UN RUMORE CHE PARLA
Tutto questo accade perché è in corso un grande incendio. C'era un tempo in cui le parole non esistevano. Ci sarà un tempo in cui le parole non esisteranno più. Il grande incendio continua e insiste. Collasserà anche lui, esploderà nel buio, si raggelerà di se stesso, sfinito. Canterà vibrando fino all'ultimo quanto, allo zero assoluto, e nessuno racconterà questa festa, nessuno spettatore. Mi guardo il cazzo come se lui potesse spiegarmi tutto questo. Tutto questo che sta accadendo, che vola via. Ma se la terra gira così veloce attorno al proprio asse, perché non siamo tutti più spettinati? Il cazzo fa parte di questo grande incendio. E anche la fica. E tutti i tessuti e le fibre e gli umori. Anche le frasi di cenere che escono dalla mia bocca, che restano rinchiuse nella prigione del cranio. Anche la danza delle mani sulla tua pelle. Anche la repulsione dei volti, degli specchi. Anche la vergogna. E la divaricazione momentanea delle labbra in un sorriso.
Mi presento.
No, non mi presento.
Sa di militare, di televisione.
Questa è una radiofonia disturbata.
Finisce sempre che parliamo a vanvera. Come dire: la giraffa viene nel cervello. I'm not here. La giraffa viene nel cervello, mi fa con l'aria sicura, che non ammette repliche, dal basso dei suoi tre anni. Tra poco me ne sarò andato. Lo senti il vento, fuori? Scuote le persiane chiuse, scuote l'avvolgibile e le serrande, si infiltra sibilando tra le fessure. Scrivo che non sono qui e parlo a vanvera. Ma che membro gigantesco avrà il maschio della giraffa? E se mi viene nel cervello, dove allagherà tutto quello sperma senza speranza, finalmente liberato dall'ansia biologica della speranza?
I fiati vengono da lontano. Si sovrappongono in tappeti di suoni, lucidi accecanti di ottone, urlanti nel buio. Tieni il ritmo, ti prego, tieni il ritmo. L'unica preghiera, l'unica verticale che disegno, oggi. Sono sveglio, no? Tieni il ritmo, mentre dilato le vocali, le slargo sempre più, le sciolgo nel brodo di questo ronzio che chiami musica, all vibrations, thought waves, heat waves, così non mi ascolti, non mi ascolti più, e così non mi spiego, mi abbandono. Le corde vengono segate all'osso, sono violini, dentro la testa. Il cuscino è odoroso, impregnato. Hai tenuto il ritmo, i nostri fiati hanno cantato, ci siamo già dimenticati.
Non raccontare storie, mi dicevano da piccolo. E adesso chiedono tutti soltanto storie.
Le pareti considerate da fuori. Riparano contro il vento e la pioggia, stabilizzano rispetto alle escursioni termiche. Una tenda nel deserto inospitale di questo viaggio cosmico. Le pareti da dentro. Oppressione luce che si sgrana vomitosa sull'intonaco ingiallito, bulbo che riflette monco il grande incendio, macule d'insetti schiacciati durante l'estate, sbavature di ragni ossessivi, qualche forma regolare di quadro staccato, rettangoli vuoti come specchi al mattino.
Rimbocco le coperte al bambino, ha un soprassalto, spalanca gli occhi annacquati nel sogno per il tempo di un battito d'ali di farfalla, si difende muto, fa schermo con le braccia, sollevando di qualche grado, meccanico, il busto. Ricade scomposto, con un risucchio di respiro. Non gli canto la mia canzone, la canzone delle ore che restano. Non la ricordo più.
Ultimo sogno della notte, primo sogno dell'alba. Mi dicono che lui è morto. Si sciolgono le ginocchia, piombano a terra, ruoto col busto a cercare la porta a vetri dell'ospedale, fracasso il gomito a terra, sbatto pugno cinque dita e ossa contro il catrame della strada, non sento dolore, un formicolio lungo gli arti, interruzione momentanea dell'afflusso sanguigno, tachicardia asfissiante al risveglio. Portava gli occhiali? Mi chiedono se portava gli occhiali. Che c'entra? Uno di loro mi guarda con espressione stupita: ma come, non lo sapevi?
Il vento spazza via l'umido da questa regione di paludi antiche, di acquitrini mai sanati, e porta con sé il salmastro e il mare. Anche i suoi alti e bassi umorali sono riflesso di riflesso del grande incendio. È grave. La gravità è grave. Attratto sarai tu.
Collisione di nuclei pesanti - oro, per esempio - accelerati ad una velocità prossima a quella della luce, per generare uno stato imprevisto della materia, una pantomima dell'origine. Nel labirinto del buio. Perché ho segnato questa frase? Uscendo dal cinema è affiorata alle labbra. Le particelle girano e girano, vorticose, lungo il tracciato di quest'olimpiade della distruzione, avide del fuoco d'artificio che le scomporrà in traiettorie senza più il loro nome. Nel labirinto del buio, uscito dalla camera autistica del cinema, vedo tutte le mie traiettorie ridotte alla cifra unica di una X. Linee convergenti, punto d'incontro, e subito via, in fuga. We'll never meet again.
Un giorno. Un giorno niente più parole. Come prima. E si ballerà. Un ballo impersonale, una danza felice. Un giorno che non sarà un giorno. Nessuno a tracciarlo sulla liturgia consunta di un calendario. Questa schiavitù del ritorno, questa felicità del ritorno. Che altro è la rivoluzione?
Tutto quanto accade accade perché è in corso un grande incendio. La combustione divampa giorno e notte. Smuove onde elettromagnetiche verso il grumo di terra che calpestiamo. Un incendio che non sembra mai perdere il controllo. Siamo troppo lenti. Siamo troppo brevi. Il controllo l'ha perso da sempre. Punto la piramide del mio sguardo contro tutta quella matematica devastante, a mezzogiorno, demone meridiano di me stesso. Non guardare il sole! mi urlano. Il sole non si guarda mai direttamente. Perché devo continuare a fare filtro, a giocare di sponda? Non mi si dica che perdo la vista. Che cazzo sto facendo, giorno dopo giorno, sonno dopo sonno, cacata dopo cacata, silenzio dopo silenzio, se non perdere la vista?
Lo stronzo non voleva scendere. Si intasa alla porta dell'ano, lo sfintere contratto e gioioso. Non voleva scendere, e il volto si inturgida di rossosangue. L'odore è la mamma di tutte le cose.
Il sonno ha plagiato i pensieri. Sono in fila, uno dietro l'altro. Mi sembrano vestiti di bianco. Ormai senza volto, appaiono tutti uguali. Si gettano dentro l'acqua e non riemergono più. Come in una fiaba. Quando ti svegli subito, dopo appena un quarto d'ora, un filo leggero di bava si forma a un angolo della bocca, viene assorbito dai tessuti delle coperte o dalla manica della tua camicia incastrata tra bocca e letto. Quando dormi profondo, tutta la notte, quella bava non esce. Se scrivo sono sveglio o dormo? Un ticchettio regolare, come insetti di secondi attutiti che esplodano dall'orologio. Sta cominciano a piovere, l'acqua precipita puntuale contro il vetro. Una mano si leva da sotto le lenzuola per scacciare quel nulla sonoro che invade gli ultimi lembi di anestesia quotidiana. Ruoti su te stesso per premere il sesso contro la tensione accogliente del materasso. Le narici inalano fortore di capelli non lavati da quattro giorni e sudore rappreso. Il ticchettio si scioglie in cascata sul lucernario ermeticamente chiuso. Tiri su dal naso tutti quei miasmi e quelle impronte di te stesso. È meglio che l'odore di una donna, a volte. Però, a differenza, non cambia mai. Sì, è vero, ci sono gradi molteplici di intensità, a seconda della salute, delle ore trascorse in quel raccoglimento, del cibo mangiato e dei liquidi bevuti, del fiato sfiatato e di quello inalato. Deformazioni della stessa nota. E se dimentico la partitura, allora sì che canto.
Mir'lo un po'! I s'è rudolà giù pr'i brichi e i s'è sgrugnà tuto ‘l muso. Mo', quand'il vedn' so ba' e so ma' i'g sgrugn'n ‘l muso ancor d' pu'.
Adskluvfhasdfkljvhbdasfljkvhgnagnà
Soltanto polvere negli occhi. Se siete arrivati fino a qui, allora potete entrare nella danza. La distrazione è il principio di tutti i mali. L'impazienza genera la distrazione... Non bisogna sfregare le palpebre quando la polvere è entrata. Solo piangere o bere.
...
La materia è fuori di sé,
quando (si) parla,
pur restando tutto quanto
dentro la stanza delle metamorfosi
fusione di idrogeno elio ossigeno ferro
carbonio e fosforo e piombo e uranio
pensieri radioattivi e teste infiammate
sesso che circola insoddisfatto nel sangue
e corpi esplosi di uomini donne bambini
alberi antichi e mare schiumoso batteri impazziti
virus informatici e canzoni perse nello spazio
Perché è difficile arrivare al ballo di polvere e piacere, al divenire altro senza peso di pensiero gregario? Perché viviamo troppo nell'altrui riflesso, quasi che la nostra immagine nelle coscienze, nelle teste, nei corpi del mondo fosse più potente e più importante del nostro stesso sentire e toccare, andare e svanire, dolore e godere; perché mancano troppe cifre al codice genetico e sociale del nostro malessere, malstare, malcomunicare, che continua a intorbidirsi e peggiorare; perché non ci buttiamo a capofitto l'un l'altro, una volta scoperta scintilla di intesa, e preferiamo il giogo malvagio dell'abitudine, la demoniaca presunzione di sapere, di capire, di approfondire, invece di sprofondare, nel mare, nel dormire, nelle onde di cenere e piacere, di silenzio sotto il sole, di pianto calmo e gioioso dentro al grembo della notte abissale, tra i bivacchi di fuoco delle stelle, rapiti dai cavalli indiani dell'universo acefalo che si espande, che fugge e danza e non ritorna più, non ritorna più...
Perché ci facciamo traviare dalla macchina volgare della distrazione, invece di farci attrarre dal calore custodito dell'inevitabile distruzione; perché erigiamo tribunali di insicurezza e di pena, quando ad ogni giorno basterebbe la sua, di pena; perché sto qui ad enumerare tutti i perché, immaginari e reali, sciocchi e profondi, invece di ubriacare la mia carne e fare fiamma di tutti i pensieri, del loro servile ripetersi e non sfondare, non sfondare mai il limite, per toccare punti di non ritorno, per inaugurare linee folli, contagiose, allegre come ali che spuntano e volano dalla bocca, che colorano di vino ginestra rosa e buganvillea l'asfalto delle strade, il grigiore dei volti, l'indolenza delle membra...
Perché è impossibile? forse impossibile è soltanto mantenerlo nel tempo, presumere troppo dalle nostre energie, partire già scoraggiati, già addomesticati: è necessario bruciare bene, e farlo senza scrupoli, senza troppi progetti, ma c'è quasi sempre un ma che ti fotte: un ma di paura, un ma di ragione e d'esperienza, un ma di cultura o un ma di ignoranza, un ma di vigliaccheria o un ma di sobrietà, un ma di piccolo potere o un ma di impotenza divorante.
La calura mi sveglia con desiderio implacabile di un sonno più profondo. La carne approfitta di questo spazio dissodato e inquieto per affermare la perentorietà insoddisfatta delle proprie smanie sensuali. Il sole ha cotto la terra vorticosa da sotto, esaltando il proprio lavorio con la complicità del buio. Così la pressa dell'incendio stagionale spinge dal basso del suolo tellurico e preme dall'alto del cielo stellato tendente al vuoto. L'epidermide del mio corpo orizzontale viene increspata da onde schiumose di ipersensibilità elettrica, marea alimentata dalla pioggia a imbuto di bottiglie di vino rosso e immaginario, alchimia di luce e profumo travasata nei canali pulsanti delle vene, dilatazione delle bocche dei pori spalancate in attesa, avide di contatto e compimento.
Dovrei imparare un'ascesi precisa della scrittura notturna, per non debordare: esercizi atletici di silenzio, di separazione netta tra la fine momentanea del rituale della parola ruminata e l'incipit involontario del viaggio breve e onirico, altrimenti continuo a masticare macinare ripetere frasi, mulino di riverberi e disfacimento, fin dentro l'abbandono tradito dei sogni, nello stacco inconsapevole del riposo utopico, tra le agognate frequenze alfa del cervello che invoca simulacro di quiete, e si ritrova invece costellato di residui verbali anelanti uno sbocco, macerie di lingua materica che spingono per uscire.
Un cane abbaia attutito dalla lontananza, i pneumatici delle automobili strisciano in dissolvenza sul nastro dell'asfalto, ancora per poco non incandescente, martelli pneumatici infestano l'aria con sapienza sinfonica di pieni e vuoti, uccelli a miriadi si agitano di cibo e sole, è presto rispetto all'ordine immondo della fretta, alle esigenze verticali di sopravvivenza, ma devo alzarmi e secernere scrittura.
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Non so perché ho tracciato questi appunti, mesi fa, anni fa. Un rumore che parla, mi disse una volta qualcuno. Non vado da nessuna parte. No, ci vado, ma sono sempre in ritardo. Mi resta il commento. Oppure smettere di scrivere. Ma allora dovrei anche smettere di parlare, prima fuori e poi dentro.
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Fortore di carne cotta dal sole in questa mansarda fornace pentola bolle il mio sangue le mie mani al risveglio che neppure m'ero accorto quasi di dormire quelle poche ore di sonno tondo e ora le mie mani strette al muscolo del piacere insoddisfatte le mani che fanno ponte a quel profumo a quell'odore meccaniche lo traghettano verso i buchi del naso in mancanza accidentale di altri buchi da sondare di altre mani da afferrare il muscolo duro e molle e poi ancora teso da sciogliere e spillare quello che è già acqua da sciogliere e incendiare quello che non è fuoco e che cenere sarà ma poi mica è detto che devo subito bruciare anche se è certo dicono il destino universale del trasformare dissolto congelato poi incandescente del cielo della terra del sistema dei pianeti finalmente sistemati che non si vedrà più niente e nessuno ci sarà a fare e disfare e men che mai a dire toccare e capire come sparlavo ieri notte come ripetevo all'amico mio giovane all'attenzione notturna della sua mirabile sigaretta al fumo del cervello nostro che volteggiava azzurrino impalpabile nell'aria e gli sparlavo che una volta fatte tutte le eccezioni di rito e tutti i distinguo sensati ed evitati i malintesi e archiviato l'umanesimo spontaneo e la psicologia terrestre e avuta piena la pancia e nessun dolore di nervo esasperato o di osso troncato o di corpo desiderato o di nome defunto insomma una volta fatte tutte queste premesse mi si schianta il capo e mi devasta la parola mi stupisce tutta la carne e mi trabocca di lacrime vane sapere sentire che morirò e non avrò capito niente che sono già in dirittura di arrivo in spalanco di morte e non avrò capito niente che sbatto la testa contro i muraglioni del telescopio ottico e mentale in questo viaggio nell'orrore senza ossigeno degli ammassi di stelle rotanti pulsanti al confine estremo del visibile nell'immaginazione a ritroso fino al punto primordiale che poi magari è solo una goccia del tempo dello spazio e di quello che non sappiamo neppure nominare e non ci sarà più la mia bocca e gli occhi bovini a fissare tutto questo fiume di luci e masse urticanti e parole frasi spezzate sfiatate ammassate che forse se le fermo e mi faccio sosta è davvero meglio o peggio ma che importa meglio o peggio importa che dio quello che tu dici dio del mio sangue dio vigliacco che non si capacita di pensare se stesso che non ferma tutto che reclama un gesto un suono di comprensione micidiale insomma mi ripeto in cerchio che morirò e non avrò capito un cazzo nemmeno il mio con tutte quelle smanie con tutti quei turgori che non smettono mai che non bastano mai e non avrò capito nulla e questo è il mio piccolo nome la mia piccola culla Afasia che non è bella come la tua non è così antica almeno nel suono non è assenza forte di odore immane ma è quanto di esagerato e minimo che mi resta che poi se mi distraggo e penso alla tua di odorosa Afasia mi rimanda subito allo specchio senza immagine di quanto forse mi tiene in vita vivente e che forse non dovrei neppure dire per non farmi forse compatire ma non ci posso fare niente è lui che mi tiene lui il naso mucoso lui infilato nella regione circolare di un vetro tintinnante di un'ampolla trasparente di un calice cristallino con buona dose di vino rosso versato da bottiglie vino morbido profumato di frutta e terra e morte stagionale e sole animale che fruga il suolo che ci si ficca e sale lungo i tralci e gonfia l'uva nel vento nel giorno sotto la pioggia dei grilli nell'estate affogata di cicale nella luce e nel calore che poi strizzi e spremi e tocchi e lecchi dopo preciso fermentare e posa calma al buio al fresco e tace e mi piace sì che si infili nella bocca che diventa non più mia e mi piace che indugi sulla lingua devastata di parole ipertrofica di papilla cancerosa avida di altra lingua languorosa mi piace che liquido rosso si allarghi nello spazio sontuoso di gusto di sapore sì lo ammetto forse è triste e forse è solo bello che vivo da ultimo soprattutto per quello per tutti i nomi santi dal Sangiovese in avanti...
La schiavitù del cerchio - martedì 8 gennaio, a Viareggio, dopo il Principe di Piemonte, terrazza Ciano, cielo terso, tramonto caldo, filtrato da occhiali da sole nuovi e argentati, trovati a scuola da Claudia. Una struttura in legno sulla spiaggia, a un centinaio di metri dalla passeggiata a mare. Un gazebo-palafitta, figure sedute, sagome scure in controsole calante.
La ripetizione. Il tramonto come ripetizione. La ninnananna della ripetizione apparente, della differenza...
Senso di sgomento tenue per la costrizione agli impegni annuali, al circuito dei progetti legati alla gabbia sociale di finanziamenti, stagioni produttive, senza respiro ampio, nell'illusione consolatoria e nevrotica del tempo circolare, dell'abitudine al fiato corto, nell'impercezione della fugacità lineare del cosmo, del corpo. Le nascite, i vestiti, alimentare nuove generazioni, le foglie che si nutrono e appassiscono, senza costrutto, nello sviluppo tondo del nulla.
Bere vino, vino rosso, va sans dire, una bottiglia, e parlarne, parlare del vino, mentre lo si beve, sbavare e balbettare, fare bolle, sputacchiare, incendio nel cervello, fuoco che sale dalla terra, Omar Khayyam che se la ride, ossa sfarinate da secoli, matematica elegante della distruzione, estasi demente...
"Sperimentava ininterrottamente; anche quando diceva buongiorno o buonanotte..."
f. n.
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