L'ANARCHIA DEL MOVIMENTO
Rainer Werner Fassbinder
1992
Le ricorrenze celebrative inducono spesso se non immancabilmente al cattivo gusto della
commemorazione. Dieci anni sono trascorsi dalla morte di RWF, un vero abisso vista
l'accelerazione temporale e l'oblio programmatico e onnipervasivo al quale ci sottopone la
nostra epoca: e sono proprio tale distanza e i rapidi e radicali mutamenti storici, e quindi in
parte anche estetici e percettivi, che sembrano concederci il discutibile lusso di considerare
RWF come un "autore", se non addirittura un "classico" del cinema. Discutibile tale lusso
perché si rivela innanzitutto come alibi atto a rimuovere la scandalosa
inattualità della sua opera. E guardiamoci dal fraintendimento che può essere
ingenerato dalla parola "scandalo" : qui non si vuol fare alcun riferimento all'aura di
sensazionalismo spettacolare e di morbosa curiosità che hanno circondato la figura di
RWF e dei suoi collaboratori, di pari passo col successo commerciale. L'anticonformismo, gli
eccessi, l'omosessualità esibita, tutto questo convogliato e raccolto senza alcuna
apparente soluzione di continuità in quell'evento casualmente estremo che prende il nome
di Querelle, rischiano di fornirci un'immagine superficialmente aneddotica o
enfaticamente retorica del regista tedesco. Il suo ultimo lavoro, Querelle appunto, non
può essere considerato un film testamento, per ragioni che vedremo in seguito. Ma
innanzitutto non deve essere considerato tale: è questo un primo passo infatti per
scongiurare la deformazione ottica inaccettabile che precostituirebbe, e di fatto spesso in una
ricezione disattenta precostituisce, l'intero itinerario creativo di RWF secondo un
ingiustificato quanto piatto teleologismo.
Il termine scandalo assume dunque un'altra valenza, intensiva e sottile: scandalo è
pietra d'inciampo, insidia demoniaca e sovversiva, ingombrante e mal digerita presenza
dell'arte di RWF nel momento della sua irruzione, cioè negli anni '70 ; e ancora,
scandalo significa pronta e risoluta rimozione, il che equivale a dire sintomatica assenza, per
quanto riguarda il decennio trascorso. Come ha scritto qualcuno, RWF non è diventato il
fondatore di una discorsività, non ha lasciato né eredi né influenze,
insomma, non ha fatto scuola. Come tutti i grandi artisti è inattuale in quanto fuori
tempo, fuori luogo. Utopico e intempestivo. È certamente stato figlio del proprio tempo,
ma non figliol prodigo, bensì piuttosto fuggiasco, perennemente e instancabilmente
impegnato in un lavoro di creazione e di distruzione che fa del movimento, della
velocità intensiva, dell'inafferrabilità le proprie armi appassionate contro la
rigidità cadaverica di un sistema di volta in volta platealmente oppure subdolamente
oppressivo.
Se commemorazione significa dunque farsi complici di un esercizio museale che relega nella
stantia "oggettività" di un passato definito e definitivo l'argomento della propria
logorrea, in tal caso dobbiamo negarci decisamente a siffatto intrigo. E affinché questa
non sia semplicemente una petitio principii occorre da parte di chi ascolta un interesse che,
come ci ha insegnato Heidegger, non sia la distratta e fugace adesione a un qualcosa di
superficialmente e occasionalmente interessante, ma un essere coinvolti dalle cose, uno starvi
dentro e perseverarvi. Per non cedere a chi vuole smerciare un'immagine della passione come
qualcosa di facile e distensivo, una sorta di hobby o divertimento del pensiero; la passione
è innanzitutto un lavoro, anzi è il lavoro liberato per eccellenza. E per
sottrarsi all'alienazione che lo minaccia necessita di attenzione e rigore.
Morto all'età di 37 anni, RWF ci lascia un monumento effimero di quasi 40 film, a cui si
aggiungono le innumerevoli messe in scena per il teatro (sia adattamenti di classici che di
testi originali), nonché lavori radiofonici e televisivi.
Questa straordinaria prolificità è una delle caratteristiche salienti del cinema
di RWF. Da L'amore è più freddo della morte (1969), il suo primo
lungometraggio, sino a Il mercante delle quattro stagioni, il suo dodicesimo,
trascorrono soltanto due anni. Vari sono i fattori che hanno contribuito a tali
risultati : in primo luogo la collaborazione di un gruppo di persone affiatate
dall'esperienza di lavoro e di vita collettiva in teatro; e in secondo luogo un sistema di
finanziamenti televisivi che permetteva allora di produrre film a basso costo in breve tempo
(sistema che ha determinato in gran parte lo sviluppo del cosiddetto NTC - Nuovo Cinema
Tedesco, sigla che designa autori distanti quali Wenders e Herzog, Schloendorff e Kluge,
Schroeter e molti altri).
Ma tale ritmo forsennato è anche e innanzitutto cifra inconfondibile della magnifica
ossessione creativa di RWF, il quale ha dichiarato in più occasioni quanto per lui fosse
necessario f a r e continuamente, per sentirsi vivo, per accumulare e disfare esperienza
(anche e soprattutto tecnico-linguistica all'inizio, visto che il nostro non ha mai frequentato
alcuna scuola cinematografica). Fare continuamente, inoltre, per sfuggire al rischio di
cristallizzare la prassi artistica sottoponendola agli imperativi intellettualistici di una
progettualità a freddo, di un'intenzionalità che, raggelando preventivamente i
soggetti, mortifica spesso il momento della realizzazione, riducendolo a mera esecuzione
meccanica.
Si può capire quindi quanto sia estranea a RWF la retorica della "pausa di riflessione",
o la dicotomia tanto cara alla cultura borghese di azione e contemplazione: il lavoro artistico
è processualità, percorso continuo di affinamento dei linguaggi che si utilizzano
e acquisizione della padronanza del mezzo tramite la prassi, padronanza che, pur non
feticizzando il medium stesso (tendenza che sembra caratterizzare sempre di più la
creazione artistica di oggigiorno), non lo svilisce però a mero strumento servile nei
confronti di un fantomatico e reificato "contenuto" o "messaggio". Inoltre, la velocità
di realizzazione e il polimorfismo dei prodotti hanno sempre consentito al cinema di RWF di
sottrarsi alla gabbia rassicurante dei rimandi all'autore, dell'identità stabile, di un
nucleo originario garante dell'unità delle diverse "strategie discorsive"
messe in atto, di una continuità e di uno sviluppo omogenei e coerenti, che danno via
libera al buon gioco di addomesticamento e di borioso riduzionismo peculiare di molte
operazioni di commento critico.
Soltanto con la consapevolezza di tale complessità si possono affrontare i nuclei
tematici che contrappuntano i film di RWF.
Il titolo del primo film, L'amore è più freddo della morte, potrebbe
rappresentare una sorta di compendio, ovviamente parziale, dell'intera opera di RWF. O meglio,
il significante instabile attorno al quale ruota tutto il resto. L'amore è la promessa
della felicità, l'utopia del cambiamento, l'altrove della singolarità che spezza
i lacci soffocanti di un'esistenza sempre più abbruttita, mercificata, falsificata e
vuota, quando non addirittura macellata. RWF non fa che parlarci di questo, dell'orrore della
società capitalistica, di come i suoi codici, la sua legge di mediazione e di
reificazione universali pervadano ogni aspetto della nostra quotidianità, attraversando,
con diverse formule ma con il medesimo risultato, tutti gli strati sociali. E mostrandoci come
la macchina del desiderio sia il più efficace ed insidioso strumento di dominio: da
Il mercante delle quattro stagioni a Le lacrime amare di Petra von Kant ,
da Il diritto del più forte a Il matrimonio di Maria Braun, è la
stessa costellazione più o meno evidentemente oppressiva dell'amore che si presenta. Il
personaggio che di volta in volta maggiormente si sbilancia nel rapporto affettivo, per
generosità, per entusiasmo, per ingenuità, è quello che immancabilmente
subisce la sconfitta. E neppure situazioni convenzionalmente trasgressive (come
l'omosessualità di Il diritto del più forte o di Le lacrime amare di
Petra von Kant) fuoriescono dal circuito dell'ipocrisia e dello sfruttamento, ingabbiati
nella macchina astratta e concretissima della dialettica servo-padrone. E le differenze sociali
e culturali mutano soltanto le modalità di sviluppo e i tratti distintivi, ma non il
segno fallimentare dei risultati: il cinismo elegante e glacialmente raffinato dell'alta
borghesia di Roulette cinese equivale su questo piano allo squallore e alla violenza
ebete dei giovani proletari di Selvaggina di passo.
Nello sguardo di RWF però non è mai presente alcuna sfumatura di superiore
distacco o di giudizio unilaterale nei confronti dei suoi personaggi. Al contrario, si capisce
chiaramente come siano proprio gli emarginati, i diversi, gli esclusi e i sottomessi (dal Fox
de Il diritto del più forte ad Alì ed Emmi di Paura mangiare anima,
dal giovane Franz di Selvaggina di passo al Franz Biberkopf di Berlin
Alexanderplatz) a rappresentare i protagonisti delle sue storie, protagonisti nel senso di
potenziali vettori di fuga, soggetti virtuali (i diseredati della cultura, come li chiama
Adorno) della propria e dell'altrui liberazione.
Ma RWF, pur non mettendo in scena nei suoi film aperte conflittualità di classe,
è nondimeno un pensatore scrupolosamente dialettico, non permettendosi mai di dare
un'immagine parziale e semplificata dei suoi personaggi, mostrando cioè il singolo
irrelato rispetto dell'universale. Il singolo cerca di spezzare il proprio microcosmo
carcerario, ma lo fa spesso utilizzando gli unici strumenti che ha a disposizione, quelli
fornitigli dal sistema stesso - ne rifiuta la retorica, ma non può fare altro, non
riesce a fare altro che utilizzare la sua sintassi... Come scrive Roland Barthes, "dalla
parte dei dominati non c'è niente, nessuna ideologia, se non appunto - ed è
l'ultimo grado dell'alienazione - l'ideologia che sono costretti (per simbolizzare, dunque per
vivere) a riprendere dalla classe che li domina".
Ed è per questo motivo che la maggior parte dei film si conclude con la morte del
protagonista, spesso con il suicidio, con la malattia, con il carcere. Il cinema di RWF
è decisamente non consolatorio e non conciliante. È un cinema della disperazione
- "io seguo le tracce della disperazione umana", come scrisse in un suo articolo -,
ma non per questo necessariamente disperato. Anzi, a più riprese egli ribadisce la
necessità estetica di questa tonalità affettiva proprio per mantenere aperto uno
spazio all'utopia, utopia alla quale si può abbandonare lo spettatore se e soltanto se
viene costretto con asprezza e violenza, con gesto traumatico e non conciliante, a riflettere
sulle proprie condizioni di vita. E RWF, che ha imparato bene a conoscere i meccanismi
dell'industria di massa, sa che non ci sarebbe nulla di più facile e ipocrita che
fornire una soluzione preconfezionata, un contenuto definitivo esplicitamente traducibile in
formula, in slogan, in messaggio chiaro e distinto. Non c'è nessuno scollamento nel suo
cinema tra estetica, politica ed etica : ovunque la stessa attenzione alle
singolarità, ovunque il tentativo di spostare continuamente i termini delle situazioni,
delle percezioni e dei giudizi che abbiamo delle situazioni stesse, ma al contempo senza alcuna
presunzione pedagogica. La prima ricetta per resistere consiste infatti nel rimanere in
movimento, evitando accuratamente di "fare il punto".
Da ciò che abbiamo detto si potrebbe trarre l'impressione che il cinema di RWF abbia una
struttura formalmente "realistica". Ovviamente, per chi lo conosce anche in modo superficiale,
nulla di più falso. E questo anche a prescindere da esempi estremi quali Querelle
o Satansbraten. I suoi film non vogliono mai essere banalmente fedeli ad un
cliché di realtà, perché il realismo inteso come ideologia, afferma lo
stesso RWF, a causa della sua intrinseca natura tautologica, istupidisce e impoverisce lo
spettatore, presentandogli un'immagine piatta e crassamente adeguata del proprio mondo, secondo
la formula paralizzante del filisteismo che si richiama con ottusa pervicacia al tribunale
inappellabile dello status quo, ai "fatti stessi", la cui mera esistenza dovrebbe confutare
qualunque slancio immaginativo, qualunque tensione al cambiamento. Il film non racconta la
realtà, non narra "storie vere", ma mette in scena (e il richiamo al teatro non è
casuale) quello che RWF chiama il "senso" che si libera da tale realtà, senso che
possiamo tradurre con una certa approssimazione nel gioco di forze che si instaura tra i
personaggi, o ancor meglio come significanza, il surplus che eccede i limiti e le norme della
descrizione semiotica, l'attrito residuale, ineliminabile, che corrode le sue griglie di
"Relapolitik metafisica"...
Ed è per questo motivo che, a partire da un certo momento, identificabile con Il
mercante delle quattro stagioni (1971) e con la scoperta entusiastica del cinema di Douglas
Sirk, viene utilizzato il modulo del melodramma. Quest'ultimo, con la sua forte carica di
ingenuità narrativa e di apparente immediatezza, gli consente di abbandonare
l'intellettualismo raggelato dei primi film (si pensi agli Gli dei della peste),
dominati da scene all'italiana, con inquadrature frontali e per lo più fisse, atmosfera
sospesa, ritmo lento vischioso e ineluttabile, con un gusto compositivo e citazionistico
debitore dello stile di Godard e di Antonioni, ma soprattutto degli Straub. Non più
soddisfatto da questa formula, e a partire anche dall'esperienza "liberatoria" di un meta-film
come Attenzione alla puttana santa, il melodramma, con la sua rappresentazione spudorata
delle passioni umane, appare lo strumento più idoneo alle intenzioni di RWF.
Il quale però non è Sirk ; e, a differenza di quest'ultimo, non lavora a
Hollywood ma in Germania. Se RWF adotta lo schema del melodramma è infatti per far
esplodere con violenza i rapporti tra i personaggi, coinvolgendo emotivamente lo spettatore, ma
consentendogli anche di riflettere continuamente sulle motivazioni dei meccanismi
comportamentali rappresentati. La macchina da presa diventa sempre più protagonista,
quasi sempre e prodigiosamente in movimento, non come gratuita esibizione di funambolismo
tecnico-stilistico, ma con il preciso intento di marcare gli slittamenti emotivi, avvicinandoci
i personaggi, sottolineando con espressionistico vigore o con sottili giochi di sguardo le
dinamiche del desiderio e le reti relazionali che di volta in volta si vengono ad instaurare;
oppure, creando il vuoto, in una vertigine di spirali e avvolgimenti, o ancora allontanando gli
attori, con vari dispositivi di estraniamento: figure inquadrate negli interni da stipiti di
porte o da finestre, dietro grate o tende, isolate in campi lunghi, riflesse negli specchi
onnipresenti - dispositivi che ricordano con prepotenza la lezione ossessiva della pittura di
Francis Bacon.
Utilizzando una distinzione categoriale operata da Roland Barthes, piuttosto che di
rappresentazione bisognerebbe parlare per RWF di dispositivi di raffigurazione: nel primo caso
si ha una mera congruenza tra l'oggetto e il suo segno, che ci riporta un'immagine trasparente
e morta, nonché fortemente ideologizzata nella sua asfittica completezza; nella
raffigurazione, invece, qualcosa salta sempre fuori dalla cornice, c'è un principio di
deriva continua, che poi non è altro che piacere o paura, immersione nel flusso rapinoso
del tempo, corpo erotico del testo che emerge, linea di fuga o perturbante ripiegamento.
E nella forma ripiegata di un'eccedenza implosiva, il cinema di RWF ha come suo oggetto
ossessivo, ingombrante e laterale al tempo stesso, la storia e, più precisamente, la
storia della Germania.
L'intera opera di RWF, con la sola eccezione di un paio di film forse, ci può apparire
anche infatti come un grandioso mosaico della nazione tedesca, una "Commedia umana", o
piuttosto disumana, di contraddizioni, colpe, illusioni e ipocrisie collettive, e del loro
riflesso nelle coscienze e nei comportamenti dei singoli. E con l'unica eccezione di Effi
Briest, ambientato a fine '800, il periodo trattato va dall'epoca della Repubblica di
Weimar, giusto a ridosso dell'avvento del Nazismo (Bolwieser, Despair, Berlin
Alexanderplatz), attraversando la seconda guerra mondiale (Lillì Marlene), la
sua fine e la ricostruzione del periodo Adenauer (Il matrimonio di Maria Braun, Lola,
Veronika Voss) sino agli anni '70 (Selvaggina di passo, Roulette cinese,
In un anno con tredici lune, La terza generazione).
Il film paradigmatico da questo punto di vista è senza dubbio Il matrimonio di Maria
Braun. La protagonista, palese e debordante allegoria della Germania tesa alla rinascita,
nel suo slancio verso il futuro per rifarsi una verginità (Maria a un certo punto
afferma esplicitamente di avere una predisposizione particolare per il futuro), la
protagonista, dicevamo, affronta con pragmatico vitalismo e con lucidità calcolatrice la
sfida di ripartire da zero, di ricostruire una casa-patria dalle macerie, edificando le
speranze della propria vita sul simulacro del matrimonio lampo con Herrmann. Ma
l'ingenuità e l'orgoglio anticonformisti che le fanno affermare: - È la
realtà che arranca dietro la mia coscienza -, si ritorceranno contro di lei nella
rivelazione finale: quella cioè di essere stata l'oggetto di scambio di un patto tra
uomini, il marito in carcere e il datore di lavoro - padrone; l'illusione di coltivare uno
spazio di autenticità, un residuo di passione, comunità affettiva, mantenendolo
separato dalla logica predatoria del mercato e della reificazione dei rapporti umani, si
è rivelata tale, un'illusione appunto.
Illusione che si fonda diabolicamente sulle macerie della rimozione, sull'oblio delle colpe e
degli orrori del passato, oblio che consente di perpetrare i medesimi errori, i medesimi
orrori, con il candore delle vittime a metà e con la spietata e cinica determinazione
dei nuovi padroni (vedi ad esempio l'Anton Saitz di In un anno con tredici lune,
sopravvissuto a un campo di concentramento, che una volta uscito apre un bordello in cui vigono
le stesse regole del campo - formula che, con il suo successo, gli garantisce la scalata
economica, sino a farlo diventare uno dei loschi artefici della ricostruzione edilizia di
Francoforte; o ancora, sul tema "bordello-prostituzione-rinascita economica-speculazione
edilizia", Lola. E la prostituzione sembra la cifra amara dell'individuo
contemporaneo, vero grado zero dell'utopia erotico-amorosa, mercificazione del corpo, luogo
scempiato dalla mediazione del denaro).
La malattia mortale della storia, la necessità-impossibilità dell'oblio si
traduce in linea di fuga virtualmente liberatoria soltanto in Despair - Eine Reise ins
Licht, dove la resistenza dell'immaginazione individualistica assume la forma della follia
che, nell'ottica fassbinderiana, pur essendo sempre un segno di sconfitta, mantiene per lo meno
la dignità dello sforzo inaudito e patetico dinanzi all'impossibile, dove lo svanire
della coscienza controllata nell'allucinazione e il distruggersi sembrano preferibili a
soccombere, quasi echeggiando il motto di Adorno, secondo cui: "la ragione può
resistere solo nella disperazione e nell'eccesso...".
All'estremo opposto, il corpo svuotato e dolorante, masochisticamente nostalgico di Veronika
Voss si aggrappa al feticismo dei ricordi nello spazio bianco e irrespirabile della
clinica-prigione, accecante estroflessione di una memoria che continua nel suo lavoro sisifeo
di cancellazione, nei bagliori effimeri estatici e accecanti della droga, quella morfina-oblio
che accomuna scandalosamente nella stessa infelicità tanto l'ex diva del Nazismo quanto
i due anziani coniugi ebrei, reduci dal campo di sterminio di Treblinka. E ovviamente, sulle
macerie della disperazione, cresce e si moltiplica lo sciacallaggio affaristico degli
sfruttatori; e, a chi aveva intrapreso la strada dell'aiuto-testimonianza-denuncia, non resta
altro che constatare la propria impotenza, tornando da martire cicatrizzato alla routine del
proprio lavoro come giornalista sportivo.
Adorno e Horkheimer ci hanno spiegato come la stupidità non sia altro che una cicatrice,
la risultanza frustrata di una vana ripetizione della domanda (sia domanda di spiegazione che
di affetto), ripetizione che lascia una sorta di callo, un indurimento emotivo e percettivo che
rappresenta il punto cieco di una collettività, e all'interno di essa degli individui,
punto che segna "le stazioni a cui la speranza si è arrestata, e che attestano,
nella loro pietrificazione, che tutto ciò che vive è sotto un bando". Sul
fermo immagine dell'ultima sequenza di In un anno con tredici lune, dopo il suicidio di
Erwin-Elvira, il disco di una canzone tedesca si incanta sulla parola "Wirklichkeit", ripetuta
ossessivamente per alcuni secondi. Wirklichkeit, realtà...
Il ritornello ipnotico non è che assuefatta disponibilità all'immutabile,
ottusità della cicatrice che ci consegna alla cronica alienazione dello spettatore che
"più contempla - meno vive, accettando di riconoscersi nelle immagini dominanti del
bisogno" (Guy Debord). Nessun artista, nessun intellettuale è riuscito in questi
dieci anni a farci sentire meno bruciante l'assenza di RWF. : domina ovunque incontrastata
un'acquiescenza al perbenismo e al buon senso, screziata solo qua e là da un
anticonformismo cinico e di maniera. Se il vitalismo esasperato di RWF, la sua intelligenza
animalescamente aliena alle astuzie dei giochi di prestigio dell'industria culturale, se la sua
dismisura umana e artistica sono anche i segni inequivocabili di una qualche forma di
patologia, ebbene proprio in tale pato-logia, in questo instancabile discorso del pathos, in
questa necessità appassionata di fare e di esserci, nell'anarchia inesauribile del
movimento che si sottrae alla nostra società malata di mente, come la definiva lo stesso
RWF, proprio in tutto ciò dobbiamo ravvisare la sua inattualità e quindi il suo
patrimonio più ricco e vitale.
Il libro preferito di RWF era Van Gogh il suicidato della società, l'ultima opera
di Antonin Artaud, dove si può leggere questo passo :
"Le cose vanno male perché la coscienza malata ha un interesse capitale in
quest'epoca a non venir fuori dalla propria malattia".
F. N.
© 1995-2011 GRUPPO ELIOGABALO