggio elegante.
[Sonora risata dei dodici spettatori.]
Guarda che non impressioni più nessuno!
[Due minuti senza parola. 120 secondi. Tutti immobili, tranne l'uomo che cammina. Si ferma un paio di volte per abbracciare da dietro, inginocchiato, la donna seduta. La seconda volta la solleva insieme alla sedia. Si volta verso i dodici spettatori. Applaudono freddamente. Posa a terra la donna, che si rimette da sola nella posizione precedente. L'uomo che cammina riprende a camminare.]
[Un enorme e pesante sacco di juta cade dall'alto. Schianto, nube di polvere che si solleva. L'uomo che cammina, dopo qualche secondo d'immobilità e sorpresa, vi si avvicina, slaccia la corda che ne chiude la cima, infila la mano, fruga ed estrae una busta azzurra. La osserva. Si dirige lentamente verso l'uomo che parla. Gli appoggia la busta sulla nuca.]
C'è posta!
[L'uomo che parla muove con cautela il braccio sinistro, afferra la busta, se la pone davanti agli occhi. D'improvviso si mette in ginocchio. Tira fuori un coltello a serramanico dalla tasca destra dei pantaloni, fa scattare la lama, taglia con precisione la parte superiore della busta, chiude e ripone il coltello nella tasca. Estrae due fogli scritti a mano. Li fissa a lungo. Comincia a leggere.]
III. RADIOGRAFIA DI UN ALBERO
«Amore mio dolcissimo, anche se hai cercato di insegnarmi a non impiegare più queste parole, a diffidare del cibo masticato da troppe bocche, continuerò a chiamarti così. Ti ho cacciato, è vero. Ti ho desiderato come una preda, ti ho rincorso con la fame nella bocca nei fianchi nel ventre nelle mani negli occhi. Ti ho braccato afferrato stretto carezzato e divorato. E adesso ti caccio, ti respingo. Vedo da fuori, da fuori di me, questa necessità terribile che mi ha obbligato al gesto che ti allontana, alla distanza che mi sono presa. Questa necessità leggera, questa polvere che soffio via dal mio palmo, questo vigore nuovo che inonda il sangue delle gambe e delle braccia, questi colori accesi che penetrano le mie pupille. Mi vedo fuori di me e non posso trattenermi. Mi vedo fuori di te e mi pare che la stella polare non sia più l'indistruttibile, come sostenevano gli antichi. Il mio navigare, d'ora in poi, sarà una deriva. E mi dico ad alta voce: va bene, va bene così...
[PAUSA]
[L'uomo che parla scorre in avanti la lettera, borbottandone le frasi. Poi riprende.]
Che buffone che eri, ti ricordi? Mi inventavi continuamente delle storie ridicole, e io ci cascavo. Come quella della tua famiglia che ti odiava e che aveva già preparato la tua lapide con inciso: COSÌ IMPARI! - firmato: I TUOI CARI. Passavano minuti e minuti prima che tu arrivassi alla conclusione, preparavi il tuo terreno con meticolosa e sadica sapienza. Io mi turbavo per tutti i retroscena, per le tue ansie, per le tue frustrazioni, poi scoppiavo a ridere, inseguendoti per la stanza, per picchiarti e baciarti.
[PAUSA]
[Trasognato. Ricomincia a leggere. Poi si sovrappone la voce della donna seduta, adesso in piedi. L'uomo che parla si zittisce, continuando a seguire la lettura, e alla fine accartoccerà i fogli e la busta dentro la tasca destra dei pantaloni.]
Qualche anno fa avresti voluto incominciare a girare un film: mi sarei ripreso dieci secondi al mese, dicevi, per tutta la vita, ripetendo le parole: invecchio invecchio invecchio... Troppo faticoso. Ogni progetto è troppo faticoso, adesso. Sei una lampadina spenta, non te ne accorgi? Lo sai, vero? È questo il guaio.
E ti ricordi quello che mi scrivevi? "Domandami Molte Cose. Si avvicinano le due di notte, zampettando vellutate sulla mia testa. Il vento sa essere una carezza, protetti dalle mura e dalle luci della casa. | E ti ricordi quello che mi scrivevi? "Domandami Molte Cose. Si avvicinano le due di notte, zampettando vellutate sulla mia testa. Il vento sa essere una carezza, protetti dalle mura e dalle luci della casa. |
Ho bisogno di una casa tutta mia dove gustarmi questo tempo, insieme a te. Ho bisogno di silenzi e sicurezze minime, per provare ancora lo spavento e lo stupore del bambino, per restituirli al mondo come veleno e vita. Domandami Molte Cose. Te lo ripeto. Te lo chiedo. Te ne prego. Genuflesso. Con il sale sotto le ginocchia. A capo scoperto sotto il rasoio della tramontana. Buffonesco. Amorevole. Infantilmente disperato. Muto. Insopportabilmente loquace. E prima di smettere di leggere e di cominciare a pensare, immagina le mie labbra e la mia lingua che si confondono con la tua carne. Mi stringi la testa fra le cosce. Voglio sentirti rispondere anche in mezzo al piacere. Esci un po' con me. Portami via. Scendere di nuovo nell'acquario dei giorni e delle notti, dopo questi nostri viaggi, dopo le fiabe e i piaceri, sarà soltanto un piccolo gioco di prestigio con cui inganneremo le regole altrui, senza neppure il bisogno di ostentarlo. Nei prossimi mesi ti violento ogni giorno. Te l'ho promesso al telefono. Mai fare promesse, vero? Pazienza. Io ci provo. Almeno ci provo! Ti violento con le parole e la bocca, con le manine e con il cazzo. Ma soprattutto con la tenacia del mio mondo inutile. Va bene? E se non va bene, insisto lo stesso. Ciao morosa etrusca, bastarda piccola troia dagli occhi ferini. Ciao."
[PAUSA]
Ho bisogno di una casa tutta mia dove gustarmi questo tempo, insieme a te. Ho bisogno di silenzi e sicurezze minime, per provare ancora lo spavento e lo stupore del bambino, per restituirli al mondo come veleno e vita. Domandami Molte Cose. Te lo ripeto. Te lo chiedo. Te ne prego. Genuflesso. Con il sale sotto le ginocchia. A capo scoperto sotto il rasoio della tramontana. Buffonesco. Amorevole. Infantilmente disperato. Muto. Insopportabilmente loquace. E prima di smettere di leggere e di cominciare a pensare, immagina le mie labbra e la mia lingua che si confondono con la tua carne. Mi stringi la testa fra le cosce. Voglio sentirti rispondere anche in mezzo al piacere. Esci un po' con me. Portami via. Scendere di nuovo nell'acquario dei giorni e delle notti, dopo questi nostri viaggi, dopo le fiabe e i piaceri, sarà soltanto un piccolo gioco di prestigio con cui inganneremo le regole altrui, senza neppure il bisogno di ostentarlo. Nei prossimi mesi ti violento ogni giorno. Te l'ho promesso al telefono. Mai fare promesse, vero? Pazienza. Io ci provo. Almeno ci provo! Ti violento con le parole e la bocca, con le manine e con il cazzo. Ma soprattutto con la tenacia del mio mondo inutile. Va bene? E se non va bene, insisto lo stesso. Ciao morosa etrusca, bastarda piccola troia dagli occhi ferini. Ciao."
Adesso t'immagino con quegli altri due, a fare sempre le stesse cose, tutte le sere. Perché? Il mondo è grande e scorre via veloce. I ciliegi qui sono esplosi ovunque. Perché ti sei convinto che sia meglio costringerti in quel gioco ridicolo?
[PAUSA]
Mio figlio ha quindici mesi, sai? Stamattina s'è svegliato di nuovo con l'otite. Si toccava le orecchie, piangendo, e ripeteva: ooocchi!! E non potevo fare a meno di ridere, carezzandogli la nuca. Ti abbraccio. Che strano scrivere: ti abbraccio.»
[PAUSA]
Di' la verità, te la sei scritta da solo, no?
[La donna seduta torna a sedersi, l'uomo che cammina cammina, l'uomo che parla resta in ginocchio.]
Mi pagano. Mi pagano e devo farlo... Comunque la lettera l'ho capita, almeno quella.
Sento già l'erba che danza sopra di me. Mi ascolti? Li vedi i miei capelli come crescono in fretta? E le mie unghie? Di una cosa sono certo: non ho voglia di lavorare. Forse mi esprimo male: non posso proprio lavorare. Sono sempre un passo indietro. Mi fermo a pensare - così ripeto tra me e me - mi fermo a pensare... Ma davvero penso? E soprattutto: davvero mi fermo? Sempre in ritardo. Arrivo sempre dopo, quando tutto è già stato fatto. Ma tutto cosa?
Sei così raffinatamente immaturo...
Bella questa... Da te non me l'aspettavo.
E non sei un vero straniero: non sai controllare la tua bocca. NON SAI CONTROLLARE LA TUA BOCCA. Va' avanti!
Delle ore a parlare e tacere insieme, di notte. Ti sentivi parte di un viaggio più grande di te. Pensavi che l'alba non sarebbe mai arrivata. Ogni sguardo, ogni omissione di sguardo, erano palpabili come un abbraccio. Scambiavi la densità calda di quell'atmosfera per una complicità senza fine. Non c'era bisogno d'altro. Non c'era rimando ad altro: rabbia, rivolta, attesa, progetti di fuga o lavoro. Quando il chiarore appariva, ti stupivi della forza calma che restava inscritta dentro la tua stessa stanchezza. Vertigine della terra che ruota. Vertigine del firmamento cancellato in un velo d'azzurro. Mare di nuvole che riprendeva corpo dal buio. Gli odori della polvere, la resina degli alberi, il pane appena sfornato - la guazza sulle spalle, nei capelli, nella materia ombrosa della voce - i suoni distinti degli uccelli, delle finestre che si aprono, delle automobili che partono - le parole mattutine di altri, quotidiane, semplici, finalmente con un loro volume, con una radice sopra e una sotto... Camminare in silenzio, assieme, era il vero compimento. Unica disdetta: non tanto il bisogno di dormire, così dolce, così invitante, quanto l'anticipazione del prossimo risveglio, che avrebbe inaugurato di nuovo il tempo falso degli orologi.
[PAUSA]
È proprio tutta colpa mia se non mi fido più? Questo ordine senza bandiere...
[PAUSA]
[Canticchiando.]
"Il mare va a ritroso, il mare va a dormire...".
[L'uomo che parla, dopo una manciata di secondi di sorriso immobile ed ebete, si mette a mimare con le mani e con le braccia l'incipit del primo movimento dell'Incompiuta di Schubert, mugolandone la melodia, denti stretti, labbra serrate. Appena terminato questo abbozzo impressionistico, dietro di lui i dodici spettatori prendono a vocalizzare a pieno volume le due linee portanti dello stessa tema, con l'uomo che parla compiaciuto e compreso nella nuova parte di direttore d'orchestra, continuando però a dare le spalle ai suoi strumentisti. L'avambraccio sinistro, per un paio di volte, compirà un perentorio gesto di "taglio" orizzontale, a sospendere di netto il flusso del neonato coro, subito istigando la ripresa di evoluzioni su temi successivi della stessa sinfonia. Smetterà di colpo, riprendendo l'altro gioco, quello della parola. Nel corso della fase centrale di questo duetto polifonico, l'uomo che cammina parlerà, continuando a deambulare.]
Io non so parlare così bene. Non so neppure cantare. Si può ancora dire la parola "borghese"? A giugno l'odore dei mughetti delle vostre siepi m'è dolce lo stesso, anche se vi ripara dai miei sguardi di strada. Però non posso fare a meno di scagliare fiondate alle viole del pensiero sui vostri terrazzi. E me la ghigno come un teppista quando la terracotta dei vasi esplode in frantumi...
[PAUSA]
La prima volta che ho masticato questa frase era notte, le tre di notte, e faceva caldo, molto caldo, cominciava anche a piovere, scaricando a dirotto l'afa della giornata... Io non trascorro mai le ore del buio con una penna in mano. I miei occhi stanchi leggono soltanto fulminanti scritte al neon, insegne metalliche con lampadine sbiadite, vernici su legno illuminate dai lampioni, che sfrecciano dal parabrezza ai finestrini, a destra, a sinistra, a volte chiusi, a volte aperti, e poi si invertono nel lunotto riflesso dallo specchietto retrovisore... e non mi raccapezzo. Davvero. Ferramenta Fagioli Centro Estetico Essere Discount Alimentare Insieme Porcellane Tam Tam Compagnia di Facchinaggio Boutique del Pane L'angolo del Mobile Lavanderia la Splendida Follia Pub Elettromeccanica Navale Civile La Piramide Arredamenti Pietrón Onoranze Funebri Immobiliare Vita Nuova Marmi Graniti Mondiali Centro Tim Neuromercato Figurella Bellezza Programmata Autosalone Nuovo Usato Tende da Sole Arredi Sacri Ego Center Casa Sicura Pi Erre Qu...
[PAUSA]
Il nastro di catrame del fondo stradale, cosparso di buchi democratici, rimanda sussulti e vibrazioni che fanno scricchiolare il tuo ossame contorto, vero? Vero!? A proposito di barzellette: hai mai visto la tua faccia appena sveglio?
[L'uomo che cammina si avventa come un rapace sull'uomo che parla. Lo sbatte a terra, prono, afferrandogli le braccia, alle quali fa compiere una dolorosa torsione, che strappa un lungo latrato o piuttosto uno squittire di topo all'uomo che parla.]
Fa' un respiro profondo...
Bene...
Così...
E adesso caccia fuori tutta l'aria!
[L'uomo che cammina schiaccia con il ginocchio sinistro la spina dorsale dell'uomo che parla, sempre tenendolo per le braccia. Amplificato dalle cartilagini delle dita dei dodici spettatori schioccate in sincrono si sente il crocchiare secco delle vertebre dell'uomo che parla. Gemito, ma quasi di piacere. L'uomo che cammina torna a camminare, veloce, sempre più veloce, disegnando un'ellissi che ha per fuoco vivo la donna seduta. Quando il respiro s'è quasi normalizzato, l'uomo che parla, sempre spalmato al suolo, riprende l'uso della voce.]
Ho deciso. Mi sdraio a terra. Sono una lucertola immobile. Muovo la lingua solo per cercare il cibo. Qualche mosca passerà. Succhio il sole con la mia pelle cangiante, fissandomi per sempre in questo punto d'estate.
[PAUSA]
[Canticchiando.]
"Il mare va a ritroso, il mare va a dormire..."
[L'uomo che cammina inciampa, bestemmia qualcosa d'incomprensibile, poi si rivolge ai dodici spettatori, seduto.]
Pioppétte e io sguisciolài nella sléppega... *
[Risatine soffocate dei dodici.]
IV. RADIOGRAFIA DELLA RIVOLUZIONE
[La donna seduta chiude gli occhi.]
Mi sono appena alzata o devo ancora dormire? Mattina presto. Una vecchia in piedi accanto al letto. Pronuncia questa frase a qualcuno che è entrato nella stanza. La pronuncia per se stessa e nel farlo la sua voce non le appartiene più. Nell'immobilità si spalancano frantumi di luce. Ricorda tutto del passato, anche quello più remoto. I morti sono ancora vivi. Il suo nome spesso non lo sa. Dimentica subito quello che le si è appena detto. La sua età è quella di una bambina. A volte piange in silenzio. E quando le chiedi perché, non sa rispondere.
[PAUSA]
La vecchia è la nonna di Beatrice. La mattina, una mattina di novembre. Perché continuo a nominare i mesi? La vecchia è sempre in piedi. Che dirle? Le parole colano dentro la sua testa come acqua nell'acqua. Traboccano nello spazio. Non sa più che cos'è dentro, che cos'è fuori. Provi a parlare. È un volto atono quello che ingoia la tua voce. Terra d'ombra. Ti specchi in quella cancellatura di ogni febbre di vita. Le tue parole cominciano a uscire a scatti. Diventano rarefatte. Adesso guardi e basta. Che cosa guardi? Una montagna che ignora le leggi della geologia. Una stella che ha preso a bruciare lenta, sempre più lenta. L'erba dei capelli plasma onde impercettibili sul cranio alitato dagli spifferi che penetrano la casa. Chiudi la porta, chiudi la finestra, spranghi l'inverno con gli abbracci, con i libri, con i voli, con i biglietti da centomila, con la traiettoria d'insetto dei viaggi, con la fame placata di ora in ora, con la sete della bottiglia senza fondo. Un brivido sottile come un serpente invisibile percorre con la sua gelida lingua, vertebra per vertebra, l'intera lunghezza della tua spina dorsale, dalla spaccatura in basso fino al collo. È la stessa corrente d'aria che solleva appena il grigio sulla fronte della donna. Quanto dura ancora tutto questo? Quando ti decidi a lasciare la stanza? E come lo farai? Quale sarà il tuo sguardo per sottrarti alla radiografia involontaria delle sue pupille?
[La donna seduta apre gli occhi e divarica le gambe, aiutandosi con le mani premute sulle ginocchia.]
Eppure c'è stato un giorno, anzi era una notte, in cui ci si trovava seduti a terra attorno al fuoco e si parlava in un altro modo e anch'io capivo quello che si diceva e il mio capire partiva dalla pianta dei piedi, dallo stomaco, dal ventre, dal sorriso della bocca. Non dovevo comprimere le tempie con le mani e provare a decifrare. Non è che mi sto inventando tutto, eh? L'ho sognata questa cosa? Me l'ha raccontata qualcuno tanti anni fa? quando il mio seno non c'era ancora, quando il compasso delle gambe misurava la piccola stanza del sonno come fosse una barca enorme lanciata nel firmamento, quando svegliavo mio padre per chiedergli: come si fa il cinque? quando gli occhi scorgevano quello che le mani mai avrebbero toccato...
[PAUSA]
Mi ha slargato le labbra e ci ha infilato la lingua e il cielo dilagava rosso sotto le palpebre chiuse e il corpo molle e duro che si muoveva sopra di me non sapeva di portarne un altro che avrebbe riempito il mio con più forza. Mi ha divaricato le labbra con le dita e sembrava cercare qualcosa con lo sguardo ma poi ha chiuso subito gli occhi anche lui. È dentro. Preme, gonfia e scalcia. Le acque non si vogliono rompere. Ingrossa, pulsa e batte. Perché vuole uscire? Non voglio farlo uscire. È mio.
[La donna seduta infila il mignolo della mano destra nel buco dell'orecchio destro. Lo estrae rapida, uncinando con il polpastrello l'orlo di carne del meato acustico. Schiocco secco di bottiglia stappata.]
È vuota.
Vuota.
[Sussulto di risata breve tra i dodici spettatori. Immagino che a qualcuno rimanga un po' di schiuma bianca agli angoli della bocca. L'uomo che cammina - sempre seduto - compie una torsione del busto verso l'uomo che parla - muto, a terra.]
"Come faccio a stare fermo, io, che ho un padre ucciso e una madre insudiciata a tormentarmi la testa e il sangue, e lascio tutto nel sonno, mentre a mia vergogna vedo la morte imminente di 20.000 uomini che vanno alla tomba come si va a letto, e combattono per uno straccio di terra che non è neppure sufficiente ad accogliere tutta questa carneficina? I tuoi pensieri non contano niente, adesso, capisci? I miei pensieri non possono essere che di sangue, adesso."
[PAUSA]
Idiota, te le ricordi queste parole? Idiota, t'offendi se ti chiamo così? Non vuoi reagire? È arrivato anche per te l'infame buonsenso? Fai finta di dormire?
[Piombano a terra due sacchi di juta, pesanti, accanto al precedente. L'uomo che cammina si alza e si avvicina ai dodici spettatori. Dall'alto scende lentamente un lungo tubo nero di gomma, all'altezza del volto dell'uomo che cammina, che lo afferra e lo avvicina alle labbra come fosse un microfono. Si rivolge ai dodici con voce stentorea.]
Carissimi elettori elèttrici, carissime elettrìci magnetiche, mettiamoci in corto circuito e sovvertiamo con un magnifico slancio regressivo la stagnazione plumbea che regna sovrana in questo luogo abbandonato da dio... prestatemi occhi e orecchie per qualche istante. Stasera ho imparato Molte Cose. In questa meravigliosa notte di plenilunio...
[L'uomo che cammina compie un enfatico gesto con entrambe le braccia a illustrare l'implacabile biancore al magnesio dello spazio circostante.]
...ho appreso la forza e la vanità. Vi è mai capitato di incrociare il vostro stesso sguardo nello specchietto retrovisore dell'automobile che state guidando? Se gli occhi che vi inchiodano la faccia sono quelli di un rettile che muove le membra soltanto per attacco o per difesa, sappiatelo: in quel momento io sono con voi. Nessuna ciarla ragionevole sarà in grado di persuadervi, nessuna carezza, nessuna tenerezza, nessun gesto lieve riuscirà a sciogliere il basalto nero e opaco di quelle pupille. Credetemi: io allora sarò con voi. È per questo che adesso vi chiedo: votate il sacco!
[Col braccio sinistro l'uomo che cammina indica dietro di sé i tre sacchi a terra.]
Votate il sacco, perché c'è libertà là dove un peso ha smesso di precipitare, perché c'è libertà là dove un peso ha rinunciato alla sua corsa verso il basso abisso - bella questa, vero!? Quasi quasi me la ridico...
[PAUSA]
Guai, guai a chi ripete gli errori di sempre! La ripetizione è un incubo. Stagioni dopo stagioni vi trovate con le stesse facce attorno dentro e davanti, e magari vi impegnate anche a restaurare il medesimo volto che si sta sgretolando sotto le mazzate dei giorni che ruotano su se stessi... guai, guai a chi alberga l'incubo della ripetizione! Se volete cambiare, votate il sacco! Stasera anch'io sono rettilineo o rettiliano che dir si voglia: fissate bene il porpora buganvillea di questi occhi... tuffatevi dentro al pozzo in cui si caglia la mia loquela... e non accusate l'autore perché adesso ho cominciato a parlare raffinato anch'io, o almeno ci provo, quasi come l'altro, sì, quello là, l'umiliato, il logorroico... non l'accusate di incoerenza... contadino scarpe grosse cervello fino... ho imparato presto, non mi sono distratto, ho incamerato le voci, le movenze, i balzi sordi del suo argomentare, e adesso sono qui, a proporvi di riconsiderare i fondamenti primari: Pane Acqua Fame Sete Bisogno... Seguitemi! E io vi riporterò alla terra. Fra una manciata di secondi saranno trascorsi molti secoli. Della mia voce rimarrà un vibrato impercettibile e lontano, che andrà a diluirsi nel rumore di fondo delle cose, sottraendosi a ogni comprensione partecipe, senza scampo. Riuscite? Riuscite a sentire sulla pelle la lama spietata di questo: senza scampo? E allora muovetevi: se desiderate una legittima e adeguata rappresentanza per la vostra inerzia, votate il sacco! Vi riporto alla terra, perché al mare non saprei riportarvi. Lo ammetto: soltanto adesso comincio a sapere poche cose. Ma ve lo posso garantire: queste poche cose, invecchiando, diventeranno sempre di meno. Che sono cinque miliardi di anni, ditemelo, che sono? La durata media di una lampadina. Non mi trovo qui per lodare il sacco, ma per seppellirlo e basta, è chiaro? Non delegate il vostro futuro. E soprattutto non delegate il presente, non delegate niente, proprio niente, ad altri corpi semoventi: votate il sacco! Le frasi non appartengono a nessuno. Le mie frasi non appartengono né a me né a voi. Vi riporto alla terra, perché possiate poggiare sul solido e camminare, con la testa e con i piedi. Votate il sacco e ditemi di sì, non un sì sfiatato, un piccolo peto che scivola dalle vostre labbra, un sospiro esausto di timido assenso; voglio un sì pieno, un sì che faccia il giro dell'orizzonte e torni al punto di partenza sano, integro, invariabile. Votate il sacco... e che non se ne parli più!
[L'uomo che cammina comincia a emettere ordini perentori, ai quali i dodici spettatori ubbidiscono macchinalmente.]
In piedi!
Di schiena!
Spogliatevi!
[L'uomo che cammina punta il tubo verso i dodici corpi. Fuoriesce un violento getto d'acqua. Quando il lavacro è al termine, si avvicina a ognuno di loro e appoggia alla nuca una pistola che estrae dalla cintura dei pantaloni. Dodici detonazioni a intervallo regolare. I corpi rimangono in piedi. L'uomo che cammina si mette accanto all'ultimo corpo, le braccia lungo i fianchi, pistola stretta nella mano destra, di schiena al pubblico. Batte a terra regolarmente con il tacco dell'anfibio destro. La donna seduta si alza e indica l'uomo che parla, a terra.]
"Conosco la forza delle parole. Sembra un niente".
[PAUSA]
È morto un giorno che non mi ricordo. Le cause sono note. Così dicono. Vladimir Majakovskij era un poeta. Ha lasciato una lettera che non vi leggerò. Lui detestava i pettegolezzi. Non assomigliava per niente a quello là. Niente di quello che avete ascoltato può essergli attribuito. Forse.
[PAUSA]
[La donna abbassa il braccio e si mette in piedi sulla sedia, spalle al pubblico.]
Ho sognato il mare che mangiava tutto. Dove toccavo, cancellava. Gli occhi strisciano lungo l'orizzonte. Nessuno guarda il sole a mezzogiorno. Fuori le strade sono asfaltate. Una lingua dura di catrame e cemento. È difficile ascoltare un terremoto che arriva, così. È difficile appoggiare l'orecchio a terra e sentire.
[L'uomo che cammina si volta di scatto, sorridente, salutando il pubblico con la mano sinistra. Simultaneamente si fa buio. La persistenza retinica - stimolata dalla protratta intensità bianca della luce - provoca una lenta dissolvenza in nero delle figure. Ronzio elettrico spento. Si avverte soltanto lo sgocciolio dei corpi bagnati.]
Adesso esco. Metto in moto l'automobile. Credo di farcela. L'asfalto solletica i pneumatici. L'abitacolo cigola e sfreccia. Dovrò chiedervi un piccolo contributo: quanto costa un anno luce di benzina?
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