Ultravioletto

Il pensiero viene raffigurato sempre come una costruzione nella quale uno può abitare per periodi più o meno lunghi, tutti parlano di costruzioni del pensiero, in cui tutti, i filosofi come i loro seguaci, entrano ed escono con fare più o meno agitato. Ma il pensiero non si può raffigurare. Ecco, per me, che cos'è il mio pensiero: delle velocità che non riesco a vedere.

Testo di non-filosofo, quello di Thomas Bernhard, ma soprattutto di non-semiologo, che ricorda il gigantesco tentativo messo in opera da parte di Spinoza e Gilles Deleuze per evitare l'impasse ottica e dialettica del pensiero occidentale. Parola carne tormentosa e ossessiva che scopre il proprio punto d'equilibrio instabile, una smarrita trasparenza cristallina, grazie al gesto chirurgico, ma non anestetico, di estrarla dal flusso magmatico del suo contesto. La prassi della citazione, sulle orme di Walter Benjamin, non è intesa come richiamo ad autorità o autorevolezza, men che mai traduce vanitas mondana di esibizione pseudoerudita o di fierezza informata. Si tratta invece di rapina, furto, oltraggio, annusamento, domanda, procedere oltre ma insieme - a qualcuno, a qualcosa - nel comunismo solitario della lettura, del pensiero pensante, che danza via, scivola e incespica, balbetta e urla, suggerisce e scompare tra le maglie inevitabili, non scongiurabili, della ripetizione mimetica, dell'incubo implacabile dell'identità psicologica e sociale, della collocazione riconoscibile e del controllo poliziesco. La faccio lunga, vero? Mi avvolgo nelle spirali sterili della parola generata dalla parola, vero? Soltanto un omaggio. Un atto di sottomissione alla Signora unica, anonima - come ricorda l'etimo. Un omaggio alla violenza necessaria, e minore, di pensieri non pacificati, di uno scrivereparlare che si sottrae all'ipocrisia maggioritaria e democratica, di un pensare che nomina, unisce, divide e sciaborda, senza definire una volta per tutte, senza disporsi in tassonomie funeree di biblioteche, nella consolazione ‘colta' degli scaffali, nella fretta imperdonabile del chiacchiericcio telematico, televisivo, tranquillante e professionale. Soltanto un modo, uno dei tanti possibili e intollerabili, per spalancare il portale di scoperta sulla violenza, viaggio accecante senza distinzione precisa di dentro e fuori, tu ed io, causa ed effetto, origine e meta. Il sole è una stella tra le tante che continua a bruciare, giorno e notte, fornace di esplosioni e collassi, vento magnetico che ci trapassa, plasma e consuma. Il sole, una metafora, un elogio implicito della distanza, dell'uscire da sé, della contemplazione straniata. Una metafora: quando la parola si sposta dal suo luogo di uso più comune e referenziale, quando la parola è trasporto, quando il marmo del vocabolario si fa metamorfosi berniniana, fragilità e potenza della materia incessante, dell'energia divorante, stanza di Circe che tutto trasmuta. E se sposti la metafora stessa, in una geometria del limite continuamente oltrepassato, irrespirabile, dove cade allora lo sguardo? C'è ancora uno sguardo da far cadere, da slanciare nel vuoto vertiginoso del viaggio? Fuori dall'universo. Fuori. Ora mi dicono che forse la luce non si curverà, non tornerà su se stessa in una giostra immane e autistica. Mi dicono che il cosmo è in espansione irreversibile. Quand'ero piccolo, ieri, adesso, un soffio, mi proiettavo ai lembi ultimi della veste stracciata delle galassie e mi dicevo: che c'è adesso? che accade, adesso, qui, sull'orlo del vestito? quale nudità mi attende, mi si presenta, mi ingoia? Sbattere la testa contro le metafore, sbattere inutilmente la testa contro le muraglie visionarie di questa astronomia dell'estremo, irriducibile all'economia ristretta della volontà e del malinteso. Contemplare la violenza, l'umano, il disumano, da questa distanza, da questa idiozia. Non si tratta di saggezza, di salutismo del distacco, di acquiescenza. Neppure di fuga, anche se ad ogni svolta del giorno, ad ogni notizia che ci assale, ad ogni elettroshock notturno, ad ogni assalto del putrido psicologico si sente il bisogno di un mare senza storia, di una luce non più intrisa di sangue, di suoni senza voce e senza orecchio, di un divenire senza responsabilità - non foss'altro per evitare la tentazione stanchissima del suicidio o quella rivoltosa e rivoltante della strage. Si tratta piuttosto del materialismo senza residui dei Padri del deserto, del loro ascolto assoluto del corpo, della moltitudine di organi e parole e desideri che lo attraversano, lo deformano, lo plasmano, lo consumano. Si tratta di una politica della solitudine. In definitiva, si tratta del loro humour violento, che fa respirare a pieni polmoni, anche in mezzo alla merda, solida liquida e gassosa, delle metropoli.

Di fronte e dentro alla Violenza fanno eco, per assunzione o fuga, soltanto la Velocità e la Vergogna: spostamento verso il rosso, spostamento verso il blu; orgasmo bianco accecante dell'incandescenza, liquefazione nera dell'umiliazione nella morte (umiltà?): un'altalena bambina e crudele: avventarsi, con precipitazione; ritrarsi della bocca-parola, delle fauci. I denti dell'aggressione svaniscono come il gatto di Alice.

F. N.



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