PELLEGRINAGGI FENOGLIANI ?
di Giacomo Nencioni
Alba, quando la vedi per la prima volta, non è proprio come la immaginavi.
Perché se non l’hai mai vista l’unico modo in cui la immagini è come l’ha scritta Beppe Fenoglio: un paesone sfregiato dalla guerra e dai fascisti, ragazzi vestiti di stracci con occhi pieni di speranza e di rabbia che guardano ragazze vestite un po’ meglio con occhi pieni di voglia di ballare.
Così la immagini. Più la pioggia e il fango, chissà perché.
E’ inevitabile quindi la delusione per chi ad Alba va a cercare il luogo del mito, della memoria, per chi vuole sincerarsi di cosa sia rimasto, per chi in quel mito ci vuole camminare.
Sì, perché Alba oggi assomiglia più ad una straordinaria Disneyland incastonata nelle Langhe che al teatro miltoniano delle imprese del partigiano Johnny. E’ pulita, fin troppo, ordinatissima, fin troppo, l’impressione è che l’abbiano ricostruita in un teatro di posa.
Non è colpa di nessuno, la capacità imprenditoriale dei langhiroli ha generato uno sviluppo economico e una concentrazione di ricchezza tali da trasformare inevitabilmente il volto di quei luoghi.
Il pellegrino è indulgente, capisce, ma è anche molto testardo e quella memoria che è andato a cercare, da qualche parte vuole trovarla.
Il primo, incoraggiante segno della storia si trova all’ingresso del municipio, che oramai sembra fatto di plastica: è la targa che ricorda la medaglia d’oro al valore militare di cui è stata insignita la città intera per i suoi meriti nella guerra di resistenza.
Non tutto è perduto, si può andare, in cerca di Fenoglio o di qualsiasi cosa gli assomigli.
Saranno gli effetti del Nebbiolo nel caldo di Agosto, ma non si trova molto, se si esclude il centro studi intitolato allo scrittore.
In realtà qualcosa ci sarebbe, nel 2003 infatti è stato realizzato il progetto sugli itinerari letterari di Beppe Fenoglio: quattro percorsi che si snodano tra il centro di Alba e la campagna circostante. Si chiamano "I luoghi della vita", "La battaglia dei 23 giorni", "Sulle tracce di Fulvia" e "Il fascino del Tanaro".
I percorsi in realtà sono dei cartelli che indicano al pellegrino di cui sopra altrettanti luoghi della biografia dell’autore o nei quali sono ambientati episodi dell’opera.
In piazza del Duomo è segnalata la casa natale di Fenoglio, nella migliore tradizione dell’italica provincia che sa capitalizzare i propri grandi; poco distante il Civico Collegio Convitto, che conserva giustamente il nome ma è sede dell’Azienda Sanitaria Locale; proseguendo ci si imbatte fortuitamente in una scuola nella quale, ci dicono, è ambientato un episodio dei Ventitrè giorni.
Si va avanti così, tra sparuti cartelli seminascosti nelle bellissime vie del paese, e ci si chiede se questa operazione, seppur apprezzabile, sia in qualche modo efficace.
Quale memoria può vivere, respirare, se immobilizzata, sterilizzata in questo modo?
Lasciando perdere la tendenza al biografismo sorbonardo che traspare dall’intera iniziativa, il problema è che la fondazione del nostro paese non può essere data in pasto ai turisti come fosse un percorso enogastronomico. Lo capiranno i bambini che qualcuno, in quella guerra, stava dalla parte giusta e qualcun’ altro no?
Così il pellegrino va a cercarli da solo, i luoghi della resistenza, magari lavorando di immaginazione, intuendo che probabilmente quella è una storia difficile da scrivere, consolato dal fatto che in fondo immaginazione e memoria hanno in comune lo stesso grande enigma: la presenza dell’assente.
E tra viuzze restaurate e lustre viene da pensare che non ci si può illudere, che è difficile ricordare con efficacia, che c’è più Fenoglio nel Barolo di Teobaldo Cappellano che nelle piazze di Alba, oramai piene di ristoranti e negozi alla moda.
Che è meglio condividere dei simboli con la comunità che mostrarle percorsi preconfezionati.
Già, i simboli. Il pellegrino preferisce di gran lunga i monumenti, perché sono solidi, perché incarnano valori, perché nei monumenti a volte ci sono le facce dei nostri morti. Quelle sì che raccontano.
Un monumento ad Alba c’è, è proprio accanto al Duomo, ed è dedicato ai 23 giorni della Libera Repubblica. E’ una scultura di Umberto Mastroianni che poggia su un blocco di marmo: il metallo disegna ingranaggi, linee di forza, energia trattenuta, c’è avanguardia storica e violenza. Ma il pellegrino si aspettava altro.
Nell’epoca del feticcio del live nessuno ha più intenzione di confrontarsi con i morti, nessuno ha più voglia di cercare nei monumenti simboli che la comunità può riconoscere, far propri e condividere.
Il monumento è prodotto esclusivo dell’artista, sempre più fuori dalla comunità, sempre più dentro il mercato. Di nostro non rimane più niente.
Mentre i popoli in guerra tra loro si fronteggiano a colpi di monumenti funerari in una selvaggia battaglia dei simboli, noi ci arrendiamo ad una liturgia civile fatta di inaugurazioni, solerti assessori illuminati e artisti contemporanei nerovestiti sorridenti e miliardari.
Fortunatamente, sui quattro lati della base, citazioni dal Partigiano Johnny ci riportano in territori familiari. Subito sotto, il nome della banca che ha donato la scultura.
Non ci rimane che affidarci ai racconti, alle testimonianze, alla forza della parola, unica scappatoia di fronte a un’iconografia innocua. Unica speranza di creare quel "mondo intersoggettivamente condiviso" di cui parla Paul Ricoeur, basato sul "credito accordato alla parola altrui".
Non ci rimane che ascoltare ancora una volta le storie, da chi ha voglia di raccontarle, e continuare a salmodiarle come una litania testarda, per riempire il buco lasciato dalla fuga dei simboli.
E ancora più testardi continuare a calpestarli quei luoghi della memoria, se non altro per respirarne gli odori.
Un avvertimento però.
Se mai qualche sprovveduto pellegrino volesse visitare la cascina Langa, rifugio del partigiano Johnny nel rigido inverno della resistenza, non dimentichi il costume da bagno: oggi è una beauty farm.
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