VIAGGIO INVOLONTARIO
Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano
Questo libro è stato stampato
per la quarta edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1999
Berta Chimeri
LA VIA LATTEA
Sono passati pochissimi secondi da quando ci siamo salutati al telefono e la tua voce è rimasta appiccicata alle mie orecchie insieme alla voglia che ho di te... E con le tue benedizioni - "che Dio te la mandi..." - cerco, paziente, di arrivare a stasera, per farti bere tutte le lacrime che mi hai fatto scendere.
Ti adoro, ti amo, ti voglio.
Ancora... da allora.
16 settembre 1998
Dormono ancora, a casa.
Ho lasciato il mio calore tra le lenzuola, sulla pelle del mio cucciolo meraviglioso.
Quando mi addormento all'ombra del suo sonno, sdraiata come una gatta che allatta i suoi piccoli, sento in me una forza invisibile, che sale dai piedi e arriva fino ai capelli e fa sì che quell'attimo sia una vita intera. Come se fossi nata madre, la prima cosa che mi sento di essere e l'ultimo fine della mia esistenza. Ma sento vivere e fremere anche una bambina, la stessa che ti tiene il broncio nella foto, la stessa che tiene le dita nel naso. E mi sorprendo, forse, anche più piccola, più spaventata, persa in un tempo remoto, trapassato, sicuramente imperfetto, futuro presente, futuro assente, presente assente...
Una bambina non può sostenere tutti questi tempi, perché per lei il tempo è racchiuso tutto in un orologio, quello di suo padre, il più bello (il padre, non l'orologio).
Al sicuro da rapaci, regredisco dolcemente, piano piano, in un posto lontano, dove nessuno mi chiede e mi infastidisce e con il mio cucciolo stretto al seno sparisco per rinascere altrove. E il regredire è per me una gioia, una piccola gioia che mi porto dentro, dove non so, ma dentro, nel buio più profondo, forse sotto lo stomaco, vicino al colon. Ed è una gioia anche per le mani, per la bocca, per la lingua e la saliva che, con abilità animale, come se godessero di un movimento proprio, lavorano la mia maglietta, fedele e mai stanca, che da trentadue anni asciuga le mie lacrime e canta ninne nanne e rassicura i miei occhi e infonde in me tutta un calore che nessuna bocca può dire. È il sapore di tutto ciò che è stato, il sapore dei ricordi, di mia madre che asciuga il mio corpo, il mio seno, il mio viso e non mi chiede niente in cambio e anzi accompagna ogni più piccolo gesto con canzoni e sorrisi, che stavo ad ascoltare, stupita e anche un po' ombrosa, quando non capivo il perché di tanto verde nei suoi occhi. E ancora, è il sapore del presente... ma il mio presente, quello che mi dà i brividi, che mi fa scorrere latte nelle vene e sangue nel seno, quello che mi porta la tua voce, le tue mani, il tuo odore. Ed è tutto racchiuso nella mia maglietta scolorita, ancora e per sempre capace di darmi il sapore di cui ho bisogno, a volte, per sostenere la realtà.
Poi, d'improvviso, non ho più voglia di regredire, la metto (la maglietta) al sicuro da qualche parte nel mondo che poi, puntualmente, non ricorderò, e sento il bisogno di agire, di muovere i muscoli, di portare a spasso cranio e criniera, di parlare, di cantare, di ballare. Non ho più le mie scarpette di gesso, ma conosco a memoria i passi, la musica, la voce severa della mia insegnante. Adoro ballare, sentire la musica sotto la pelle, dentro le ossa, seguire il ritmo che segna ogni gesto, ogni spostamento... O. mi guarda estasiato, con i suoi occhioni dolci e prepotenti: mi muovo per lui, ballo per lui, canto per lui. Ed è bellissimo... e non mi basta mai.
Tu, non mi basti mai.
Non mi basta mai la tua voce. E la tua bocca diventa un'enorme infinita bocca che si apre e si chiude sotto il mio cielo di stelle. Non mi basta mai il tempo per pensarti e se ti penso ti voglio, voglio le tue mani che se sono piccole, quando toccano la mia pelle sono mani di ciclope e il mio nome è Nessuno. Voglio i tuoi capelli, li voglio strappare quando sei dentro di me, quando lo sei anche con il corpo, quando il tuo odore è il mio odore e il colore dei tuoi occhi è scuro come la notte che verrà e i miei sono polvere che torna alla polvere, sono aria, vento, nuvole che scorrono, corrono, fuggono, ritornano. Sempre. Voglio il tuo sorriso. Nessuno sa ridere come te. Voglio le tue parole che non mi annoiano, mai. Le voglio quando sono in tempesta, quando portano il sapore di ricordi tuoi, di cose che non mi hai detto ma sento vibrare, le voglio quando sono piagnucolone, quando sono incontenibili, nervose, frettolose, quando sono altro da me, perché è meraviglioso sentire l'amore che hai dentro, l'amore che è stato, l'amore presente, l'amore che non ti lascerà mai. Voglio sentire ancora e poi ancora e ancora.
Non solo la bambina, ma la donna, la bestia che si nasconde dietro gli occhi, i capelli, ti chiama sempre e non ti chiama più se non ci sei solo per lei. Sarà la bambina ad addormentare le tue inquietudini, sarà la pantera a graffiarti di notte quando non te lo aspetti, a sbranarti senza darti respiro, perché c'è un sapore felino nel desiderio che ha di te; sarà la leonessa a servire il suo re, a cacciare per lui, a nutrire pensieri e progetti, a leccare le ferite nuove, se qualcuno oserà, e quelle antiche, se avranno voglia di piangere un po'. Saranno i miei occhi ad aspettarti, magari stanchi e malinconici, ma so che ti aspetteranno sempre. E non mi importa se non ci credi, lo farò io per tutti e due.
Ti voglio adesso, ti voglio subito, ti voglio in questo presente, perché è lui il vero Signore dell'Universo.
Eppure ti aspetterò, proiettandomi in un futuro non troppo lontano. Ti aspetterò stasera, per esempio. Aspetterò, mi dico, con pazienza. Mi illudo di poterlo fare, ma sarà una dura lotta. Una lotta silenziosa, che prende vita nel corpo, nel sangue, nelle mani. Forse solo O. scoprirà il mio segreto, perché il latte di cui si nutre, anche lui, sa di te. E A. conosce il mio amore. E il suo sapere arriva da molto lontano, quando mi chiedeva "chi è E.?", quando, dolcissima, materna, complice, sussurrava: "Però è bello, mamma"...
E io continuo, testarda e cocciuta, ad amarti da allora. E da allora la mia vita è passata sotto cento e cento arcobaleni, senza trovare nessun tesoro, e con una tale rapidità di immagini da impedire una pausa. Rifletto poco e male, quando devo, e quando dovrei agire rimugino fino a farmi uscire il sangue dalla bocca, dal naso, dagli occhi, dalle orecchie. E brava la mia bambina! Il gioco è bello quando dura poco, ma lei non lo capirà mai. Gioca e vuole te nel suo gioco. Per un girotondo che dura poco e non è tondo, per nascondersi dentro le tue parole, per ritrovarti nel suo calore ogni sera, ogni notte, sempre.
Adesso, oltre la finestra, al di là di queste mura, sopra il solito squallido, stupido cantiere, c'è il mio gabbiano: è libero nel vento, libero di non tornare ed è mio, perché ogni giorno è lì e aspetta che i miei occhi lo sorprendano e si rallegrino per questo suo andare, tornare, andare...
E se poi non è lo stesso gabbiano, chi se ne frega! Lo è per me. E sono sicura che torna per me, per il sorriso che gli regalo, per i pensieri che gli nascondo, per la voglia che mi porto dentro, per la mano che lo cerca, per la mano che lo saluta, per la mano che lo desidera.
Ti voglio punto e basta.
Martedì 29 settembre 1998
La casa è un casino. Però così è più bella. Se non altro, riflette il carattere di chi la abita, la indossa, la spoglia. Io, invece, mi abito poco e mi spoglio ancor meno. Stanotte ho dormito con jeans, maglietta e pinza nei capelli, che durante la notte mi ha bucato il cervello. Forse è per questo che stamani mi sento così stralunata?
Per andare in cucina ho dato calci a qualcosa che si trovava per terra. Ma non ho guardato. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. E rido. Poi parlo da sola, che tanto nessuno mi capisce. A. non è mica mio marito o il mio compagno o uno stronzo qualsiasi. È mia figlia. Punto. E a capo.
Ogni anno punto e a capo. Potrebbe essere il motto della mia vita. Potrei anche farmi tatuare queste parole sulla fronte, così il resto del mondo si regola. Perché sono stanca di sentirmi addosso il peso altrui. Che siano un po' gli altri a capire subito quando è il caso di andare andare andare. E poi non ho tempo, cazzo. Non ho tempo per spiegare chi sono. Perché se lo spiego, poi non capiscono. E non c'è cosa più pericolosa, più drammatica, di un uomo. Un uomo che non capisce. Qualcuno diceva, anzi dice, perché un libro è eterno, quindi presente al mio spirito, che l'uomo senza la donna è un disgraziato. E ancora, che è più stupido di una donna. Ma quante stronzate. Siete solo più fragili, credo. Ma non ho voglia di parlare degli uomini. Neppure delle donne. Né dei bambini. Né dei padri, delle madri. E poi c'è troppa gente qui, mi girano intorno e mi infastidiscono.
Vorrei saltare addosso a qualcuno. Attaccarmi al collo e staccare un pezzo di carne. Poi la sputo, perché mi fa schifo. Ma intanto strappo. E faccio uscire sangue. Poi se ne può anche parlare. Serve a qualcosa? No, però aiuta.
E stamani non c'è neppure lui, il mio gabbiano. Avrà sentito l'elettricità oppure ha fatto troppo tardi perché ha perso un treno? Fanculo anche a lui. Tanto poi ritorna e io non lo guardo, così lo faccio sentire in colpa.
...
Sono circondata da decine di formiche.
Visto che odio tutti e tutti mi fanno schifo e poi non rido perché da ridere proprio non c'è niente, parlerò delle formiche che entrano ed escono da tutti i buchi del computer. Ma dove andranno? Che siano formiche informatiche o solo spie che vogliono togliermi le parole? Sì, perché noto che ogni tanto manca una lettera oppure invertono e incrociano i miei pensieri, che già di per sé sono arruffati.
Sono le 11.45.
Aspetto che tu mi telefoni. Ti aspetto, perché sei l'unico che mi va di aspettare, di ascoltare e per te mi spoglio anche adesso, in questa stanza. Ti aspetto.
Dopo di che dovrò andare a prendere O. e portarlo a casa da suo padre. Poi dovrà accadere che, tornando a casa, metto fine a questa storia. Storia? Quale storia? Se ci penso, vado nel panico, perché gli occhi di un figlio sono capaci di alzare montagne e di far nevicare d'agosto, qui, proprio qui, a L... E mi sento un verme, perché ancora una volta amo il figlio, ma non il padre. Lo spirito l'ho perso, oppure me lo sono bevuto.
Paola ha detto che lui non è in grado di sostenere le complicazioni del mio carattere. Ha bisogno, dice lei, di una donna più... tranquilla, scontata, forse, più moglie, meno mamma, insomma, tutto ciò che è altro da me. Chissà se sarà vero.
Ore 12.30.
Sono tornata adesso. Ho stabilito che il mio passo è decisamente inadeguato al mio carattere. Ho bisogno di gambe molto più lunghe, di divorare la strada, di anticipare il tempo e di non perderne, soprattutto. Con un passo voglio essere da te. Come l'apertura di un compasso. Come tracciare una rotta. Tanto anche al nautico andavo sempre a finire sui monti. Dovevo capire, già allora, il segno. Tra correnti, venti e altro, non riuscivo mai a far arrivare la nave dove doveva. La mandavo sempre dove voleva. E lei andava sempre oltre...
Odiavo le rotte. Chiedevo se potevo inventarmi io il viaggio, se potevo seguire il vento, le stelle, le onde. Come la solito mi veniva risposto: NO! Scorbutica e polemica. Fastidiosa come una mosca, mi dicevano i miei compagni capitani. Io cercavo di far capire a quei cretini che anche una nave ha bisogno di poesia e di perdere la bussola, ogni tanto, ma non ci sono mai riuscita. Comunque anche le rotte sono qualcosa di prestabilito, linee che limitano la mia libertà. Folle, come dice Madame, inarrestabile perché inventata, ricostruita, talmente mia da non esistere, né come campione né come possibile insegnamento. E con queste parole, in questa libertà ritrovata e ripulita, vado a inquinarmi tra le pareti di casa.
30 settembre 1998 ore 15.55
Guarda che quando dico che ti amo lo dico seriamente. Magari lo dico, o me lo dico ridendo, però sono seria. E la mia serietà è, ora, silenziosa, tra un attimo fa un rumore da svegliare tutti gli orsi in letargo. Insomma, se fossi un osservatore sulla luna, cosa vedrei adesso guardando qui, tra queste pareti? Una cretina con due figli, seduta sul divano, gambe incrociate, distratta, tanto loro, i figli, sono a dormire. E forse riuscirei persino a sentire i piedi ghiacci perché nudi. Quella stessa cretina scrive, adesso, e so che ama qualcuno che non c'è, almeno fisicamente...
Pensi che poi, alla fine, ci sarà restituito tutto il tempo che non stiamo vivendo insieme? No, perché io ci penso spesso, voglio dire che penso a te, dentro la mia testa, sempre, a noi spesso, a me quando capita. E se penso a Noi, mi rendo conto che fingere di averti qui, ogni attimo, è troppo faticoso anche per me, che amo stancare le mani e i pensieri. Poi lo so che ogni attimo sarebbe comunque impossibile... ognuno ha la sua vita, le sue cose da fare, da pensare, da leggere, da cantare. Ma è così che mi sono sempre immaginata vicina a te. Nei sogni a occhi aperti.
Cancello il mio presente, la carne che ho creato, che amo, e lascio respirare un'altra Berta, quella che sarei potuta essere se... E non riesco a vedermi lontana dalla tua vita. Ti avrei seguito senza una ragione, perché sarebbe stato naturale, un istinto, qualcosa che non puoi spiegare. Ed è anche per questo che nel passato ti ho allontanato, a volte. Mi hai sempre coinvolto troppo. Nelle parole, nei silenzi, nei sorrisi. Rapita dal rumore degli occhi, dal loro tacere, guardare.
Un giorno, ricordo, mi dissi: "Io mi metto qua, accucciata nel mio nascondiglio, e aspetto. Lo aspetto. Dovessi aspettarlo una vita intera, dovessi raggiungerlo in cima al mondo, dovessi annusare sulla pelle il sapore di un'altra donna...".
Stupida. E anche cretina. Forse del tutto scema.
Penso cose più grandi di me e ogni volta mi fanno soffrire. Ma mai come allora ho sentito male dentro per tenerti fuori dal mio respiro. Accade sempre così: se non posso dedicarmi a qualcosa totalmente, preferisco farne a meno.
Comunque, adesso sono qua e fanculo ciò che è stato, ciò che non è stato e che avrebbe potuto essere. Sono qua, in piedi, respiro profondamente e ti sento tutto intorno, dentro, sui vestiti, sui capelli, nelle pupille. È un campo magnetico dove solo io so muovermi.
1 ottobre 1998
Mi sento fuori luogo, fuori tempo, fuori dagli occhi. Mi vedo. Sono agitata, spettinata più del solito. Vado nel bagno di questa scuola che è anche un po' mia e mi lavo la faccia. Niente trucco, anche se era poco. Come piace a te. Poi carico gli occhi e sto pronta a sparare, a uccidere. Nessuno condivide la mia inquietudine, nessuno può sapere. Questo mi conferisce forza, forza per tenere gli altri fuori dal mio campo. Se entrano, peggio per loro. Gli occhi sono spade, coltelli, lo sento e mi vedo, appunto.
Voglio venire da te. Vengo a piedi, se devo, e il tempo si deve fermare, altrimenti lo uccido. Oggi è il primo giorno di un mese che non sono mai riuscita a mettere a fuoco. Ottobre non sa di niente. Non porta il sapore dell'estate, non conosce il freddo inverno. È autunno, Berta, deve essere così. Sì, però una volta mi piaceva l'autunno, ora non so. Dio, perché non inventi un mese nuovo tutto per me? Tanto per quello che hai da fare...
Io invece sono troppo indaffarata. Sono un vulcano, stamani. Fuoco, lava che cola, pietrifica, dona eternità. Dovevo essere a casa tua. Voglio vedere la tua stanza, la tana, il telefono che faccio squillare con amore, i tuoi libri, il sapore delle lenzuola. Voglio spazzare via il freddo, l'umido che avvolge le tue ossa, i pensieri. E portarti nel tredicesimo mese, che Lui dovrà creare per me. Per noi. Sarà un mese caldo, te lo assicuro. E magari già che c'è, ci restituisce tutto il tempo che non abbiamo passato insieme. E se proprio non può, che ci dia la metà in liquidi, soldi. Così tu fai tutto quello che ti passa per la testa, senza preoccuparti di un lavoro che non ti si addice.
Lo so, ho esagerato. Quello là non ci pensa proprio a guardare noi.
Più tardi...
Io sono donna. Lo sono da millenni, dico, e qualcuno ride. Cretino. Se proprio vuoi saperlo, ho cambiato anche colore. Della pelle, voglio dire. Adesso è nera come la notte. E porta con sé il sapore di antiche offese. Antiche, ma ancora efficaci. Mi sono sentita violentata. Nella pelle, certo, nel corpo, perché non è stato ascoltato. Violentata ogni volta che ti sei creduto padrone e non sei che un misero schiavo. Violentata dentro, nel sangue, nella testa. Nei pensieri assopiti, in quelli svegli, attenti, lucidi. Violentata perché comunque è un uomo quello che mi ha messo la vita dentro e sempre un uomo me l'ha strappata. Ed era pure nervoso. Stronzo. Adesso uscirò da questa stanza e il mio passo sarà un passo da negra. Così gli occhi e la bocca. E che nessuno fiati.
Poi divengo muta. Immobile come un albero, viva e chiassosa come la chioma al vento, al sole, alla pioggia. Avanzo silenziosa come le sue radici, dove non puoi vedere, toccare. Dove non puoi arrivare con gli occhi. Tu mi insegui, ma io cambio strada e so dove andare. Tu ti perdi. E anche facilmente. E quando ti ritrovi, non sai più chi sei. Io fingo di non saperlo, ma un albero sa sempre dove affondare la sua vita. Affondare per crescere e rinascere.
Tutti adesso temono il mio silenzio. E quando parlavo? Avete ascoltato? Temono la mia indifferenza, perché li fa sentire miseri e vuoti e secchi. Temono il mistero che avvolge le espressioni del volto, il suo parlare senza parlare, la sua luce.
Mi annoiate. Tutti. Tranne te. Ehi, mi senti, mi vuoi, mi pensi? Uffa. Domani è così lontano da ora. E nel mezzo c'è solo il vuoto.
Sempre più tardi.
Adesso piove e sono triste. Ed è silenziosa la pioggia, come la mia malinconia. Sembra non voglia disturbarmi, lei, la pioggia. L'altra lo fa, ma non è cattiveria la sua. Si nasconde e confonde nel colore pallido dei palazzi, dietro la finestra della mia camera. Non vedo il cielo, ma riesco a immaginarlo. Così, lo immagino come voglio. Azzurro, infinito, libero dal grigio e dalla noia e dalla pioggia che allagano i miei occhi. Se il cielo è azzurro, perché piove? Forse è acqua. Mando fuori la bambina che ti tiene il broncio, la faccio bagnare e le chiedo, gentilmente, altrimenti mi fa una pernacchia, se assaggia quelle gocce silenziose. Lo sta facendo, dice che sono salate. Forse sto piangendo. Lei mi dice che sto pensando a te. Torna subito qua e dormi che sei ancora piccola e non ti devi bagnare troppo. E taci, che ho da fare.
6 ottobre 1998
Ti vedo ancora. Sei proprio davanti a me. Ieri sera mi hai detto che sei brutto. E sei riuscito a farmi ridere. Sei così brutto, che quando ti ho visto davanti al cinema volevo scappare. Anzi, volevo rapirti e portarti altrove. Ma non al cinema.
Stamani mi sento abbattuta. Dico così perché per venire a scuola, lungo la strada che costeggia la pineta, ho visto tanti alberi morti al suolo. E mi sono detta: eccoti. Sdraiata, bagnata e sola. Poi però ho pensato che ti dovevo scrivere e in un millesimo di secondo ho tirato su rami, foglie e ripiantato radici. Bagnata lo sono ancora...
Anche questo nuovo giorno mi trova, comunque, distratta, assente, svogliata. Ho solo voglia di te e della tua voce. Dovrei stare a scriverti, quando non ci sei. Sempre. E ogni tanto telefonarti, per darti noia, per disturbarti. Dimenticavo... sei bellissimo.
Mio padre mi rincorre. E la fuga è veloce. Mi chiede del film. A lui è piaciuto molto e io sorrido, anche se non dovrei. I miei occhi anche stamani fremono. Li sento vivi e diabolici e questo mi piace. Infatti non mi sono truccata. Oggi sono tutti nervosi, ma non riescono a raggiungermi, stamani sono ghepardo. E anche di quelli feroci, che solo lo sguardo ti fa sentire piccolo, stolto, goffo e privo di risorse. Sono anche un po' cattiva. Ma mi sento spiata e devo esserlo. Per difesa. Sto mettendo al muro il mio nemico. Sfinisco la preda e poi la divoro. Anzi, sarà lei a pregarmi di farlo, per non soffrire più. Spietata? Forse lo sono, per sopravvivenza, appunto. E devo stare attenta a non diventare io stessa la mia preda. Da qualche parte, nel corpo, sento che sto sanguinando. Sento dolore. Il mio e quello non proprio mio. Stanno cercando, i "miei" uomini, di trovare un colpevole. Per giustificare, ai loro occhi, la fine di un legame. Lo cercano. E pensano di averlo trovato. Basterebbe che ognuno guardasse dentro di sé per trovare le risposte, per capire, se vuole capire. Se crede che da capire ci sia qualcosa. Per me non c'è niente da capire, nessun malinteso. La lavagna è perfettamente pulita, nera, lucida.
Comunque non ci sto a questo gioco. Non mi piace. Voglio uscire da questa scatola e non ci riesco. E nonostante il ghepardo che corre e sbrana, sento una tristezza profonda, che non vorrei toccare. Oggi, forse, sono anche la zebra che scappa. Sono la gazzella o un topolino. Non mi piace tutta questa tragedia. Ma perché non facciamo una gran festa con musiche, balli e bocche che sorridono? Perché?
Ognuno ha un suo tempo a disposizione. Ma il tempo non è galantuomo. E se non muovi le gambe e il cervello, rimani impiantato in un vaso, come un albero di Natale, senza radici. E aspetti solo di seccare. Da solo.
7 ottobre 1998
Pochi pensieri o forse troppi. Poche parole, comunque. Vorrei diventare muta. Magari mi faccio togliere le tonsille, così per qualche giorno esaudisco un desiderio. Almeno uno.
Devo andare. Non so dove, ma devo. Sono annoiata. E ho voglia di pensare a me. A tutta me. Senza rendere conto, senza parlare, senza capire. Ho deciso. Vado a vedere il mare. E quando sarò sul molo penserò a te. Guarderò sui monti e ti raggiungerò per toccarti e baciarti, se anche tu lo vuoi. E se non lo vuoi, lo faccio lo stesso, perché ne ho voglia io.
20 ottobre 1998 Martedì ore 8.30
Adesso ti chiamo. Ho voglia di te, della tua voce. Ma credo che sia troppo presto e ti lascio dormire.
Ti immagino addormentato, sotto le coperte, con gli occhi chiusi. E vorrei raggiungerti, di corsa, in fretta. Spogliarmi in silenzio e sdraiarmi vicino a te, al tuo corpo, al tuo calore, al sapore che ti avvolge la notte, nel sonno...
Oggi c'è il sole. Ma io sono più luminosa di lui. È una sfida che da secoli ci fa giocare insieme, me e il sole. Che mi fa svegliare presto per poterlo rincorrere, per poterlo aspettare e sorprendere. E tutto questo accadeva tanto tempo fa, come nelle fiabe che iniziano con C'era una volta... quando le pareti di casa mia erano nere come la notte e conoscevano solo i miei occhi e la voce della piccola A., le favole che raccontano del buio che ci trovava strette strette, perse ognuna nel proprio sonno, ma così vicine da indovinare l'una i sogni dell'altra.
Lo aspettavo, il mio sole, silenziosa, sul terrazzo grande. Nell'istante in cui l'oscurità comincia a schiarire, io ero lì ad assistere al miracolo. E mi sentivo padrona del mondo, del mio mondo, della giornata che avrei dovuto affrontare e che comunque si sarebbe conclusa anche senza di me. Mi dava una forza incredibile aprire gli occhi e non vedere la luce, fuori. Significava che ero ancora in tempo, che potevo farcela, che dovevo farcela. Sorridevo, a volte. Altre non riuscivo a non piangere, perché l'alba sarebbe sopravvissuta in eterno, il sole avrebbe continuato a giocare, mentre i miei occhi e il mio respiro, un giorno, si sarebbero fermati.
E io, si sa, sono gelosa, perché il sole è mio, è cosa mia. E come giochiamo noi, al risveglio, nessuno sa, nessuno può. Gli mancherò, quel giorno, gli mancherò così tanto che non avrà più voglia di svegliarsi, per non sentire il vuoto dei miei occhi, del mio sorriso, del mio "Buon giorno" sussurrato, delle mie lacrime.
Se non riuscivo ad anticipare la sua levata, rimanevo sotto le coperte, al sicuro, un poco ombrosa, appiccicata ai miei bisogni sfuocati, fino a quando A. mi riportava nel tempo reale, dove io avrei dovuto essere la madre e lei la figlia. O lei la madre e io la figlia? Sicuramente due figlie senza madre.
Il sole che ogni tanto non c'era, il grigio, i sogni della notte, gli incubi diurni, la voglia di sparire che sempre mi porto dentro, la voce di mio padre, il vuoto di un uomo che se c'era non era quello che volevo e se non c'era come l'avrei voluto: ho sempre incasinato tutto. Ho rovesciato tutto. Affetti, amori, responsabilità. Ho percepito le mie giornate come privazioni infinite, senza tempo né limiti. Sono vissuta in un corpo fragile, secco, che mi ha conferito potere, allontanandomi dal resto del mondo, costruendo dipendenze senza volerle davvero, cercando sempre un seno, una madre, un uomo senza colori, senza sesso. Avevo bisogno di parlare, come adesso, di abbandonarmi a quell'ombra senza volto, senza l'ossessione del cibo, di pieno e vuoto, senza la smania di mangiare e vomitare, senza il peso di una colpa racchiusa dentro una mela, che non potevo masticare senza sentirmi ingrassare a vista d'occhio. Sono vissuta a metà immersa in un reale a tratti insostenibile, capace solo di ferire il mio corpo isolato, solitario. E la solitudine di quella magrezza è incapace di giustificare il malessere, lasciandoti ossa fredde, vergogna e un senso di colpa senza fine.
Per essere qua oggi ho percorso strade che non ricordo. Ho lottato contro quella metà e altre cento ancora più pericolose, vertiginose. Mi chiedo se non sarebbe stato meglio morire a sedici anni per anoressia, per scelta, perché ero io a deciderlo, senza aspettare di morire chissà quando, dove, come, per quale ragione. Organizzare e prevedere la propria morte, sentirla prendere possesso di te, sentirla vivere nel corpo che svanisce, nello scheletro che cercavo disperatamente, nelle mani che affondavano nella pancia e toccavano la spina dorsale, mani sempre fredde, corpo che si copre, si nasconde dentro maglioni di lana sotto il sole di maggio, di agosto, corpo imprigionato e impotente...
Gli altri, pensavo, non esistono, e se esistono, sono solo proiezioni, ombre, figure da cui non voglio dipendere. Non avrei visto morire i miei nonni, mia madre... Ma lei avrebbe visto morire me e anche questo non è giusto, non è il ciclo naturale della vita.
Comunque sia, sono qua. Triste, allegra, luminosa come il mio sole, con due figli che amo, che ho sempre amato, anche quando non c'erano, quando li immaginavo, quando cercavo di indovinare il sesso, il colore dei capelli, degli occhi, il sorriso. Nel mio corpo che volevo privo di carne sono cresciuti due esseri, due individui. E li ho sentiti muoversi, sotto quella stessa pelle, sotto quella carne che non volevo. Che non riconoscevo. E sono così fiera di loro, anche se mi arrabbio, se grido contro A. Vorrei averne altri mille, mille bocche da sfamare.
E adesso? Adesso che il mio corpo è meno fragile di allora, adesso che voglio il tuo corpo e non ci sei, che voglio il tuo respiro e sento solo il vento, adesso che il mare è inquieto e agita pure me, penso alla vita con te, ai colori nuovi, ai sapori che mi arrivano da lontano... e senza di te la stessa vita muore.
Ho paura di questa sensazione. Ho paura e non sono sola, da potermiti dare come e quando e sempre. Allora vorrei scappare, correre via anche da te, dimenticare tutto e tornare nel mio piccolo regno senza troppe illusioni. Poi esco, alzo gli occhi e guardo oltre i monti, indovinando il punto esatto di casa tua e so che lo farò per sempre, con o senza di te. Per adesso non voglio sapere altro. Che mi bastino i tuoi baci, le tue carezze, la voglia di dirti che ti amo, ti desidero, ti voglio e non sai quanto. Che mi basti questo eterno presente che mi porta a te, che mi trascina nel desiderio e mi fa scrivere e leggere e impazzire e dimenticare.
21 ottobre 1998
Anche per oggi non si vola.
Le decisioni importanti vengono prese in tre minuti. Rifletti, ti convinci, agisci. Poi non ti penti, perché le decisioni importanti non sono davvero improvvise. Qualcuno mi chiama, ma sento solo freddo stamani. Voglio che anche gli altri prendano decisioni.
Basta, stacco i fili e me ne vado. Sono libera di farlo, libera nel vento, nel buio, nei pensieri. Ma non voglio essere sola. Sola come madre, sola con i miei figli. Non è bello, sai? Perché non si fanno i figli solo per soddisfare istinti materni. Sarebbe una cosa banale e stupida, oscena, inconcepibile. Deve essere qualcosa di più universale, da condividere con il proprio uomo. Va bene anche una oma, basta che sia un essere umano, che ti ascolti, che condivida i tuoi problemi, le incertezze, le paure, le influenze, le malattie infettive, i raffreddori, la tosse cattiva e quella buona, la quotidianità e quindi anche la noia. Tutto, insomma. E tutto è poco. Perché in fondo la vita è questa. Quella che io ho scelto, voluto, desiderato. Anche questa.
Poi ci sono i miei spazi, dove solo io posso entrare, dove tutti sono fuori, dove posso abbandonarmi ai desideri, alla lettura, alle mie fantasie. E la voglia di crescere, di trasformarsi in altro, di conoscere nuovi colori, ma insieme, in due, per non sentirsi soli, per scaldarsi i piedi la notte, per stringersi se c'è un temporale, per alzarsi insieme e mescolare sapori e odori e non sapere dove sei, cosa fai, qual è il tuo nome, per mangiare senza sentirsi in colpa, per ridere, per prendersi in giro, per creare, per aprirsi senza limiti... per non aver paura di invecchiare o aver paura e poterlo dire e sapere di essere ascoltati, capiti. Ma la mia è una bocca antica che dice parole vecchie e nessuno le ascolta.
"Insomma, ti vuoi sistemare? Portami il caffè a letto, svegliami al mattino alle sette, dammi i soldi che guadagni. E dammi subito anche il passaporto, così, nel caso, ti denuncio. E poi dimmi che non mi vuoi, perché se mi vuoi ti uccido, se mi vuoi mi vuoi e basta, tutto finisce lì e non c'è più trama e a me piacciono le trame".
Settembre - uva e fichi
Che strano, la mia fantasia mi è sempre venuta in soccorso nei momenti più brutti, per riportarmi un sorriso; in quelli più belli, per ricordarmi che quell'attimo fugace di presunta "felicità" non sarebbe rimasto nei miei occhi a lungo...
Il sole, questo sole tanto declamato nel suo spazio azzurro, è solo una palla infuocata che brucia i secondi della nostra esistenza, inesorabilmente, senza tregua, regalandoci solo l'occasione di scoprire che abbiamo un'ombra, fiacca, triste, impalpabile, sfuggente... Dietro ogni sguardo che si muove intorno ai miei non pensieri scopro scontentezza, angoscia, paura. Questa non è vita. E questo non vivere lo puoi respirare proprio tra quelle persone che si credono al sicuro nelle loro case, nei loro affetti, nella malsana convinzione che la logica del sistema sia l'unica arma per difendersi dal Nulla che inghiotte ogni cosa. Per un attimo riesco a gioire e a nutrire della mia vitalità le persone che mi circondano, che dicono di amarmi oppure di odiarmi... Poi, d'improvviso, entra in scena una delle tante voci che ospito dentro me e, senza troppo preoccuparsi delle conseguenze, mi ricorda, con vereconda lucidità, che il sorriso di mia figlia è solo un inganno alla sua vita. Vorrei gridarle contro che non c'è proprio niente da ridere, da rallegrarsi, che se potessi vorrei tenerla per sempre dentro me, un piccolo feto ancora incosciente che spreca energia per completare la più strepitosa meraviglia dell'universo: la creazione.
Qualcosa, ancora, manca.
Tra le mani ho il gelo del corpo di mia nonna. Ricordo di averla baciata fino a sentire le mie labbra come neve, ghiaccio, e di aver fotografato nella mia mente la sua eterna espressione di morte. Ed era proprio lei, dentro quella bara, senza dubbio. Le ho scritto una lettera, piccola, breve, e l'ho posata sopra il suo cuore spento. Banale, stupido, ma ho lasciato che una parte di me morisse con lei, là, nel buio, nell'umido e nel silenzio di giorni e notti senza tempo. Aveva tante cose da raccontare ancora.
Sotto questo cielo ho visto più volte aprirsi spiragli di luce. Adoro le nuvole, il grigio, l'infinità che ci avvolge in ogni istante e a cui pensiamo così poco. Spesso mi sono persa dietro il volo di un gabbiano, spinto dalle correnti d'aria, che si lascia cullare da un istinto innato. Anche il gabbiano Jonathan aveva capito che il suo volo non era solo un volo e che la sua vita, secondo uno schema prefissato, sarebbe stata sempre limitata dalla ricerca del cibo, dalle regole che gli altri gabbiani, i più anziani, avevano stabilito per mantenere quell'equilibrio naturale altrimenti irraggiungibile. Ma si era ribellato. Voleva rendere la sua breve esistenza qualcosa di irripetibile e seguire ciò che il suo cuore, la sua mente, gli sussurravano di fare. Per questo era stato scacciato dal gruppo e per questo non era stato capito nel suo intento. Voleva sfidare se stesso e provare a realizzare tecniche di volo pericolose e che comunque lo allontanavano da ciò che gli altri del gruppo ritenevano essere bisogni essenziali. Si dimenticò del cibo, degli altri, cercando, solo, di appagare quel senso di infinito da cui si sentiva avvolto. Forte era il suo desiderio e la volontà di provare (a questo punto non solo a se stesso) che non si può uccidere l'entusiasmo degli occhi, il volo, non si può spegnere il desiderio di diventare altro... e se quello che hai nelle tue mani non basta a farti sentire VIVO, devi e puoi scoprire i tuoi limiti e oltrepassarli e osare, osare fino a che non ti scoppia il cuore...
Ma il cielo non è spesso come adesso... e i miei pensieri si dissolvono nella luce diretta e fastidiosa di un sole che inonda i miei vicoli, le scale strette di una casa in collina, dove ho abbandonato ricordi e ho lasciato correre la bambina di allora nella scia di un vento mai stato nemico. Gli occhi di quella bambina non conoscevano ancora le intenzioni e il pensare difficile del gabbiano, ma seguivano con lo stesso stupore di adesso il volo delle rondini e quel loro continuo volteggiare nel vuoto senza mai riposare il respiro su un ramo.
Soffrivo per quel frenetico e disperato disegno invisibile che ognuna di loro lasciava nella mente e nel cielo, e aspettavo, in silenzio, che magari anche solo una di esse si posasse sul mio palmo e, con il volto perso nell'infinito spazio che si apriva davanti ai miei occhi, contro il cielo, paziente, tendevo le mani. Più che paziente, direi testarda, cocciuta. E se mi convincevo che le rondini si posavano sulle mie mani, le vedevo e se le vedevo io, dovevano vederle tutti. A niente servivano le spiegazioni di mio padre, il mio grillo parlante spiaccicato più volte contro il muro, che tra un olivo e l'altro, tra i rami e le foglie, con voce calma, suadente, cercava di distrarmi dal mio intento. La mia fantasia era così potente, lucida, inebriante che riuscivo a toccare tutte le rondini del mondo e a non sentire, protetta nella mia campana di vetro, quella voce. Perché stroncare i sogni a occhi aperti, perché essere razionali e far tornare ogni cosa come in una dimostrazione fisica o matematica? Eppure, quello stesso uomo era capace di raccontare per ore storie di personaggi fantastici, principi, principesse rapite o bambini caparbi sempre in mezzo ai guai e io lo ascoltavo a bocca spalancata, in attesa di nutrimento, di parole...
Mio padre tra gli olivi è ancora più bello. Le cose più vere, più oneste, ce le siamo dette proprio là, tra i suoi alberi. E conosco a memoria le espressioni, le mani che accompagnano gli occhi, i pensieri. Non si arrabbia, quando si trova tra le braccia di un suo olivo. Puoi dirgli ciò che vuoi, puoi confidare i segreti più segreti... ma poi non dovrebbe più scendere, perché come tocca terra, come scende a valle, ci ripensa ed è tutto un rinfaccio, una lotta, un tumulto. Gliel'ho detto. Rimani qui, per sempre, come il Barone rampante, non scendere più e fanculo e amaci... Forse è una questione di pressione. Forse è la posizione, il potere che ti conferisce l'altezza. Lui ha bisogno di sentirsi padrone e di solito glielo lascio fare. Infatti sto ai piedi dell'albero, ma sono più in alto di lui e lui non lo sa, altrimenti si arrabbia.
Caro uomo, padre, fratello, amico, sei proprio sicuro di conoscere i miei pensieri?
Dici che non avresti voluto figli, che l'hai fatto per lei. È stato per amore? L'hai fatto con amore? E allora finiscila di lamentarti, lumacone! E poi sarò arrabbiata con te in eterno, perché mi hai creato, fatto abituare al tuo sapore e abbandonato. Queste cose non si fanno, perché le bambine sono permalose, soffrono e poi combinano solo guai. Guarda un po' di inventarti qualcosa perché io, qua, senza di te NON CI STO!
Pausa pranzo.
Non mangio perché non mi va. Tanto poi tutto viene evacuato, non siamo capaci di trattenere niente. Anzi: siamo capaci di trattenere niente. Così suona meglio.
Ero rimasta tra le rondini e le farfalle, tra i miei giochi proibiti. Ne sono passati di anni e non me ne sono accorta. Mi rendo conto di invecchiare quando non batto i piedi per terra per ottenere le cose. Allora mi dico che sono cresciuta, cambiata. E me le dico così bene che ci credo. Forse si stava meglio tra le farfalle, che poi sono bruchi schifosi. E non volano, ma traballano nell'aria, ubriache e stupide, come quel giorno a Cavalese, io e la maiala (Silvia). Eravamo proprio cotte, ma felici. Facemmo anche pipì dietro una macchina, al buio, accucciate come animali, come femmine, come due cretine, appunto. E ridevamo e parlavamo e le parole non le capiva nessuno ed era una festa, una giostra tutta per noi, dove nessuno poteva salire e la musica, la musica che accompagnava quel girotondo, solo noi potevamo respirarla. E poi le canzoni inventate, le notti in bianco a scrivere stronzate, i ragazzi a cui si prometteva e poi non si dava un bel niente.
Questo mi manca. Mi manca una donna. Mi mancano i gesti di una donna, i suoi problemi, le mani sempre indaffarate. Mi manca la mia farfalla ubriaca, il colore degli occhi, la pelle scura. Perché non molliamo tutto e ce ne andiamo via anche solo una notte, a fare ruscelli di pipì dietro le macchine, nei prati, sulle teste della gente, a ridere senza motivo, a svolazzare nell'aria e magari ci rimettiamo anche a studiare, nello studio del B., un po' di latino, fisica, matematica? Dimentichiamoci di essere madri e lasciamo nel vento un segno, una ferita che possa rimanere in eterno.
E poi sei una baldracca, perché non mi chiami mai e non ti fai mai sentire e io sono uguale a te. Comunque ti penso sempre, mi manchi, sei la mia compagna di banco preferita, ancora sento il tuo odore, il tuo calore, la tua presenza. Nella classe, la nostra, abbiamo lasciato un brusio ancora vivo e i nostri occhi, verdi i tuoi e scuri i miei, ancora si scontrano per ridere, per comunicare, per tacere.
Ricordi il giorno che è morta mia madre? Il primo aprile 1984. Quella sera sei rimasta a dormire da me. Non mi hai lasciata sola. E al mattino i nostri passi vuoti e svuotati della sua non presenza ci hanno portato a scuola, perché io non volevo la pietà di nessuno e tu mi hai lasciato fare, senza discutere. La prima ora Inglese, professoressa V., una mamma, un'amica di famiglia. Ho resistito solo perché ai suoi occhi, quella mattina, ero invisibile. Seconda ora Filosofia, professoressa Re. Sono crollata sul banco, sopra le scritte dei giorni andati, di altri studenti... Sono crollata sopra le braccia appoggiate sul legno, i miei capelli una coperta, un lenzuolo, un nascondiglio. Ma piangevo forte, perché d'improvviso mi ricordai di non avere più mia madre, il suo volto, la voce, le mani, la sua musica.
Nella classe il silenzio, nessuno fiatava, solo i miei singhiozzi erano liberi di farsi sentire e lei, pure lei, si mise a piangere e ti disse dolcemente di portarmi fuori. Ti sento ancora, sai? Sento il tuo braccio, le tue lacrime, il tuo fazzoletto. E fu un via vai di mani che mi toccavano i capelli, sfioravano la testa e io, seduta sulle scale, il volto nascosto tra le gambe, ricordo, con gli occhi chiusi, ogni ragazzo e ragazza che mi ha regalato una parola, un po' di calore, e tu che sei rimasta incatenata a me, alla mia disperazione, perché non mi portasse via... Ora, dicevo, ora sono proprio sola, e mi tocca di nascondere la mia tristezza, perché altrimenti non ci esco più. Domani mi farò interrogare a matematica. E se quella stronza non lo farà, giuro che la uccido. È ancora viva, lei. Ogni tanto la incontro, sotto casa, a fare la spesa. Sempre uguale, sempre terribilmente uguale. Ed è lì, è viva, solo perché quel giorno ha messo un voto per me nel suo registro.
Cara baldracca, diamo fiato ai nostri ricordi, ma senza piangere. E se mi prometti profumi, cascate e il verde dei tuoi occhi, tornerò per te ancora bambina...
22 ottobre 1998 ore 9.00 circa
Mio padre è a Lisbona. Mi sarebbe piaciuto partire con lui, come tre anni fa. Ricordo che decisi in pochi secondi, senza dare troppe spiegazioni. Lasciai tutti a bocca aperta. Perché li ho abituati male, credo. Dolce, appassionata, paziente, occhi che sanno ascoltare. Ma non è sempre così. E anche in quel periodo decisi di andare e lo feci solo per me. Nonostante i luoghi di morte che visitammo, mi sentii felice. Furono giorni di silenzio, in qualche modo. Lui non chiedeva, ma capiva, io non parlavo e non capivo, perché stavo così bene. Gli obblighi, i doveri, il lavoro. La responsabilità. È una rete immensa, quella della responsabilità. Immensa e ingrata.
Più tardi ore 11.30
Ti vorrei portare sopra la mia bici, sulla canna, in giro per le strade, in pineta. Vorrei saperti dietro le pareti della mia casa, mentre sono in bagno, in camera, e indovinare le tue espressioni, il tuo respiro. Vorrei aspettarti a letto, per giocare, per dormire, per sentire che ci sei davvero, che non è un'illusione. Così, persa in tutti questi vorrei, riesco a ombrarmi e neanche poco. Per non farmi troppo male, esco da me, mi saluto, me ne vado.
24 ottobre 1998 ore 11.25
Muoviti, mi hai detto ieri sera. Forse volevi che ballassi per te e non l'ho capito. Ma non sentivo la musica e non sono riuscita a ricrearla nella testa. Pensava ad altro la testa. I miei movimenti sono lenti, se ho ben capito il significato. Cosa vuoi che faccia? Scrivimelo anche tu, perché non so se sono capace di agire da sola adesso. Le decisioni che dovrei prendere non toccano solo la mia vita. Ma tre. Due delle quali le ho partorite io. Ti sembra poco? Non posso permettermi di essere troppo istintiva. E poi lo voglio dire perché anch'io sono passabilmente onesta... mi fa terrore rimanere da sola con un figlio appena nato e un'adolescente.
Tra un'ora sarai alla stazione per andare a Torino. Se ci penso mi viene voglia di piangere. Mi sento come quando da bambina i miei non volevano farmi avere quello che desideravo: un gatto, un cane, una scatola di bestioline di plastica. Non posso averti, non posso seguirti, quindi sto male. E non posso agire. E mi fa male lo stomaco e non so con chi prendermela. Vorrei uscire da questo tunnel, ma tu conosci la strada più breve, quella meno dolorosa per tutti, puoi insegnarmela, puoi rimanere con me nel cammino? Ma tu lo vuoi davvero?
È ancora notte. Buio. E nel buio ti rivedo e ti sento dentro me, nel mio corpo e mi batte forte il cuore e mi viene voglia di te e non voglio che ti allontani da me. Sto ancora sognando. Stamani non trovo pace in nessun pensiero, in nessuna scrittura, dentro alcuna parola, tra le righe, le virgole, i punti. Ora mi ficco in una busta, così, quando torni da Torino, ti faccio una sorpresa. Oppure prendo la macchina e invece di telefonarti ti raggiungo alla stazione.
Scema.
E tu cosa vuoi da me, dalla mia vita, dai miei occhi, dalla mia mente pigra? Una volta, per la precisione una notte d'estate, una delle tante notti trascorse insieme al telefono, mi confessasti di avere paura che per me fosse solo un momento, destinato a sparire se con D. le cose si fossero in seguito sistemate. E devo dire che avrei voluto anch'io dirti qualcosa a quel proposito. Ma siccome non coordino i pensieri alle azioni, ho taciuto. Non solo per questa ragione, comunque. Sappilo. Ci sono domande che non ti faccio, perché mi sembra di violentarti, di costringerti a dire cose che altrimenti non mi diresti mai. Tanto ti amo lo stesso.
Mi capita di pensarti vicino a E. Mi capita di chiedermi perché è tutto finito, cosa è accaduto. E mi sono chiesta cosa accadrebbe se per qualche magia, perché la vita a volte è davvero incredibile nel sorprenderti, lei tornasse da te. Inizialmente lo speravo. Ti ho visto soffrire così tanto, che avrei voluto rincorrerla, fermarla e riportarla da te. Dopo mesi di gravidanza, di allattamento, di giorni comunque goduti tra sorrisi e pannolini, mi hai riportato il sapore della malinconia, della sfinitezza, della sofferenza. E ho pianto per te. Per te sono tornata a vivere nel mondo, quello di tutti, quello reale, non più solo nel mio.
Torno a ripeterlo. Il tuo timore era anche il mio. Un attimo prima avrei desiderato saperti lontano da me. Lontano, ma felice. Un attimo dopo ho liberato l'egoismo, ho pensato a me e non ho potuto fare a meno di amarti, così, come ora.
Adesso ti chiamo, perché sono le 12.30. Poi torno. Ciao.
Sono di nuovo con le mani sulla tastiera. Vorrei che fossero altrove le mie mani, adesso. Tu sei pronto per partire. Ti lavi, canti, mangi. Ma un po' mi pensi? Buon viaggio, amore mio, e pensami perché io lo farò ogni istante, ogni momento reinventerò il tuo sorriso e sarò invidiosa, ti penserò di notte, al buio, sotto il sole, la pioggia, nei pensieri distratti. Ti sento, sai, ti sento scorrere nel sangue, sei dentro me che giri come un topo ballerino e fai rumore e non mi fai dormire la notte e neppure il giorno. Ma non smettere mai. Non smettere mai di sorridermi. Non smettere mai di vagabondare dentro il mio corpo.
A presto.
28.10.98
C'è un vento forte, stamani. Caldo, invitante, avvolgente, vellutato sulla pelle. Nell'aria c'è un sapore di sale marino, puoi sentire le onde, se vuoi, quel loro continuo sbattere, morire, ritornare. Puoi sentirlo, il movimento del mare, questa sua inquietudine che non nasconde e ti rapisce gli occhi. A me tocca di nasconderla l'inquietudine, il desiderio, la voglia di essere altrove.
Che sarà mai poi questo mare, così grande, infinito, questo suo sbattere, la sua forza immensa, la sua voce? Mi fai impazzire quando sei così agitato. Mi fai piangere dalla gioia. È uno spettacolo per cui vale la pena esserci, uno dei pochi, uno dei tanti. Ho lasciato molte cose dentro te. Non le ho perse, no, te le ho affidate perché tu le custodissi, perché tu ne avessi cura. E questa estate ti ho fatto conoscere anche il calore del mio cucciolo, ho cantato canzoni per voi, e tra le mie braccia, e le mie tra le tue, si è addormentato di un sonno amico, sicuro, dolce. Un sonno bambino, invidiabile.
Io non riesco più a dormire così e per questo ti scrivo e vorrei tuffarmi in te, nel blu, nel verde, nel bianco delle onde di adesso. Sei così bello tu. Bello ed eterno. La tua bellezza, il tuo splendore di oggi sono quelli di ieri, quelli di domani. Tu non hai tempo. Forse noi te ne abbiamo dato uno, il frutto della nostra civiltà adorata che ti sporca, ti sputa, ti deride. Ma tu, da solo, non hai confini, non hai paure, non temi nessuno. Siamo così diversi tu e io. Ed è per questo che ti amo così tanto. Ti amo da morire, amo di te anche lo spruzzo più innocente, quello selvaggio, quello che non puoi arginare. Ma saremo sempre due cose distaccate, separate. Potrò solo guardarti, non possederti, non abituarmi a te. Posso anche navigarti, se tu me lo permetti, ho anche il diploma per farlo... Viaggiare sopra di te, con te, con la scia del tuo profumo delizioso. Ma poi le nostre strade si allontanano. Io devo tornare. A casa s'intende.
Forse adesso non sto parlando al mare. Credo proprio di no. Si sono sovrapposte le immagini, le inquietudini, i sapori, i colori. Che sia tu il mio mare? Non posso crederci, non voglio crederci. Il mare è altro da me.
Venerdì 30 ottobre 1998
Ieri pensavo che è tutto assurdo. La vita, gli omini, le donnine, le casine... Viviamo chiusi in queste scatole e non ci amiamo poi tanto. Pensavo che la mia vera luce, il mio orgoglio, la mia forza è la mia eredità. Che non è un limite, no. È un'estensione, è illusione di essere eterni, è voglia di ricominciare, di rimettere tutto in discussione. Parlo per me, ovviamente.
...
Non avrei voluto tutta questa confusione. Te sì, ti ho sempre voluto. E come accade nelle favole, l'ho fatto nel momento sbagliato, perché errate erano le coordinate. Ma so che la mia vita è legata a qualcosa che è difficile spezzare. Almeno adesso. O. è piccolo, ha bisogno di me, di suo padre. Io non posso far svanire tutto questo. Non ci riesco. Non riesco a pensare solo a me, a quello che vorrei. E tu non mi dici mai niente in proposito.
...
Mio padre è a G., dice che le olive cascano e fa la vittima perché è solo. Il che non è assolutamente vero. Il vittimismo che lo avvolge mi fa sorridere oggi, per non dire che mi fa morire dal ridere e quindi mi fa anche piangere. Mi dispiace solo che non è cresciuto, che non ha ascoltato il suo dolore, che non lo ha toccato, amato, odiato, e poi scacciato definitivamente. Almeno uno ci prova, dio... Io l'ho fatto. E credo di averlo fatto da sola, come tutte le cose più importanti nella mia vita. È anche per questo che sono stanca. E meno male che allatto, così quando lo dico tutti credono che sia per quello, mi consigliano di fare le analisi, di smettere, perché adesso il bimbo è grande. E io rido. Prima di tutto sono stanca lo dico io e voi no, poi centomila lire per fare le analisi e sentirmi dire che sono anemica non le spendo. Lo so già. Poi O. non è per niente grande, dio lupo. Se lui è grande, noi che siamo? E io lo allatto quanto mi pare, perché il seno è mio, il latte pure e anche la voglia che ho di farmi succhiare. Tutto mio, cazzo volete?
Ci pensi che siamo niente? I maglioni spiegati, le mutande, i pantaloni, i piatti da lavare. Siamo uno sputo nell'oceano. E ci facciamo venire anche la gastrite. Fanculo la casa, le pulizie, il mangiare, la cucina che cade a pezzi e tutto il resto. Voglio andare via. Ma non lo posso fare. Quindi mi dico che non voglio andare. Voglio venire da te. Voglio dormire con te, fare l'amore per una notte o tutta la vita. Voglio pensare solo a noi. Non deve esistere altro. Nessuno mi deve distrarre dal mio amore. La vita passa e io ho così poco tempo per conoscere i tuoi occhi. Voglio stare sempre con te, ti aspetto in macchina se vuoi, dormo e ti aspetto. Voglio seguirti nei viaggi, voglio correre con te in macchina e baciarti quando non si può, baciarti e amarti e prenderti in ogni momento. Voglio alzarmi, adesso, uscire, salire in automobile e raggiungerti. Lo faccio e quando esco dalla scuola non ricorderò più i rumori di casa mia. I suoni. La musica. Ti seguirò. Come un'ombra, come un bambino vuole la madre io voglio te. E non voglio confondere il tuo sapore con nessun altro umore. Ecco. Ora che l'ho detto non sto per niente meglio.
Anzi.
Appunto.
31 ottobre 1998
Nuvole. Mal di testa. Sonno. Sono sfinita. Mi sembra di essere in un film, dove ognuno ha la parte, dove ognuno può recitare, dove tutti sanno come andrà a finire. Io no.
Sono tornata, le mie mani sul computer, la mia testa tra le nuvole. Ho scritto sul quaderno, perché mi manca la mia mano sinistra che scorre e mentre scorre si porta via l'inchiostro e qualche parola. Sono mancina, rovescio le parole, gli eventi, le stagioni. Ma per rimanere con i piedi per terra ti dico che stamani ho pianto. Sono triste e credo che non ti spedirò queste parole. Le altre lettere sono ombrose e quindi le strapperò. Mi sembra logico e quindi sciocco. Avrai tutto.
Sto tamponando il malessere dentro, ma non ci sta più niente, sono piena, il seno di latte, gli occhi di lacrime, la testa di stronzate e non. Vorrei buio per fare le facce che mi pare, senza sforzarmi, perché tanto, comunque, ci riesco male.
Tra poco sarò a casa. E sbuffo, e grido e non so a chi parlare. Almeno mio padre mi ha chiamata ed è stato dolcissimo. Avrei bisogno di una donna, lo sento, di una donna bella e forte e chiara. Una donna che capisce le mie notti, il mio desiderio, i sogni. La vorrei tutta per me, vorrei piangere sul suo seno e poi ridere, perché troverebbe senz'altro le parole giuste per farlo. Non ce l'ho una donna così. Proprio no. Paola è dolce con me, intelligente e poi divora libri, tanti libri, è viva, glielo puoi leggere negli occhi. Ma sinceramente avrei paura a farmi stringere troppo. Sono secoli che una donna non asciuga le mie lacrime e non so se ne sarei capace, adesso. Però la voglio, la devo cercare, ritrovare. Sai che bello se mi innamorassi di una donna. E lasciassi tutto per lei. Immagino le facce, i commenti, le parole. Magari una bella negra.
2 novembre 1998
Non ti ho scritto ieri. Avrei voluto vederti e toccarti e poi magari anche scriverti. Ma nessuno dei tre desideri è stato esaudito.
Oggi ho molte cose da fare. E sono felice, perché se sono impegnata con il corpo, se mi muovo, trattengo meglio ogni cosa. Magari metterò i canti cileni che ho ritrovato a G. Erano in uno scatolone, una vecchia cassetta che fece mia madre. Si sente ancora bene. Credo che la distruggerò.
Ogni gesto ne richiama altri e si finisce per fare sempre gli stessi. Stamani però mi sono legata i capelli, tanto per cambiare. E sono stata brava perché il ciuffo è selvaggio, provocante, capriccioso. Almeno chi mi guarda in testa rimane perplesso, sorride e via. Ora mi alzo e vado a zonzo per la scuola. Non ci riesco proprio a stare seduta. Ciao.
Ore 11,40.
Ho girato per i corridoi, ho preso un altro caffè, ho incontrato l'assistente di spagnolo. Mi ha fatto un sorriso grande e affettuoso. Io ho sorriso con gli occhi.
Senti un po', ma dove devi essere a mezzogiorno? Non mi racconti niente e io invece ho voglia di ascoltarti. Anche di Torino non mi hai raccontato niente. Solo delle bionde. Antipatico stupido e cretino. Se fossi stata libera, mi avresti odiato. Ecco perché ho due figli. Per non farmi odiare da te. Se avessi tempo, saresti tu a cacciarmi. Tanto per rimanere tra i se e i ma.
Non so se spedirti questi pensierini da terza elementare.
Dice che se vai in albergo e chiedi una coperta ti mandano una donna. Il preside voleva una donna e ha avuto una coperta. Io ho mal di pancia e quasi quasi la chiedo anch'io una coperta, così avrò una donna tutta per me, per raccontarle delle mie rose, dei giardini, del castello e già che ci sono del fossato e due o tre coccodrilli. Io dico che mi ascolterà. Ne sono convinta.
4 novembre 1998
Sto riavvolgendo il nastro per tornare a ieri. È una fatica indicibile, perché ogni cosa mi rapisce a forza e mi tiene qua, al lavoro, a casa. Ogni gesto, le parole, i soliti rumori.
Sto cercando disperatamente di tornare da te, oggi. Ma il mio problema è cosa dire. So anche che tutti i discorsi che mi dico sulla paura di rimanere sola o su O. sono solo dei punti, dei numeri che portano a una conclusione. Mi secca dover ammettere certe verità assopite. Se guardo bene indietro, probabilmente avrei dovuto chiuderlo prima il mio legame. Non so perché non l'ho fatto e ti assicuro che ci sono andata vicina tantissime volte.
Forse perché credo che stare insieme, convivere, sia la cosa meno naturale del mondo e che quindi richieda pazienza infinita, ma anche sacrificio, saper aspettare l'altro, se non riesce a tenere i tuoi passi. Altrimenti si dovrebbe stare insieme a qualcuno per qualche mese e poi cambiare e così via.
Io sto aspettando che lui decida. E per tutte le volte che non si è preso cura del mio corpo, della mia testa e mi ha fatto piangere, gli auguro altrettanti giorni e notti d'inferno. Che comunque sta scontando, perché quando mi cerca non mi trova. E se mi vuole, che mi paghi, tanto non c'è nessuna differenza, perché l'ho già fatto in passato di chiudere gli occhi e di pensare ad altro. E non lo so perché l'ho fatto. Forse sono malata. O solo scema, chissà. E poi il vero malato è lui che non se ne è reso conto.
Hai ragione, quando dici dei soldi. A me servirebbero, affinché la mia decisione fosse pulita, senza pesare su altre persone, tipo mio padre.
Ore 11.40
Questa è la mia mano sinistra che porta ancora il tuo sapore e vuole parlare di te. In realtà il tuo sapore lo sento ovunque, sul mio corpo, tra i capelli, intorno. E lo sento anche dentro, al sicuro, dove nessuno può arrivare, dove nessuno immagina. Scrivendo al computer, mi sono persa. Persa nei discorsi troppo seri e allora ho spento tutto per non confondermi ancor di più le idee. Che poi, se guardi bene, di confusione ce n'è ben poca. C'è difficoltà nell'agire. Ecco che cosa c'è. Comunque io sono rimasta a ieri, alle ore che abbiamo trascorso insieme, tra le tue mani, i capelli, i tuoi baci. E non ho intenzione di muovermi da lì. Questo mi conferisce come al solito un'aria distratta, assente, irraggiungibile, sognante.
16 novembre '98 lunedì ore 10.00
Il computer è nuovo. Finalmente, dopo anni, ci sono riuscita. Ma stamani poco m'importa del nuovo che ho trovato, poco m'importa del cielo azzurro, del sole, dell'aria frizzante... Di nuovo non c'è niente in effetti, perché il malessere appena accennato mi segue ovunque.
A casa invece stavo bene. Sola con mio figlio, con i nostri occhi, a parlare un linguaggio segreto, incomprensibile agli altri. Io e lui soli e stretti. E chi potrà mai dimenticare questi giorni, chi potrà mai dimenticare il sapore dei nostri corpi, delle sue mani che frugano nel mio petto, degli occhi che chiedono amore, conferme, ascolto, consenso?
Ma la vita non è questa, almeno non la mia. È rintanata altrove, perché, dicono, gli occhi di un figlio non possono, non devono bastare. E allora si va al lavoro, si sbriciola il tempo senza assaporarlo, si vuole la parità, perché la donna del Duemila deve lavorare. Per la sicurezza, per i soldi, per soddisfazione propria. Io dove mi colloco? Forse nella sicurezza che non trovo negli altri, per i soldi che sono sempre pochi, perché sono costretta, insomma. Preferirei coltivare un campo tutto mio, scavare la terra con le mani, solcarla con il corpo, seminare e far nascere, crescere e godere dei frutti. La terra feconda, tanto per non parlare del senso materno che gira nei dintorni.
La casa la voglio isolata. All'ombra di un albero immenso, grande, secolare come la quercia, per esempio. Il fusto alto, imponente, resistente, legno saldo e compatto. Tutto ciò che voglio da un uomo lo posso trovare in un albero, non credi? E quando tutti dormono, quando anche la terra riposa, salgo su veloce come una scimmia, tra i rami forti, duri, tra le ghiande, seduta e rannicchiata con le braccia intorno alle ginocchia. E mi vedo a godere di quell'attimo tutto mio, senza fiatare, solo per poterlo ricordare.
Voglio, un giorno, stancare le mani tra l'erba, i campi, e invece degli olivi voglio l'uva, voglio perdermi e nascondermi nei grappoli, tra le vespe, voglio ubriacarmi della mia uva e non trovare la strada che porta a casa e dormire tra un solco e le viti e sentire le tue braccia che mi portano via. La tua voce e le tue mani. Al buio ti riconoscerei ovunque, tra mille e più persone, il tuo sapore, la pelle, e mi lascerei andare senza paura, senza perché.
Tu non sei una cornice. Io parlo di te sempre.
E se non lo sai allora sei scemo e stavolta non scherzo. È cosa ardua parlare apertamente di tutto quello che sei, che non sei, di come e quanto ti voglio, di quando apro gli occhi e non ci sei, dei momenti vissuti solo a metà, delle emozioni che scorrono tra i fili del telefono, delle parole che non ti dico per non abituarmi troppo al suono che lasciano dentro, del silenzio non trattenuto, di quando non parliamo affatto ma parliamo lo stesso, di quando fai il buffone e mi riempi di gioia. Impresa ardua è amarti ogni giorno di più e vivere lontano da te.
Prima di andare nei paesi freddi devi lasciarmi qualcosa, altrimenti non tocco cibo fino al tuo ritorno. Sì, questo è un vero e proprio ricatto, e chiamalo un po' come ti pare, tanto il significato è lo stesso.
Oggi ho la gonna. Anzi, è uno scamiciato che portavo quando avevo O. dentro, ma ancora non sapevo cosa sarebbe stato, uomo, donna o chissà che altro. Comunque ho indovinato: sesso, colore occhi, capelli. Se desidero intensamente, tutto si modella secondo i miei piani. Ma deve essere un desiderio infinito, una voglia infinita, un piacere infinito. Infinito e vero e passabilmente onesto.
Credi che ti desideri così tanto, mio pilota, o cosa? Perché se così credi, forse è il caso che cominci a preoccuparti, a soffermarti, a toccare con le tue manine ciò che stai facendo. Se poi ti ritrovi in qualcosa più grande di te, che fai, sparisci?
Sabato ti avrei picchiato. Per amore, per rabbia, per il dolore che mi hai lasciato e le parole che ti sei tenuto. Sdraiata sul mio letto mi sono fatta autoanalisi. Così la chiama la psicologa-mamma-Tonarelli. Tu chiamala come ti pare, a me non importa niente dare un nome a ciò che ho fatto. L'ho fatto e basta. Ho parlato ad alta voce, tanto ero sola e il piccolo dormiva dopo la caduta dal letto - caduta con tanto di tuffo e capriola. È andata bene. Ho pianto e ho liberato le lacrimucce, che altrimenti facevano tanto male in gola e dentro gli occhi. Dopo non sono stata meglio, comunque. È stata una giornata vuota di sentimenti, di spazi, di desideri. Senza la volontà di capire, di spiegare, di ascoltare. Mi sono guardata allo specchio, il volto stanco, struccato, gli occhi vuoti di lacrime, di riflessi, di sapori. Ho voglia di dormire, ma poi mi devo risvegliare e devo ricominciare da capo e allora non mi conviene dormire, sono già a un buon punto e non voglio tornare indietro. Indietro mai. Anche nei ricordi più dolci, anche tra le braccia di mia madre. Preferisco soffrire ricordando, piuttosto che rivivere il dolore del distacco, della perdita, di una fine non necessariamente chiamata morte. Voglio stare dove sono. Perché sono viva, perché ho ancora un'ombra, perché ci sei tu a darmi luce, ombra, a farmi bere veleno, assaggiare miele e latte. Il caffè no, ti fa male. Ci fa male. Non voglio spostarmi, voglio solo trasferire altri in altri luoghi. Poi rubarti e toccare i tuoi pensieri, tutti li voglio, sfogliare i ricordi uno a uno e restituirteli filtrati di un colore rosato e sentire ciò che senti tu, vedere con gli occhi di un colore diverso dal mio.
Tutte queste parole, un giorno, quel giorno, le vorrò leggere ancora. Magari riderò di me, di noi, di te. E soffrirò per questo oppure sarò lieta di scoprire che qualcosa è andato come voglio adesso. La Berta di quel giorno sarà in grado di ridere di quella di ora? E se riderà sarà per follia, per pazzia, per lucidità omicida o solo per ridere, per giocare?
Ora basta, mi devo rimettere a posto, perché tra poco vado a casa. Il ronzio della tua voce è rimasto nelle orecchie. Negli occhi c'è un'immagine poco chiara, sfuocata, l'ultima volta che ti ho visto non ti ho visto bene. Torna da me, bello, splendido, sorridente e non dimenticare il cavallo e il mantello per nascondere, agli altri, la mia felicità.
16 novembre '98 lunedì ore 10.00
Tutto deve continuare. La giostra può e deve ancora girare. Senza musica? Senza musica. Canto io se necessario. Come so, come mi viene. La luce degli occhi mi impone riflessioni contrastanti su episodi esterni a me. Se fosse buio, sarebbe un'altra cosa. Ma come apro gli occhi vedo e le immagini, le istantanee che scatto con le pupille rimangono indelebili nella testa, nel respiro, a tratti, distratto. Sono io la madre di questi episodi. Sono io colei che ha generato questa situazione anomala, che vuole non vuole e che poi si vedrà? Forse ho portato in grembo questo malcontento, questo malessere di cui, ancora, non conosco il nome. Ma non sono stata sola, altrimenti non avrei potuto generare. Il seme non mi appartiene. Ma se lo cullo dentro me, è perché tu te ne sei liberato gettandolo nel mio corpo, caldo, avvolgente, invitante, sicuro. E ora di cosa ti lamenti, cosa vuoi, cosa non c'è? La forza madre che è in ognuno di noi, la fermezza delle mani, degli occhi severi io ce l'ho, certo. Ma le mie parole, lo ripeto, da sole, vanno poco lontano. Dal cervello alle mani, dalle mani al computer e poi tornano indietro. E indietro, a me, non piace. Posso arrestarmi, come per riposare un po'. Ma il cammino deve procedere senza tregua, se necessario, il passo deve saper schiacciare l'ostacolo. Buttarsi via, lasciarsi andare, abbrutirsi non serve, non dice niente, se non che hai una paura fottuta di rimanere solo, senza amore, senza nome, senza luce.
Ieri sera, nel vuoto della stanza dove poco prima io e Paola toccavamo pensieri e distratti personaggi delle nostre vite, in quel vuoto, sul tappeto, cercavo di ricordare le parole di un Lui grande, di un Lui che amo e a cui penso spesso e non lo so.
Prima di cercare con le mani l'ho fatto con la testa ed è stato bellissimo, perché è in momenti come questi che sono davvero felice di esserci e naturalmente ho fatto lacrimuccia. E ci sono riuscita, ho ricostruito qualche parola, il nome di quella poesia in forma di rosa. La realtà "...per cui non sono nato, e sono qui solo come un animale senza nome: da nulla consacrato, non appartenente a nessuno, libero di una libertà che mi ha massacrato...". L'ho letta e poi l'ho fatto ancora e poi ancora e non mi bastava mai. E adesso avrei voglia di riscriverla tutta, dall'inizio alla fine, con le mani sulla tastiera, con la mano sinistra sul foglio e poi quella destra, perché noi mancini sappiamo fare cose che voi non capirete mai. E poi faccio una confusione incredibile - sempre io che sono mancina, voi no - perché penso e penso male e mi ritrovo tra le parole mie, tra le parole dei libri che leggo, che ho letto, e confondo tutto, e a volte cerco la villa di Fulvia, mi sveglio e mi sforzo di capire se Milton ha trovato Giorgio oppure no, e sento il suo dolore, la corsa, la paura, gli spari, e scopro che ormai l'ho letto il libro e che è tutto finito e che posso leggerne un altro e fare ancor più confusione, perché un libro è vivo, si muove, ti segue, ti scalda, ti tocca il cuore e tutte le terminazioni nervose. E poi non so più con quale mano agire, quale dei miei occhi cattura, per primo, la parola e la sua immagine.
Allora cercherò Hamilton, la Casa degli Ufficiali e mi imbarcherò con Lui e fanculo il resto. Decido che vale sempre la pena leggere, anche se fa male. Proprio perché fa male e la realtà diviene allora più sopportabile, se non altro ti fa ridere, come rido io quando qualcuno mi chiede perché non facciamo più l'amore, quando una voce mi dice che vuole andarsene, ma poi rimane. Cosa è la mia realtà, che rumore può fare mai? È niente, se conosci il clamore che provocano nella testa pagine di libri lette e rilette, scoperte, non capite, affondate nel sonno di interminabili notti, giorni, anni.
Vivo nei libri, e nella realtà sogno di vivere. Nella mia realtà, nervosa, frettolosa e pur stanca e vuota di figure geometriche, precise, limitate dal segno che incide la carta. Qui c'è mio, vietato passare. Fanculo all'Europa unita. Io voglio il ponticello che si alza e si abbassa sopra il fossato che circonda il mio castello, e dentro il fossato i coccodrilli, altro che casetta isolata con vigneto! Il cavallo sì lo voglio, e il mantello pure. Anche te voglio, tanto il castello è immenso e se ti girano non mi faccio trovare per dei mesi. Un semestre sì e uno no. E voglio vestiti bianchi, perché sono impura e almeno il vestito candido come se fosse pelle me lo prendo. Bianco, azzurro, nero e rosso a seconda dell'umore, dell'odore che ho, del sapore che sento. E stanze vuote, immense, e per ogni stanza un camino e un tappeto dove stendere la stanchezza, la gioia, la rabbia di essere donna.
Tu che fai? Se hai fatto con D. ti aspetto. E ci trastulliamo insieme.
20 novembre 1998 ore 11 meno dieci
= 1 1+1=2 e fino a qui ci siamo. La matematica non è un'opinione e quasi quasi conviene parlare in numeri. Non credi?
Ho chiamato F., a proposito di numeri. Dice che per oggi va bene. Adesso vediamo a quali nuove avventure andrò incontro. D. avrà da lavorare, il bimbo piangerà e chissà che altro. Io sono sfatta. Ho mal di testa, mi pizzicano gli occhi, i capelli sgonfi e poche idee per la testa. Ci sono attimi che pur essendo brevi sono carichi di un'intensità palpabile, con massa, peso, corpo. Lasciano persino delle tracce, se guardi per terra. Avrei voglia di fotografare la mia vita. Un'istantanea gigantesca, mettere a fuoco i particolari e togliere, sfuocare le cose inutili a tal punto da non vederle più, renderle così impalpabili da essere innocue. I contrasti, i grigi, il bianco, il nero. Tutto deve risultare, alla fine, perfetto. Un'immagine nitida, chiara, esemplare.
Cosa rimarrebbe?
Mi muovo come una gatta stamani. Non riesco a stare seduta, in piedi, provo a scrivere e poi a leggere, poi rido da sola e mi guardano, le donne presenti, preoccupate, stupite, perplesse. Non osano chiedere, per compassione, forse, per paura, per timore. Non ho fortuna con le donne. Strada facendo ho perso tutte le amiche. Una di esse, di cui non posso dire il nome perché è un nome splendido e sprecato per lei, in una delle ultime volte che ci siamo parlate mi disse che le facevo paura. La vedo ancora, con la sigaretta tra le dita, le dita strofinarsi l'una con l'altra con energia, sbadataggine, con gli occhi scuri che scrutano i miei pensieri. Anticipava sempre le mie parole con le espressioni del volto. A volte le usciva di bocca un "No, Berta, falla finita!". Io ridevo, perché ancora non avevo liberato i pensieri ed era bella e avvolgente la nostra complicità, il nostro, e di nessun altro, mutismo.
Anche le nostre notti hanno avuto un fascino indimenticabile. Lei si alza, parla, cammina per casa, poi torna a letto e bisogna lasciarla fare, altrimenti, si dice, è pericoloso. Le sigarette, le parole abbandonate sopra il letto, le risate stanche, vuote del giorno scomparso. Gli abiti smessi, gli odori scambiati, la stanchezza persa e ritrovata negli occhi appena aperti. Non avrei dovuto cercare altro, forse, concentrare tutto su di lei, su noi. Mi chiedo se è quello che avrebbe voluto quel corpo senza un nome. Ora è solo un ricordo. Trasparente, senza colori. Posso vedere solo il contorno, ma dentro c'è il vuoto.
Comunque non ho più voglia di parlare. Ho voglia di sprofondare in un sonno profondo e al risveglio avere la mente ripulita, fresca, lavata e stirata.
Che poi lo strano, il curioso è che proprio quando pensavo di aver raggiunto un punto non fermo ma semimobile, sei arrivato tu. Anzi, sei tornato tu.
Ho voglia di muovere il mio cervello su un campo non minato. Voglio stenderli i miei desideri, come tappeti d'oriente, voglio saltarci sopra alle mie voglie, voglio raccogliere i pezzi e farne uno solo, senza il terrore di esplodere da un momento all'altro.
Correre da te, creare il buio intorno, trasportarsi dietro l'angoscia che qualcosa vada storto, che succeda qualcosa mentre io non ci sono, perdermi nella tua bocca, cullarmi tra le braccia, sentire il tuo corpo nel mio e affondare in un piacere indicibile. Poi c'è il ritorno, sentire le vene che gridano "è tardi", il sangue ribollire e non gustare i momenti vissuti insieme. Sento di isolarmi, di creare quel campo magnetico che mi tiene inchiodata alle mie paure. Lo so bene che è così, perché è così, ma sento di soffrirne troppo al mio rientro a casa. Devo lasciarti fuori o tenerti dentro al sicuro. Devo raccontare cose che non sono accadute, oppure tacere e tenerle dietro agli occhi le ore appena passate...
Ore 12,45
Mi hai chiamato pochi secondi fa. Sei stato dolcissimo. Mi piace quando sei così, perché sei un vento che scaccia le nuvole, i dubbi, le paure. E mi avvicina a sé, perché si trasforma in uragano e mi trascina nel vortice. Ora vado a casa però. Tra poco, intendo. E quando apro e subito chiudo la porta, il vento posso solo vederlo passare tra i rami degli alberi, tra il verde delle piante sui terrazzi. E immaginare il suono, la musica che allaga le strade, i vicoli, le persone. E diventare triste come una bambina che aspetta di un'attesa infinita, alla finestra, il ritorno di sua madre...
Fuori è freddo il vento reale. Il cielo è limpido e alto, irraggiungibile.
Qualcosa accadrà.
21 novembre 1998 ore 8.55
Voglio vederti. Adesso, subito.
Ho bisogno di te, di baciarti, di averti sulla pelle. Vieni da me, anche solo per un bacio, per stringerci un po', per arrivare a martedì un po' meno angosciati. Dopo lo sarò di più, forse, perché non vorrei staccarmi mai da te, vorrei essere ovunque con te, a far niente, a parlare, dormire, fare l'amore.
Mi viene da ridere se penso che non hai mai voluto figli e adesso ti ritrovi una donna che ti ama e che ne ha addirittura due. Sembra quasi una punizione divina. Chissà cosa pensi in proposito.
Se penso che andrai lontano mi sento morire. Non è che sto malino, sento che crolla tutto, dentro. Lo so che ci vediamo poco anche adesso, ma saperti tanto lontano è un pensiero opprimente, pesante, che fa male allo stomaco come a quindici anni, quando vedi passare il tuo amore e ti batte forte il cuore e non hai mai fame e sogni e piangi e pensi che la vita sia tutta racchiusa lì, che sia bella e crudele nello stesso istante.
Mi muovo, in casa, non sto mai ferma e quando me lo fanno notare mi siedo e mi dico "ora parlo, parlo di me e dell'amore che è nei miei occhi". Poi divento muta, ho paura a coinvolgerti, perché immagino la reazione del leone. Non ho voglia di questa soluzione. Non porta a niente.
Sono sola a lavoro. Quasi sola, Gemma è presente, ma non c'è. Ieri sera mi ha chiamato la maiala, Silvia. Abbiamo deciso che Lunedì sera usciremo insieme. A mangiare un pezzo di pizza, e poi alla Croce verde dove mio e suo padre terranno lezioni di fotografia. Sarà infantile disturbare con domande sceme, ridere, fare finta di capire, di non capire e poi ancora alzare la mano e chiedere chiedere fino allo sfinimento. Però è il nostro modo di stare insieme, uno dei tanti.
Una volta ci buttarono fuori. Mio padre, davanti a circa cento persone fu costretto a scusarsi - d'altra parte - disse - uno, una figlia mica la può scegliere, così pure le amiche.
È l'unica donna che mi segue dalla prima infanzia. Con lei ho condiviso tutto o quasi. È bella e non sono mai stata gelosa della sua bellezza, perché io amo le belle donne, quelle che fuori ti fanno impazzire e dentro ti ci vorresti tuffare, sempre. Poi la mia gelosia è più che altro un possesso. Quando qualcosa sento che appartiene a me, che è in circolo col sangue, come posso essere indifferente? È contro natura. Guai a chi la tocca dunque!
Ti ho chiamato e finalmente hai risposto. Ma non è che dormirai un po' troppo ultimamente? Sono felice perché ti sto aspettando e mi batte forte il cuore. Te l'ho detto, sono una bambina. Mi dispiace solo che non potremo stare insieme più di tanto perché sono sola in Segreteria, ma così emozionata al pensiero di incontrarti che non mi importa se il tempo è poco. Sarà un'eternità.
Ore 11.58
Ho le mani congelate e secche. Mi fanno schifo. Se faccio il pugno va meglio, scaldo la punta delle dita, non vedo la mano tutta insieme e siamo tutte più tranquille. Sto battendo con un solo dito per poter tenere i pugni quasi chiusi. E tu non arrivi. Oggi è sabato e non ne ho nessuna voglia.
Ore 13.00
Da poco sono rientrata. Nessuno sembra essersi accorto della mia assenza. Ti ho rincorso con gli occhi, per la strada, ti ho cercato nel fiato gettato sulla finestra, dove ho scritto il tuo nome. Volevo vederti passare in macchina, per un ultimo saluto e un nuovo bacio. Sto così bene con te, così bene in ogni più piccola cosa, che non so più come arginare il mio amore. Adesso mi vedo smarrita senza la tua bocca che sorride. E ho voglia di piangere, ma non ci riesco, perché sono felice, perché sei dentro me e voglio godermi il tuo sapore, l'odore, le tue espressioni, il tuo viso così presente. Mi fa male la bocca per i tuoi baci e ti amo ti amo sempre più. Portami con te, adesso, subito. Ciao amore mio. Vado tra la gente, a casa, dove non ci sei... ma casa mia sei solo tu e io è te che voglio.
23 novembre 1998 ore 11.30
Sto impazzendo. Sento che mi sto trasformando. Non so cosa diventerò, ma sento la metamorfosi, sento i colori diversi, la pelle che scoppia, la testa impregnata di pensieri come una tazza di latte strapiena di biscotti. E i biscotti sono tanti. Io vado matta per i biscotti nel latte: il latte deve essere ben caldo, i biscotti vanno bene tutti, ma se sono quelli per neonati è meglio, si sciolgono prima e il miscuglio è delizia per il mio palato, la lingua e tutto il resto. I pensieri di adesso sono effettivamente come quei biscotti: sciolti, sfatti, sbriciolati, stucchevoli, stupidi perché smidollati. Il vocabolario dice: smidollato - mancante di volontà, di energia; che si adatta a qualsiasi situazione, anche ridicola o umiliante o si adagia in una squallida mediocrità, conducendo una vita insulsa e senza ideali -. Credi che io sia come i biscotti? Come i pensieri? Giuro che ho guardato, perché non ero certa di poter usare questo aggettivo, ogni tanto me le invento le parole. E invece esiste e il significato che i miei occhi hanno appena letto mi ha fatto aumentare il male allo stomaco.
Mi sento iena. Oggi non ti vedo, domani idem. E comunque vedersi così è inaccettabile. Sono come un vecchio chiodo arrugginito, piantato nel muro. Prima o poi cade, ma quando? E se cade, dove andrà a finire? E se non cade, che ci fa dentro un buco che non regge come una volta, che non è più buco, ma tana, rifugio, testardaggine fatta persona, che non si scolla per la paura di sbagliare ancora e poi ancora e poi... arriva sera e la sera è triste stare soli, è triste tornare a casa e trovare il bicchiere dove l'hai lasciato, perché nessuno lo ha spostato. E sentire il freddo delle pareti, delle stanze sempre uguali, di un ordine che ti sconvolge la mente, di un silenzio che graffia e lascia solchi sulla pelle e pure sangue e non va mai via... e poi ci sono gli occhi che ti hanno scrutato e spiato da dentro, da dove nessun altro può aver visto te e cosa gli racconti a quegli occhi, cosa pretendi che capiscano? E ricominciare da capo, tuo padre che ti rinfaccia i soldi, i soldi che non ci sono, i miei che non bastano da soli e la musica che già conosco. È un vecchio disco, lo conosco bene, perché nella vita non mi sono mai adattata a nessuno, perché forse ho così paura a stare bene, che quando accade mi dico: "Ora muoio. Mi verrà un tumore sicuro, oppure morte secca e improvvisa." Insomma, è un po' come il discorso sul mare calmo e il mare mosso, agitato. Quando è calmo, ho il terrore negli occhi, perché immagino ogni male, qualsiasi situazione può emergere d'improvviso. Quando è incazzato bene bene, ti regoli, lo sai, lo vedi, la senti la burrasca, non ti butti tra le onde, è tutto mescolato, agitato, ma va bene, no? Stai all'erta, sei pronto, nervi tesi, occhi aperti e così via. Non immagino come si sta sull'acqua ferma, increspata dal vento, come quei ricami sulle lenzuola usciti dalle mani di mia madre. Lei sì che l'aveva capita la vita. Cantava appena apriva gli occhi, cantava al centro tumori di Milano, cantava sul letto che l'ha cullata nell'ora della morte.
E ricamava. Io li odio quei lenzuoli, li odio così tanto che li ho tutti tagliuzzati e ci spolvero la mia vita, spolvero gli occhi per vederci meglio e quelli che non ho ancora distrutto, la notte, ci gioco a fare il fantasma, tanto i ricami mica si vedono così bene e il resto è tutta roba bianca.
Tu cosa dici dei soldi?
A volte mi dici che vuoi sentirti dire cosa devi fare. Io non sono nessuno per dirlo a te. Però posso darti un‘idea, posso fare uno schizzo su carta bianca e raccontarti che ti amo, che vorrei stare con te, sempre, sarei pronta adesso, in questo istante: stare, abitare, vivere, dopo averti ricordato che ho due figli. Poi ancora ti direi che dovresti fare qualcosa di concreto per te, solo per te, senza per questo dover abbandonare tutto il resto, anzi. Qualcosa che ti faccia camminare, vestire, mangiare, bere e dormire senza le gocce o le pasticche. Ma tutto questo già lo sai e io pure. E non basta mai saperlo, non è sufficiente esserne consapevoli. Bisogna agire, tutto qui. Meno chiacchiere e più fatti.
Mi fa male il dito, indice, mano destra. Mi sembra di avere le testa cotta. Oggi sono capace solo di partorire stronzate. Sai che volevo chiamarci mio figlio col tuo nome? Te l'ho mai detto? La sensazione errata di averti vicino, in ogni momento, sempre, perché un figlio è per sempre. E questa non è poesia, non lo dico per raccontare favole o intenerire cuori. Dio lupo. Lo dico perché è vero. Perché, a malincuore, ma ti ho sempre portato a spasso con me. E tu dov'eri? Ciao ciao amore mio. Posso chiamarti così, non è vero?
5 dicembre 1998 ore 10.15
Non che abbia molta voglia di scrivere, ma resta comunque una delle cose che sento più vicine a me. I miei occhi sono stanchi e si socchiudono alla luce del sole, che invece sembra essere vivace, prepotente, invadente. Tanto ho gli occhiali.
9 dicembre 1998 ore 8.00
Sono uscita da una notte infinita. Ho dormito male, poco, e O., a intervalli molto brevi, si svegliava e piangeva. Credo che siano in arrivo altri denti. Il lato positivo di tutto questo, comunque, esiste. Ogni volta che aprivo gli occhi, la tua sciarpa era lì, vicino a me, intorno al mio collo, sul letto, e il tuo odore era tutto intorno e dentro me. È poco, lo so, ma è meglio di niente, e l'idea d'essere avvolta e scaldata da qualcosa che ti appartiene, da qualcosa che porta il tuo sapore, che ha toccato la tua pelle, mi fa impazzire, mi riempie di gioia. Come ieri, quando hai telefonato e ti trovavi a pochi metri da me. Sono attimi così intensi che la giornata, la luce poteva andarsene a dormire non appena sei uscito da casa.
Ho voglia della tua bocca, degli occhi, delle mani, del corpo. Ho voglia di te, sempre, la notte, il giorno, quando è buio, quando c'è luce, quando piove, quando è freddo, come adesso, o caldo come quest'estate. A proposito di quest'estate, mi è presa una nostalgia infinita, mentre leggevo tutte le parole che mi hai scritto. Mi sembrava addirittura di sentirlo il caldo di quei giorni, l'attesa, la voglia pazza di chiamarti sempre, a ogni ora, dalla cucina, dalla camera, dal salotto. Sono stati mesi caldi, dal duplice volto. È stata bella per me l'estate appena trascorsa, è stato meraviglioso il desiderio che è cresciuto sotto il maestrale, le mattine al mare con gli occhi persi tra le montagne, a immaginarmi casa tua, la tua stanza, il tuo viso ancora addormentato. È stato bello scoprirmi sempre più vicina a te, con la testa, con il corpo. E anche se tutto non era (è) proprio come dovrebbe, anche se in quei giorni, spesso, ti ho sentito e visto stare male, non li dimenticherò mai, perché sono giorni memorabili, giorni pieni, con gli occhi spalancati e persi dietro un'alba non qualunque, quella che porta in sé l'amore mio per te, che per te ho sempre provato e che con il caldo di quei giorni si è levata, da dietro i monti, per poi diventare un sole forte, rigoroso, alto e potente che scalda e brucia senza tramontare mai. Ti amo.
Il telefono dorme ancora. Quindi vado a scuola di A. per firmare una dichiarazione che la autorizzi a uscire all'ora di mensa. Dice che ci mangia male e poi meno sta a scuola e meglio è. A tra poco.
Ore 9.30
La mattinata è partita male, col dolore allo stomaco, il freddo nelle ossa, nausea, e voglia di essere altrove. Sono uscita da casa fingendo la parte di una donna che ha deciso di fuggire. Anzi, fuggire non mi piace, meglio dire una donna che si lascia alle spalle qualcosa che non sente più. E mentre scendo le scale rido di me, perché l'unica "cosa" da cui davvero vorrei essere liberata ha un nome, un corpo, e un ruolo preciso. Sono cattiva, vero? Non che non gli voglia bene, ma certo che ha fatto di tutto per portarmi fino a qui. Fino a qui, intendo, non fino a te. Lì ci sono arrivata da sola, con i miei piedini e con il desiderio di te sempre in movimento. Dico a un punto da dove è improbabile tornare indietro. Si è approfittato della mia pazienza, della mia materna voglia di giocare. Mi ha offesa, umiliata, non rispettata. Già lo sapevo che sarebbe arrivato un tempo in cui non avrei più sopportato questo atteggiamento meschino e fascista. E adesso, adesso è troppo tardi. Non ho tempi intermedi io. O sono con te o contro di te. La linea che separa questi due modi di essere è così minuta che quasi non la vedi e io stessa non mi rendo conto dell'istante preciso del trapasso, l'istante in cui chiudo, in cui tutto è definitivo. Prendo solo atto del mutamento che avviene in me, e che lascio, comunque, vedere.
Il cielo sta cambiando colore. Stamani, preferirei il sole, il caldo e le cicale. Quando ero piccola, a Gecchiara, andavo a caccia di cicale nei pomeriggi estivi senza fine, senza un principio. Mi muovevo bene tra le piane, gli olivi, l'erba alta. Correvo sopra cavalli immaginari, sentivo gli indiani e avevo tanti cani intorno a me e ognuno portava un nome. Mio cugino F., in uno di quei pomeriggi interminabili, mi dette tante di quelle botte che, tuttora, il solo pensiero risveglia il dolore. Giustificandosi poi col dire che i cani non ci sono e Pallino non esiste e tu sei una scema visionaria. Ma nonostante i pugni, continuavo a chiamare Pallino, noncurante dell'espressione esasperata del povero cugino, privo di fantasia, di creatività, di passione per i sogni e le favole. Lui è razionale, io no. E poi il cane c'era davvero, come tutte le cose che desideri intensamente e le vedi, le puoi toccare, prendono forma tra le mani, davanti agli occhi, nell'aria che respiri intorno, tra una lacrima che ti scalda e un'altra che ti obbliga a cercare meglio davanti a te, sopra te, nell'immensità del vuoto azzurro che accompagna i nostri passi, irraggiungibile e pur sempre presente, a volte pieno di grigio, di nuvole, di pioggia, di nero e di stelle che non riesci a contare mai, a dar loro un principio, una fine, proprio come quei giorni d'estate, quei giorni dal sapore indimenticabile...
Non sono mai stata tanto lontana dalle persone come in questi giorni. Dopo poco che parlano già non le sento più e sono costretta a inventarmi un'espressione vaga del viso, che non ha seguito neppure una parola. Dovrò essere meravigliata, allegra, divertita, stupita, incredula, amareggiata, offesa? Non lo so. E con la stessa espressione rientro a casa, dove mi attendono gli occhi di un uomo che non amo più e che non so perché ho amato. Sarebbe già qualcosa sapere perché ho aspettato tanti anni, perché sono comunque troppi gli anni che non tornano più, sarebbe già importante, per me, capire come intendo affrontare il prossimo futuro, con quale espressione dovrò accogliere i cambiamenti che, inevitabilmente, mi aspettano.
10.12.98 ore 11.30
La notte è passata e il pianto inconsolabile di mio figlio ristagna ancora nelle orecchie. Stamani ho sonno di un sonno che arriva da lontano. Un sonno che vorrei catturasse la mia carne, il desiderio, i capelli, gli occhi. Vorrei dormire e vorrei che, per un po', nessuno riuscisse a svegliarmi. Fermare il mondo dentro me, ma non il mio cuore, non voglio morire. Voglio riposare ogni più piccola parte del corpo, stirare i pensieri, le azioni, le cose fatte e quelle no, fare una lista e creare precedenze assolute, quelle che non puoi far finta di niente.
Gli altri continuino pure a urlare, a gesticolare, a rincorrersi senza trovarsi mai. Facciano pure senza di me. Macchina distruttrice, vita, amore, creazione. Tutto mescolato in un groviglio di fili di diverso colore, spessore, resistenza.
Ieri sera, non ricordo l'ora perché non ho orologio, tenevo tra le braccia O. e piangevo, finalmente. Gli occhi erano fiume in piena, gonfi, selvaggi, rumorosi. Ho detto al mio piccolo: sei sfortunato, perché sono una madre terribile, una madre che ti ama troppo e che non sa organizzare per te una vita meno complicata possibile. Creo e distruggo. E anche per questo vorrei dormire, le mani sul petto o lungo il corpo, come prova generale. La sensazione di non essere mai esistiti. Viene da lontano, viene per cullare, per scaldare, per riempirmi di luce la mia voglia di dormire. E, intanto, stiamo in piedi per miracolo. Per concessione divina. Siamo sfiniti, nel corpo, nell'anima. Io non avrei saputo immaginare di peggio. E il peggio, forse, deve ancora venire.
Cosa ti dico? Che mi vergogno di far parte, anch'io, di un cerchio, di un punto su una linea chiusa dove tutti si amano, si odiano, si lasciano. Non è quello che volevo. Non è questo che voglio. E adesso che desidero te, devo smontare pezzo per pezzo la mia stupida vita e convincermi che è giusto così. E trascinare, senza chiedere il permesso, mio figlio. A. è un'altra cosa, è donna, è complice, è abbastanza grande per capirmi. E poi basta. Ho detto che voglio dormire, non parlare. Non dirò più niente in proposito. Ti dico solo che oggi non so se verrò da te.
Ho sonno, il seno è pieno di latte, è duro, mi fa male. Le mestruazioni dovrebbero venirmi oggi e sai quanti ormoni ci sono in giro per il mio corpo? A casa non riesco più, non riesco più a fare niente, ho solo voglia di piangere, per ogni stanza un mare di lacrime. O. è noioso, D. non so più chi è e io non posso più fingere. Poi stasera, rientrando a casa, devo far finta che sia tutto a posto e riprendere il mio ruolo di distruttrice silenziosa, talpa sotterranea che lavora sempre, a ogni ora, e non si ferma mai.
Devo pensare a me per amarti forte e bene. Devo avere Berta tutta salda, ferma come scoglio in mezzo al mare. E in questo stato mi sento pietosamente, come un gatto schiacciato sull'autostrada. Hai presente? Eppure solo io so quanta sia infinita la voglia che ho di stare con te. E se ci penso piango ancora, perché sono costretta a fare cose che non mi piacciono e a trascurare le precedenze assolute. Pensi che solo perché ho voluto i miei figli debba scontare e subire un presente che mi sta uccidendo?
"...fate come l'anatroccolo. Andate avanti, datevi da fare. Prendete la penna e mettetevi a scrivere, e smettetela di piagnucolare. Prendete il pennello e mettetevi a dipingere. Ballerine, infilate un'ampia camicia, legatevi nastri nei capelli e dite al corpo di fare qualcosa: danzate. Attrici, scrittrici, poetesse: smettete di chiacchierare. Non pronunciate nemmeno una parola a meno che non siate cantanti. Chiudetevi in una stanza o in una radura sotto il cielo. E dedicatevi alla vostra arte. In linea di massima ciò che si muove non congela. Muovetevi dunque, non smettete di muovervi".
11 dicembre 1998 ore 10.20
Se ti chiamo di nuovo ti disturbo? Se sei ancora in bagno dimmelo, che ti chiamo subito. Mi piace disturbarti, mi piace ridere insieme a te e come rido con te non rido con nessuno. Tutto, insieme a te, ha un significato speciale, sei una luce forte, viva, intensa che non irrita i miei occhi e anche se è buio, se sei lontano, sei sempre presente, ti sento sulla pelle, tra i capelli, tra le dita. Intorno a me hai creato il vuoto, tutti mi appaiono stupidi, inutili. E non è solo una sensazione, è proprio così, lo vedo nella vita di ogni giorno, lo vedo perché non cerco niente negli occhi della gente, tutto ciò che voglio sei tu a darmelo. Svaniscono le altre figure umane, lasciandomi indifferente e sempre più forte. E nonostante la nausea, nonostante la stanchezza, so di avere acquisito una nuova prospettiva, e ogni giorno mi avvicino sempre più al punto di fuga. Non so come si può amare altri uomini dopo averti conosciuto, come si può fare a meno di te. E non voglio scoprirlo mai.
Qualche ormone mi ha lasciata, finalmente. Dio donna! Lo vedi, oggi è tutto più bello, anche tornare a casa, perché mi sento imbattibile, instancabile, irremovibile. Mi sento completamente tua. Quando lavo i piatti, quando pulisco per terra fino a sfinirmi, quando lavo il mio corpo ma sei tu a farlo, quando mi vesto, quando allatto, quando gioco con O. e non si capisce chi è il bambino, quando faccio i capricci e batto i piedi per terra, quando divento improvvisamente triste, perché non sono con te al cinema, a teatro. Tanto poi ci vengo, che credi. I figli crescono e A. è una brava mammina e so che lo guarderà suo fratello e ci farà uscire senza problemi. Basta avere pazienza, basta voler aspettare. E se poi non ci sarai, ci vengo lo stesso a teatro e vengo a disturbarti, a farti le pernacchie, e se non mi guardi ti picchio. Te e il partigiano. Ti amo e mi sembra di amare per la prima volta, e, per la prima volta sento, dentro, di non essere sola.
Più tardi ore 11.30
Quando ci vediamo, voglio fare uno scambio. Ti do la tua sciarpa, che adesso ha perso un po' del tuo sapore e me ne dai un'altra, poi, quando sarà pronta, la prenderò di nuovo. È sempre con me, e quando mi sento malinconica, tuffo il naso nel tuo odore, respiro forte e sto da dio.
È proprio buffo sai? Ieri leggevo la prima lettera che ti ho scritto, e nelle ultime righe ti chiedo, dolcemente, di farmi respirare la tua pelle. È una lettera breve, ma intensa, e il mio chiedere era desiderio di sentire energia pura, vita, entusiasmo. Non avrei mai osato pretendere altro. Eri così distante, bello, intoccabile. Ma lo sei ancora per me, perché a volte mi piace rincorrerti, mi piace raggiungerti, anche se per ora ho una catena al collo che mi impedisce di muovermi come vorrei. Senti un po', caruccio, vado a leggere le tue lettere perché ho una pazza voglia infinita di te e la sciarpa non basta più, tu non ci sei... non mi resta che leggerti.
Ore 12.20
Sono stordita dalle tue parole. Uffa. Voglio che sia tu a leggermi quello che scrivi, voglio perdermi come adesso e baciarti fino a strapparti la carne, fino a farti male. Ho letto il "trattato sulla sega" per la seconda volta e scopro che non mi stanco mai di ridere e di leggerlo. Mi piace quando mi fai sorridere, quando mi dici, come ieri sera, che vorresti crollasse tutto, a casa. Mi piace il modo in cui mi comunichi certi pensieri e ti amo da impazzire quando sei egoista e mi chiedi: e io? Ti adoro, sei stupendo e se ti prendo ti... rovino.
Adesso ti telefono perché tra poco devo andare a prendere le creature. Poi, a casa, addormenterò il bimbo, e ci metteremo anche noi sotto le coperte a giocare, a fare l'amore, perché il desiderio è ormai oltre ogni limite e poi ti bacio su tutto il corpo, con tutto il mio corpo e passeranno giorni e giorni ma, a noi, sembrerà che sia trascorso un solo minuto.
14 dicembre 1998 ore 8.30. lunedì
Il mio seno è di nuovo svuotato, come me. Non sono più abituata a sentirlo così, mi sembra morto, senza vita. Il giorno che smetterò di allattare, chissà cosa accadrà. Se ci penso adesso, mi viene da piangere. Finisce un'epoca per me, un altro pezzo di storia da ricordare, eventualmente. Adesso contiene la vita. Il mio sangue bianco che per mesi ha nutrito mio figlio, cordone ombelicale che non voglio spezzare. Finché allatto è tutto mio il cucciolo, la notte, il giorno, non può stare senza me e, soprattutto, io senza lui.
Mesi e mesi fa, quando in casa parlavamo di girare per il mondo, il Sig. Maschio escludeva i bambini, motivando la sua scelta con un semplice: è giusto così. L'ho odiato per questo. A. adesso è grande, può essere anche lasciata a casa, può e deve scegliere, può capire se due persone hanno bisogno di stare un po' da sole. Ma O. è piccolo e io sono la madre e non me ne frega niente se ci sono mamme che smettono di allattare per poter essere libere di andare, io non sono così, non lo sarò mai. Uno dei tanti infiniti motivi di discussioni sterili. Sterili, perché lui deve offendere, gridare, urlarti sulla pelle. Sempre.
Io mi capisco. E anche bene, direi, almeno su questo. Quando sono mamma, siamo tutte unite, forti e determinate. So bene che devo vivere anche per me stessa, ma ci sarà tempo per questo e se non ci sarà pazienza, saprò comunque di aver fatto non la scelta giusta, ma l'unica giusta per me.
Ieri sera sono andata a votare con mio padre. Come la volta precedente, sono senza patente, senza carta d'identità e senza certificato elettorale (poi l'ho trovato). Scendo le scale ridendo, e mi viene in mente che spesso mi accade, quando scendo i gradini. Rido perché già immagino il viso di mio padre che aspetta in macchina. Adesso svolto l'angolo e lo trovo. Infatti. Sorridente, sigaretta accesa, mi viene incontro dicendomi: sei bella, ma quando andiamo a cena, che cazzo stavi facendo, è mezz'ora che ti aspetto! Poi tutto finisce, perché in macchina c'è la famiglia N. e quando li vedo mi prende una tristezza infinita. Le facce sempre uguali, sigarette sempre accese, parole stupide, atteggiamenti cretini, occhi vuoti di riflessioni, vuoti della vita, perché la vita non si ferma dentro certe persone. Le sfiora, dona loro l'illusione di vivere e li rende felici fino a che il cuore è carico e batte. Ma non sono vive. Lei non so più chi è. Scrive lettere senza dirmi niente, e allora non le scrivere, stronza! Anch'io avrei dovuto risponderle, ma non lo posso fare, perché non so cosa dire. E non lo farò. Con mio padre sto bene quando siamo soli. E comunque non sempre.
Più tardi ore 12.30
Lo faccio l'albero di Natale? E quante palle ci devo mettere attaccate ai rami? Poi le palle devono essere tutte dello stesso colore oppure diverse le une dalle altre? Ma che cazzo di giorno sarà mai il 25 dicembre? Mi sento morire quando vedo tutti quegli abeti sopra le macchine, nelle piazze, mi viene da piangere e quelli più piccoli mi sembrano tanti bambini condannati a morte. Spero che passi presto questo Natale, e dico spero perché non dipende solo da me. Qualche anno fa volevi portarmi via, ti ricordi? Perché poi non l'hai fatto davvero? Cattivo. Ecco perché, sei cattivo punto e basta.
Ti ricordo, comunque, che ti amo solo perché hai gli occhi incredibilmente belli per essere un uomo e perché hai tanti capelli in testa, neri come le notti senza luna. Ecco perché ti amo. Scemo. E ti desidero pure, nel silenzio di queste giornate che passano, passano e non conoscono il sapore che ci unisce... a tratti, solo a tratti, ci stringiamo forte e il tempo ci concede tempo, commosso anche lui da tanta voglia di stare pelle a pelle. Ora ti chiamo perché ho fame della tua voce. Ciao
18 dicembre 1998 ore 8.37 venerdì
...che poi la compagnia di un uomo non è indispensabile, ma capita che non cerchi altro negli occhi della gente. Un complice, qualcuno che cammini con te, sotto il sole, la pioggia, nel fango, nella sabbia, sull'asfalto, sui prati d'erba, tra le nuvole, cieli lontani. Qualcuno a cui dare il tuo veleno, a cui sottrarlo, a cui badare come si fa con un bambino quando inizia a camminare, qualcuno insomma che sia altro dagli altri. Gli altri possono anche andarsene lui/lei no.
Poi, una volta che credi di averlo trovato questo tesoro, devi competere continuamente con l'imprevisto, con il volto di un essere che potrebbe toglierti quella presunta complicità, metterla in discussione. E bisogna essere pronti a tutto, a perdere, ad ascoltare, a capire se c'è qualcosa da capire, a rassegnarsi e a farsi da parte, se necessario. Amare è anche questo: allontanarsi, svanire, capire che non c'è altra strada, sentire nei muscoli la stanchezza, la spossatezza e avere la forza di alzarsi, con fatica, certo, ma alzarsi e andare, lasciare all'altro lo spazio per respirare aria nuova, viva, se la nostra è ormai priva di ossigeno. E questo complice dove sta? Siamo miliardi, chissà quanti complici ho nell'universo e non lo saprò mai. Quanti uomini o donne potrebbero rallegrarmi a partire da dentro, dallo stomaco, fegato, reni, ovaie, polmoni. Chissà quante mani, occhi, occasioni perse.
Io mi sono presa due figli dalla vita, li ho rubati dal corpo di due uomini, che potevano anche essere diversi, che importa, sono figli miei. E vorrei avere miliardi solo per dire ai padri che ci penso io a loro, solo io, e se dovessi morire gli lascerei comunque la possibilità di viaggiare, di andare, di studiare, senza avere il terrore di dipendere da qualcuno.
Mi hanno tolto mia madre. Non so chi. Le cellule impazzite nel suo corpo, il tumore al seno, il suo ottimismo forse, la vita che a un certo punto ti dice no. Il fatto è che non c'è più e io ho subito la violenza, l'ho dovuta ingollare e subire zitta, con gli occhi pieni di lacrime ma zitta, come una medicina amara, ho dovuto respirare le stanze vuote, senza il movimento dell'aria che la sua carne spostava. Mamma, mamma, mamma! provavo, tornata da scuola, la casa buia, che sapeva di vecchio, di chiuso. Dentro, nessuno. E io provavo a chiamarla, in fondo alle scale con il naso in su... magari scherzava, l'ha fatto per metterci alla prova, forse sono stata cattiva ma giuro che non lo faccio più, le metto a posto le mutande, rifaccio anche il letto, lavo i piatti e poi non ti mando via quando vengono le mie amiche, ma torna, ti prego, fallo.
Lei non scendeva dalle scale. No no. Non c'era proprio. E allora, se la mettiamo così, me la riprendo io mia madre, la partorisco una madre, la partorisco io un'altra volta la Berta e ne avrò cura, così come faceva lei. Ma non sono stata tanto brava. Dico a prendermi cura di me. Ad A. ho dato i miei anni giovani, quelli che ti fanno impazzire, quelli che sei non sei e poi chissà. Ho dato il meglio e il peggio di me. Ero mamma, nient'altro. Ed era tutto per me. Ma Berta l'ho trascurata. E così, per stare bene, per sentirmi viva e non inutile e non abbandonata e non incapace di portare a termine qualsiasi cosa, ho ripetuto il miracolo. Ma devo fare mille figli per sentirmi vera, realizzata, per sentire l'amore senza ricatto, senza parolacce, senza confusione? No, perché se è così, ditelo che poi ci penso io a fermare il tempo.
Ora sono qui, batto, piango, perché sento ancora una sensazione di vuoto, di abbandono. Preferirei vederlo cattivo, quell'altro, sapere che ama un'altra donna, piuttosto che piagnucolarmi dietro, più o meno consapevole. Perché non mi odia?
Se sento il bisogno di te, cosa vuol dire? Cos'è questa vertigine, questa silenziosa scia che lascia il tuo respiro, cosa sono quegli occhi così intensi, profondi, così infinitamente buoni, perfidi, diabolici? Cos'è se ti svegli e pensi a me e penso a te e ti desidero e ti chiamo e ti piango addosso? È amore, disperazione, solitudine? Cos'è? Tu lo sai ? Ti sei lavato? La tua voce adesso com'è? Sto pensando troppo, male, sto pensando che forse non è più il caso di penare, di pensare. Lascio che sia così. Che lui vada, io resto, e, nonostante qualcuno dica che devo, in questo momento devo, non pensare a te, io ci penso lo stesso e anche tanto. Sento che tu mi capisci. Ti sento, comunque, ed è questo che conta per me.
19 dicembre 1998 ore 12.30
Stamani poco tempo per scrivere. Ma adesso me lo prendo il tempo e li frego tutti qua dentro. Sì sì. Sono proprio incazzata. Con la vita. E non vuol dire niente. Con me. E anche questo serve a poco. Con gli altri, con qualcuno. E non si sposta una foglia. Però mi fa bene, tutta questa adrenalina, quest'energia, quest'elettricità. Sono stranamente veloce. Mi sembra di avere la febbre a quaranta, come da piccola, quando vedevo tutti muoversi con una rapidità incredibile. Allora piangevo, gridavo e imploravo chi mi stava vicino di andare pianino. Io non voglio andare piano, ho voglia di correre, di sentire il cuore impazzire, di sentirlo mentre pompa il sangue nel corpo. Voglio stancarmi e non dormire mai e poi dormire mille giorni sopra il mare e cullare il mio amore, sentirmi viva e godere le sensazioni che mi promette la notte, le ore al telefono, la tua voce. Eliminare le foglie secche, il marcio, il fetore che emana certa gente. Eliminare nel senso fisico. Far sparire, annullare, cancellare.
Ora, per esempio, vado a casa e chi ti trovo? Trovo uno lungo lungo che non conosco più e dovrei anche mangiare insieme a lui, che proprio pochi istanti fa mi ha di nuovo mandato a quel paese. Questo è lo stato febbrile in cui è costretto, povero povero ragazzo. Ogni cosa che dico, pensa che voglia offenderlo, che voglia sminuire tutto ciò che riesce a fare. Ma non è così, è molto lontano dalla verità. E adesso me ne frego di ripetermi. Hai capito? No? Cazzi tuoi. Il tempo te l'ho dato, il mio, si intende, e di chi altro? L'hai sprecato, illudendoti che sarei rimasta lì, in nome di qualcosa chiamato amore. Ma ti sbagliavi, eccome se ti sbagliavi. E ora siamo qua, mi chiedi cosa voglio mangiare. Niente. Con te non mangio più, oltre a tutto il resto. Se mai ti posso carezzare i capelli, perché mi fai pena, pena e tenerezza. Poi però calci e botte.
Dunque. Piove. Devo per forza andare a casa, dove mi auguro di essere presto sola. Ti chiamo, non so quando ci vedremo, e sento dentro un terremoto che mi scuote e mi fa tremare, ma non di paura. Ho voglia di te, ecco cos'ho.
23 dicembre 1998 ore 9.00 martedì
Sono tutti esaltati. Impegnati a scambiarsi regali, auguri. Gesti sempre uguali, sorrisi disegnati, parole vuote, leggere, che si trascinano all'infinito senza lasciare traccia.
Sono stanca di sforzare i pensieri, di trovare per forza le parole giuste. Che ognuno prenda la strada che crede, che ognuno goda del proprio piccolo mondo. Non toccherò mai più la vita di nessuno. È una responsabilità così pesante, così fisica, che stanca, stanca come lavorare. Ma poi non è così vero o meglio: vorrei, ma non ci riesco, perché tu sei tu. Ho paura, a volte capita, sai. E le parole anticipano, come i pensieri, situazioni che potranno anche non verificarsi, ma che intanto fanno male. L'abitudine, la noia, noi stessi così stupidamente complessi, disperati, apparentemente distaccati da tutto ciò che è vuoto, ma pieni di vuoto negli occhi. Il vuoto che ci hanno imposto, che ci hanno regalato, che ci siamo meritati, il vuoto che ci segue come un'ombra .
Sono poco intelligente, perché ho voluto due figli. Lo sono sempre meno, perché credo di poter continuare ad amare. E vorrei essere lontanissima da questo mio desiderio e in questa parentesi di eternità vorrei davvero andarmene via, avere la possibilità di fare i bagagli, prendere figli e soldi e andarmene in Africa, dove avrei dovuto essere da tempo. La vita che più mi si addice è una vita lontana da questa civiltà, da questa assurda e inutile frenesia. Lontana dalle regole, dai comportamenti che gli altri mi impongono e da cui mi sento ferita, continuamente. Non sto bene, se analizzo in fondo la mia noia febbrile. Sicuro che, ovunque io sarò, vivrà dentro me una certa insoddisfazione. Ormai non sono più una bambina, secondo il calendario. Ma per trascinarmi oltre, adesso, oltre questo istante, ho bisogno di ossigeno, di profondi respiri che aprono i polmoni. E ovunque i miei occhi si muovano, ovunque lo sguardo prenda corpo e si separi da me, leggo incompiutezza, amarezza, fastidio. Essere intelligenti cosa significa? Avere studiato tanto, entrare nel vivo di ogni più piccola questione e poi? Vivere male comunque, della serie: non c'è scampo, non esiste via d'uscita. E poi tutti questi pensieri non hanno corpo, consistenza. Sono fantasmi che a tratti fanno anche paura, poi ti abitui a loro e se non arrivano, la notte, il giorno, sempre, ti mancano. Così come ti manca un libro, un amore, un'occasione. È tardi, troppo tardi. E a quest'ora, fuori, è pericoloso. Non sai mai chi puoi incontrare... nella nebbia, nel buio anche un sapore che ti appartiene prende un'altra strada e ti lascia ferito, dentro al cuore. Sì, lo so che il cuore è solo un muscolo che pompa sangue, ma è una bella parola, lo è per me, fin da quando bambina volevo ascoltare il rumore nel petto di mio padre. A mia madre non si sentiva bene il cuore, aveva il seno troppo grosso.
Ho voglia d'uscire. Di respirare questo sole meraviglioso. Di perdermi nell'azzurro di questo stupido cielo. Di camminare e non sentirmi né mamma, né donna, né figlia, né sorella. Ho voglia di me. Ho voglia di coccolarmi un po'. Di allontanare dal mio corpo altre presenze. Non sono madre, non sono niente, ho solo voglia di camminare, di perdermi nei miei passi, nel rumore delle scarpe sopra i sassi, l'erba, l'asfalto, la sabbia. Non voglio più parole, voglio silenzi, voglio perdermi nei silenzi, e qualche volta ballare in silenzio, in punta di piedi. E da sola. Così non devo spiegare niente a nessuno. È fatica questo mondo che gira. Altro che vitamine, minerali e lievito di birra. Tanto non basta mai la cura ricostituente... E così, tra una chiacchiera, una smorfia, una risata magra e sconsolata, mi ritrovo a chiedermi come sarò domani, con tanti anni addosso, con gli anni che non tornano, con la rabbia di non essere stata capita, ascoltata. Perché, in fondo, è anche questo il problema. Non sappiamo ascoltare. Anzi, ci sono quelli che lo fanno e anche bene, e quelli che invece sono sordi senza esserlo. E se ognuno restasse con il proprio branco, tutto bene. Ma se poi le bestie si confondono, è una catastrofe. Una tragedia. Il mio branco non l'ho ancora trovato. E una lupa da sola, si sa, vive poco. Il branco è vita, è forza, è sopravvivenza. Dove cazzo siete finiti lupi dei miei stivali?
C'è uno che dice che Camus è morto di un incidente stradale provocato dai nazisti. E recita Carducci. E non va più via. Lo uccido? Lo uccido.
Dimagrire mi dà sempre un senso di infinita potenza. Ho perso forse due chili. L'errata sensazione di avere, così, tutto sotto controllo. Arrivare a nutrirsi di una mela al giorno, bere aceto, limone e la notte alzarsi e, di nascosto, mangiare tutto, tutto quello che si può, che si riesce e poi vomitare e rimanere a letto sotto le coperte, per non sentire il peso di una vita che non vorresti vivere. Non sono poi così lontani quei giorni d'inferno.
Oggi ho deciso di portare quel peso in altro modo. Non posso fare la bambina capricciosa in eterno. E se non sarò io a prendermi cura di me non lo farà nessuno. A pensarci bene, a pensare a te, mi cattura e immobilizza il pensiero che non ho mai sofferto per amore. Non ho mai permesso a nessuno di avere tanto potere su di me. Ho cercato sempre le persone sbagliate, va bene. Ma dico, almeno una volta, una sola, trovare qualcuno che ti fa impazzire. Non che ne abbia voglia di piangere per un uomo, ma chissà che mi passa per la testa, quale istinto di sopravvivenza mi permette di rimanere a distanza di sicurezza. Questo non vuol dire che non immergo anima e corpo in un desiderio, in un corpo. Ma mi stanco. Mi stufo. Mi annoio. Il problema è anche mio, ma non solo. Alleggerire, alleggerire il peso, grazie. Che ognuno porti il suo fagottino e senza tante storie, che i lamenti e i pianti sono, per me, sopportabili solo in un corpo che non superi il metro e mezzo. E poi tutta questa forza che spinge avanti il mondo chi la dà? Le donne, è ovvio. Vi sopportiamo nell'utero prima, dopo, durante. Vi puliamo culo e pisello, senza stancarci mai, vi offriamo il seno, la vita, vi mettiamo nelle manine il coraggio, l'amore per la vita, anche se noi stesse, a volte, siamo rimaste vuote. C'è sempre qualcosa per voi. E se rimanete soli, guardate meglio nelle manine. Sicuramente ve la siete cercata.
Veleno veleno veleno. Ho il veleno negli occhi, stamani. Occhi gonfi, stanchi, vuoti ormai di lacrime. Ma si può perdere così tanto tempo a cazzo nella vita?
C'è un sole stupendo fuori. Eterno. Eterno non lo so, però sicuro che vive più di noi stupidi pagliacci. A questo punto dove mi oriento? La bussola, ecco, devo ritrovare la mia bussola interiore, ritrovare l'ago che indica dove sei ed essere sicura che nessun tipo di corpo estraneo influenzi il suo equilibrio. Il magnetismo terrestre, quello, è calcolato, è già nel conto. E mi chiedo ancora e per sempre se davvero lo voglio un uomo. Un legame con un estraneo. Non so quanta disponibilità ci sia in me a ricomporre un'immagine, a ristampare su carta bianca da un negativo rigato, invecchiato. Dico non so e non lo so davvero. Magari sono una distesa infinita di disponibilità interiore su cui far correre cose selvatiche e non lo so. Ma lo scoprirò. Con il susseguirsi dei giorni, dei minuti in cui penso e scrivo o scrivo senza pensare troppo, mentre pettino i capelli o mi cattura l'immagine delle neve bianca sui monti che incorniciano questo paesaggio.
Quando parli ti starei ad ascoltare per ore. Te l'ho già detto e te lo dico una volta per sempre. Le tue parole mi sembra di conoscerle. A volte mi agitano, a volte mi spettinano, piegano l'erba delle mie praterie. Tutto quello che dici e quello che penso si incastrano come pezzi di puzzle che non ho mai osato attaccare con le mani. Non fa per me.
7 gennaio 1999 ore 8.50 giovedì
Siamo nell'anno nuovo. Le cose, più o meno, procedono come un anno fa. Interiormente dico. Fuori ognuno di noi ha preso la propria strada. Finalmente, dopo secoli di terrore e silenzi tra le pareti di casa, finalmente si respira.
Devo tenere vivi i ricordi. Quelli belli. O no? Forse i peggiori potrebbero insegnarmi qualcosa. Gli altri, quelli più lieti, fanno male alla luce di questo nuovo sole. Se penso alle cose belle mi viene da piangere. Sono stanca di ricordare. E ogni ricordo porta un sapore diverso, un volto sconosciuto, adesso, che mi fa tremare, perché non riesco a collocarlo in nessun luogo del mio tempo. Sono troppo complicata. Questione di DNA. Ma non solo.
Mi sono svegliata e non ti ho trovato. Ti ho persino cercato nella stanza di A. Mi sono arrabbiata con me, per non averti salutato, per essere crollata nel letto, tra le braccia di O.
...e adesso che mi hai chiamato da Bologna, sono ancora più felice. Mi piace sentire la tua voce, sapere che esisti e che pensi a me. Ti adoro.
8 gennaio 1999 ore 8.30 venerdì
Ci siamo svegliati presto, stamani. Stavo sognando, il tempo era sospeso, poi il suono della sveglia mi ha brutalmente riportato in questa realtà. È stato allora che ho visto O. vicino al mio corpo disteso, ho sentito il suo respiro, tranquillo, rilassato, mi sono ricordata che A. doveva lavarsi i capelli e che un'altra giornata aveva preso vita tra quei pensieri ancora assopiti, lenti, trattenuti dal sapore della notte.
Ho dormito bene, stanotte. Non mi sono resa conto del trascorrere delle ore, né di O. Credo che non abbia mai cercato il seno, non lo ricordo.
Ieri sera, dopo aver sentito la tua voce meravigliosa al telefono, le tue parole di cui mi nutro e non mi bastano mai, ho giocato nella stanza centrale della casa, quella che mi culla la sera, che mi lascia dormire, ridere, piangere, quella che mi trova stretta a te, dentro te, con gli occhi chiusi nella poca luce riflessa sul muro, che ascolta i silenzi, la musica, l'unica stanza paziente di quella casa così poco mia. Ho giocato, dicevo, a fare la bambina con mio figlio. A. era concentrata su un film patetico, occhi semichiusi, persi chissà dove. Lei non giocava, ormai è troppo grande per me. O. era splendido: ci siamo rincorsi, presi a morsi, abbiamo riso fino a tirare fuori lacrime dolcissime, come la nutella sulle nostre bocche, sulle nostra dita. Poi di nuovo sul divano e poi ancora in cucina a sporcarci il palato con la cioccolata. Condividere un peccato non mi fa sentire in colpa. Avevo voglia di dolce. Sono giorni e giorni che mi privo delle cose che più mi piacciono, per punirmi, credo. Per essere più sicura, più forte. Ma ieri sera sono stata da dio. La tua chiamata, sentirti così dentro me, così infinitamente dolce e presente mi ha fatto impazzire di gioia, mi ha dato una scossa e lasciato un'energia infinita. E perché non concedermi una tregua, una pausa tutta al cioccolato? Quando sono andata a letto ero rilassata e felice. Ti ho pensato, baciato, toccato e i miei occhi si sono chiusi senza nessuna rigidità. Poi non ricordo altro.
Sorprenderò ancora la vita? Ho voglia di riprendermi tutto il tempo che mi hanno fatto perdere, quello che mi sono fatta rubare. L'importante è che da subito la mia testa si muova e non solo per scuotere i capelli.
Ore 11.30
Leggerò nel mio letto, al caldo sotto le coperte, il telefono vicino per risponderti più in fretta. È stata una scelta un po' difficile riuscire a trovare un libro, tra quelli che mi hai dato, che potesse trascinarmi via dai miei pensieri. Le parole devo rileggerle più volte, la mia attenzione sfuma via come vapori nell'aria. Pochi secondi e poi mi perdo. Ne ho iniziati due, Miller e Pavese, e alla fine ho scelto Kafka. Sto sempre bene quando sono con lui.
Ho fame, lo stomaco è vuoto e oggi sono sola a pranzo. Sono gioiosamente, felicemente, finalmente sola. Preferirei mangiare poco, il giusto, senza lasciarmi prendere dall'ossessione di ingoiare qualsiasi cosa. Questa è l'altra faccia della pseudo-anoressia. Prima ti privi di tutto, poi il tutto vuoi sentirlo dentro, fino a scoppiare. Adesso che lo so, posso aiutarmi. Una volta non mi rendevo conto, ma ora riesco a smascherare il mio atteggiamento mentale prima ancora che si manifesti.
Una volta mio padre mi buttò fuori casa. Era disperato, avevo sedici anni, pesavo trentotto chili, era maggio, il mese delle rose, della rinascita, della natura che esplode e può far male a chi, dentro, non sente più la vita. E in quel mese, che aveva peraltro visto nascere anche me, decisi di morire. Sarebbe stato bello addormentarsi il giorno della nascita, dell'apparizione in questo spazio infinito che se ci pensi davvero a quanto sia infinito impazzisci e non torni più indietro. Così i miei pochi anni parlavano di me: capelli neri, lunghi, mossi appena sulle punte, gli occhi grandi, spalancati, come a non voler perdere niente, come se volessero catturare tutto e subito, la bocca seria, immobile, silenziosa. Avevo così tanto da dire che non parlavo mai, non riconoscevo in nessun umano la complicità che tanto cercavo, e le mie giornate si perdevano nella pineta, a dar da mangiare ai piccioni, sulle panchine a leggere libri o sul mare con i cani di mio nonno. Avevo anche una tartaruga e quando non ero altrove ero lì, nell'orto in fondo alla casa, ad ammirare la sua lentezza, la sua goffaggine così invidiabile. Sembrava fregarsene del mondo, della fretta dei passi, delle lancette degli orologi, dell'ansia che usciva dagli occhi, dalle mani, dalle parole vuote della gente. Io mi perdevo in lei, nel movimento della sua bocca, senza denti, che masticava lattuga, pezzi di mela, e poche altre cose che però non ricordo. Le baciavo la testa, quando riuscivo a convincerla che non le avrei fatto niente di male. Osservavo quella sua aria primitiva, antica, che non ho mai ritrovato altrove, la pelle fredda, salda, molle intorno alla testa, sulle zampe che si perdevano all'interno di quella stupenda corazza. Avrei voluto romperla, aprirla, spaccarla come una noce di cocco e vedere cosa nascondeva con così tanta forza, tanta calma. Forse il segreto è tutto racchiuso là dentro...
Mio padre, quel giorno di maggio, decise che non potevo più stare lì e mi chiese di scegliere tra due ospedali. Io gli risposi che ci andasse lui all'ospedale, piuttosto andavo a dormire al cimitero. E lui non si fece pregare. Mi buttò fuori, credo, per disperazione. La cosa non destò in me la minima reazione. Per niente preoccupata andai in giro per le strade, vuota, sola, staccata dai rumori, dalle voci, dagli occhi disperati dei miei.
Poi, come sempre, mia madre rimediò a tutto. Telefonai a casa per sentire se dovevo proseguire a vagare nel nulla o se potevo tornare. E così mia madre mi riprese in casa per i capelli, con mio padre in coma sul divano, il terrore negli occhi. Credeva che non mi avrebbe più rivisto viva. E ogni volta che mi vede dimagrire ritrovo nei suoi occhi, riflessa, l'immagine nebulosa di quei giorni. Se mette a fuoco, mi uccide prima e dopo si pente e si uccide pure lui.
Hai telefonato. Pochi soldi e poche parole. Ma sono sufficienti a ridare un po' di colore a questo cielo schifoso. Se non ci fossi ti inventerei.
11 gennaio 1999 ore 12.15
Sopravvissuta. A volte è così che mi vedo. E se sopravvivi a un disastro sei invincibile. Le scelte. È una questione di scelte, di priorità appunto. Di precedenze assolute.
13 gennaio 1999
L'odore. Sento un odore e sono di nuovo bambina. C'è nell'aria quel sapore di vacanze, quando andavamo a sciare, in montagna. Avevo sempre il broncio perché nel viaggio, in macchina, volevo stare seduta accanto a mio padre, ma lei non cedeva il suo posto, poi mi annoiavo e poi ero la solita rompipalle. Sono lontani quei ricordi, l'ombra di sogni stanchi, di cui rimane solo una sensazione. È strano. Non li puoi toccare, non puoi prenderli tra le mani, ma hanno un peso, una consistenza compatta, salda, che non si sfalda.
Sei così, oggi, perché hai un tuo vissuto. E nessuno può cancellarlo. E nessuno può ripulirti. Sporca. È così che mi sento. In difetto. Quando cammino mi sembra di zoppicare, di svanire nel nulla, nei passi che avanzano. Gli altri, se mi vedono, cosa vedono? Vorrei lavarmi nell'acqua di mare, d'inverno, tra la schiuma fredda, la tramontana che arriva da Nord. Mi sembra di camminare su una terra di nessuno, di appartenere a un universo estraneo alla mia natura originale. Ogni passo è un passo sbagliato. Ed è l'istinto a guidare questi passi. L'istinto va da una parte e la ragione non lo segue.
Chiarire.
C'è sempre da chiarire qualcosa. Con te stesso è impossibile non farlo. È una lotta continua e dura, inevitabile. Forse. Con gli altri idem. Parlare, parlare, vivere l'illusione che l'altro abbia davvero capito, e ti dici che sì, ha capito, lo si può vedere dagli occhi che ti comprano, che sprigionano complicità. E siamo tutti contenti. Cretini e contenti.
Sento quella voce, e, oggi, non la riconosco. Chi sei? Poi sì, mi ricordo tutto, purtroppo. E dobbiamo parlare, mi dici, mi dico. Ma per arrivare dove, qual è il fine? Devo vedere la luce in fondo alla galleria. Devo. Altrimenti non mi sposto. Il bambino? I quattro anni insieme? L'amicizia che dovrà sostituirsi ai baci, alle espressioni tatuate nella mente, che non saranno mai dimenticate, a odori, ad altre voci? Per quale cazzo di motivo dobbiamo chiarire? Forse per il grado di parentela, perché comunque siamo civili, è bello ridere ancora insieme. Mi dispiace. Ero strutturata per vivere diversamente. Ma ho fallito. Ho sporcato le mie mani, il mio corpo, la bocca, i denti e tutto il resto. E vorrei nascondere tutto, per la vergogna. E non ridere più. E basta con questo bisogno di rimanere in contatto, di ristabilirlo il contatto. Sento di non tollerare questo atteggiamento. Mio e altrui. Vorrei alzarmi al mattino e non sentire una voce, una sola voce familiare. Volti nuovi, da averne paura. Siamo imbrattati di mille colori.
Mi viene davanti agli occhi l'immagine di mio nonno nel sottosuolo che dipinge quadri, che crea colori, paesaggi, contorni, figure. Ero rapita dai suoi gesti, dall'attenzione che metteva nel creare spazi, vuoti, voci. L'unica mia angoscia era vedere tutti quei colori mescolati, quella melma fangosa sopra un tavolo, quell'odore forte e resistente agli anni. Il giallo perché lo fai sparire nel blu, dov'è che va a finire e il bianco, il bianco non puoi farlo è un delitto... Così mi portavano via e trascinavano altrove i miei occhi feriti, preoccupati per tutti quei poveri colori che sembravano gridare dal terrore. Ogni tanto, quando ci riuscivo, quando nessuno faceva caso a me, andavo a rubare un tubetto di giallo, di azzurro, o di bianco e fiera e diabolica me li portavo a casa, finalmente al sicuro da quell'assassino. Avevo comunque pochi anni, forse cinque, e lo ricordo molto bene. È un ricordo nitido, pulito. Ieri cosa ho fatto?
I colori sono belli tutti e tutti sono uno solo. Ma a me piace distinguerli, alla fine. Uno per uno. Altrimenti mi confondo. Mi disperdo.
Ho il seno vuoto. Vorrei cancellarlo. Il viso è stanco. Ho voglia di piangere, ma non sono concentrata. Piangerò più tardi, a casa, forse. Siamo segnati. Non sento più, con la stessa facilità di un tempo, l'infinito che si muove intorno a me. Tutto si restringe. Spazio, tempo, disponibilità. E poi la fine è la stessa. Mi chiedo cosa penserebbero i miei figli se leggessero queste parole. Ma come è possibile avere dentro una forza madre infinita, avere la voglia di pensare a proteggere la vita che ho spinto fuori a fatica, con dolore, e, nello stesso identico tempo, avere voglia di niente, del nulla assoluto? Del vuoto assoluto. Del silenzio assoluto. Eppure sento di poter dare ancora tanto a me stessa, a un uomo, a questo mondo. La purezza che vorrei, non esiste più. Anche i tuoi occhi ne sono una conferma. E ti odio per questo e per questo ti amo. Cosa sarà di questo Noi che oggi ci scopre complici, amanti, ancora impantanati ognuno nei propri colori?
16 gennaio 1999 ore 12.30
C'è vento in quota. Lo puoi vedere dalla velocità con cui quei batuffoli si rincorrono per le strade del cielo.
Silenzio.
Cosa c'è da dire?
I tuoi occhi sono testimoni di tutto ciò che hanno visto, rubato, fotografato. Loro sono a posto. Sono io che mi sento a disagio davanti a loro. Non dovrei? Lo so che non dovrei, ma è quanto accade. Non sempre, ma accade. I colori appunto. Chiamiamoli così. E chi può davvero capire le ragioni di certe sfumature? Non si può sempre chiedere perché. Le cose accadono perché accadono. Punto e basta. E quando accadono fanno male, perché volute o no ci siamo comunque nel mezzo. La purezza, dicevo, non esiste più. Ma mica è sempre vero, non è legge. Capita. Capita che ti senti solo, che lo sei davvero, capita che sono gli altri a infliggerti questa condizione di solitudine, a cercare di farti sembrare ciò che non sei. Capita che sei stanco per davvero, che una bambina ti chieda e tu non hai voglia di risponderle, che un bambino debba essere cambiato e le tue mani sono stanche, ma continui a cantare, a parlare alla bambina, figlia, sorella. Capita. E il fatto di non essere sola, di non dover pensare solo a me, a volte è infinitamente bello anche se faticoso. Io adoro questo tipo di stanchezza. A volte.
Tu dici che fare figli è la cosa più semplice che due esseri possono fare assieme. È evidente. Siamo miliardi di stronzi che girano a vuoto in questo spazio sfinito. È anche il ciclo della vita che nessuno può spezzare. Come dice mio padre: tanto qualcuno che fa figli e manda avanti il mondo c'è sempre. Io sono tra quegli stronzi. E preferisco essere una stronza con prole che senza. I miei malumori non sono legati ai miei figli. Loro stanno su un altro pianeta. Intoccabili. E ti dirò di più. Se penso che sto invecchiando, che il mio utero non vedrà mai più un feto mi prende rabbia e tristezza. Avessi miliardi ne farei un altro. E stavolta tutto mio. E se sono pazza, se qualcuno osa credere che sia una cretina, pazienza. Ognuno è libero di dare sentenze e di creder pure di avere ragione. Sai quanto me ne importa?
Avrei potuto studiare, certo. Avrei potuto a diciotto anni scegliere un'altra strada. Non l'ho fatto.
Qualcuno sta ridendo di me. Dell'amore che mi lega a te, ai tuoi occhi, alle tue angosce, alla tua voglia infinita. E ho paura di te, dei tuoi colori, perché non li ho ancora ben annusati. E poi mi sento un ostacolo per i tuoi piani infiniti...
Vietato attraversare la grande acqua. Perseveranza porta riuscita? Fanculo a tutto.
18 gennaio 1999
Ti scrivo. Ho voglia di farlo, stamani. Stamani avrei voglia di fare tutto. Fare e disfare. Giorni secchi questi. Come l'aria che gironzola nei dintorni, asciutta come le parole che escono dalla mia bocca. Non so di che farmene di queste ore, di questa luce, di questo sole. So che un giorno rimpiangerò il sapore di queste giornate perse, e soffrirò per questo. Già la sento la malinconia di quel giorno per il presente che sto vivendo. Anticipo tutto. Soprattutto le paure, visioni in bianco e nero con un po' di rosso sangue sparso ovunque.
C'è una casa infinita, senza porte, senza finestre. L'aria è libera, il vento la muove per le stanze vuote e io cerco, cerco qualcosa che non trovo, e continuo a camminare, non corro cammino, e ogni volta che si apre una parete ci tuffo gli occhi e le mani. Non so cosa cerco. Proprio non lo so. Non mi va di mettere a fuoco. E scorrono davanti a me immagini, foto annebbiate, in bianco e nero, come quelle che fa mio padre. Poi ritorno. Eccomi qua. Mamma, donna, bambina.
Per la vita che ho scelto avrei dovuto vivere un altro presente. Avere un nucleo, un punto nell'universo che si muove, ma che sai sempre dov'è. Per forza, ne fai parte. Il mio nucleo sono io, io e i miei figli. Non so se basta. Non so se mi piace. Passo delle giornate intere da sola. Con i libri, Con O. soprattutto. E nei tratti d'ombra, quando la lettura diventa faticosa e i miei occhi sono altrove, allora sento la fine avvicinarsi. Sento il calore della disperazione. I miei anni. I miei anni andati chissà dove, hanno inseguito il nulla. Il nulla eterno che copre ogni cosa. Nel nulla mi sono persa e mi perdo. Continuamente. Ho l'esatta sensazione di non saper fare a vivere. Senza vittimismo, è chiaro? E l'amore, qui, in questo quadro non c'è. Voglio dire che non basta. Io amo i miei figli. Basta a farmi vivere bene? Amo un uomo stupendo. Basta a farmi vivere bene? Non mi manca niente. Non ho i miliardi, ma ogni sera ho un letto caldo, un piatto di pasta, una casa che raccoglie i miei pezzi. Basta a farmi vivere bene?
No.
Non è un No assoluto, comunque. È un no sommesso, delicato, timoroso, quasi un sì che ha paura di uscire, come la testa di mio figlio. Allora ci vuole un taglio netto, qualcosa che estragga la vita che è in te. Il dopo è buio, solitudine, tristezza nera e infinita. Solo il contatto diretto con la cosa estratta è voglia di esserci, di vita pura, distillata. Solo quel contatto. La pelle con la pelle, l'odore. Il resto non c'è. E non esisterà più da allora, da quell'istante. La tigre non ha bisogno del maschio per crescere i cuccioli. La mia maternità è aggressiva, bestiale, staccata dal mondo. Niente coronamenti a nodi facili da sciogliere. Non sono legami quelli. Cordoni. Voglio cordoni ombelicali da staccare con i denti, quando e come pare a me. E mi lamento mi lamento ma in fondo al cuore sono felice che lui sia quello che è. Non mi darà fastidio più di tanto. Basterà, a tratti, mostrare i denti, senza mordere. Basteranno quelli. Feroci, pronti a sbranare, i denti di una femmina difendono territorio e prole e incutono terrore.
Se sto troppo tempo da sola, deraglio come un treno impazzito per la velocità. Se la velocità aumenta, non distinguo niente. Né colori, né volti, né niente. Ed è una brutta storia. La peggiore in assoluto, la più terribile. Ma capita, appunto. Capita che mi dico che dovevo rimanere dov'ero. Vicino a un uomo che probabilmente non mi ha mai capito, né ascoltato. Ci vuole pazienza per amare. E non ci si deve mai aspettare di ricevere ciò che siamo capaci di dare. Ma l'istante che si scontra con questa domanda-pensiero porta in sé una risposta negativa. No, non potevi farlo, mi dice una vocina. Io rispondo che sì, potevo. Per O., per un figlio che ho voluto, desiderato, aspettato. E la vocina mi dice: fanculo, sei proprio una cretina, sei quanto di più osceno vive nell'universo. Non puoi partorire questi pensieri. Non ci siamo. Proprio per niente. Tu deraglia pure, cazzi tuoi.
A questo punto posso tracciare tante circonferenze, concentriche, all'infinito. Ma il centro, il punto corroso e malato è sempre lo stesso. Vivo e mi sento a teatro. A volte mi sento un burattino. Senza fili, ma pur sempre un burattino. Vorrei regalarla la mia ansia. Chissà quale sarebbe la mia faccia allora.
20 gennaio 1999 ore 12.45
Ti ho letto e riletto. E mentre lo faccio, ti raggiungo e occupo un spazio che non mi compete. Goffa e ingombrante. Le mani gonfie per il freddo e poi il caldo di questa stupida stanza, di questa inutile scuola, di questo vuoto lavoro buono solo per i soldi. Il respiro è pesante. Mi sembra di essere ancora più bassa oggi. Non ho messo le scarpe con il tacco, ma non è per questo.
Tu scrivi. Tu parli. E io cosa faccio?
Mi porto sotto braccio la sensazione precisa di non avere niente a che fare con la tua vita. Senza ricami ho detto ciò che penso. Quello che, di tanto in tanto, mi fa inciampare nel silenzio più cupo dell'universo. Un silenzio che prima uccide me, poi stanca chi ho vicino. Vorrei dirti tante cose e chiederti fino a farti fuggire dai miei occhi. Hai presente i perché di un bambino di quattro cinque anni? Ti sfinisce. E il perché del perché del perché dove lo vai a cercare? Poi non ci riesco. Mi sento stupida a domandarti il perché dei tuoi occhi, perché il tuo entusiasmo a volte ti abbandona, o della paura che ti fa fare il buffone.
Semplice. È così semplice che me ne vergogno. Ci sono parole che non possono racchiudere un significato, una persona, un desiderio. Mi sento una bava di vento che trascina a fatica una vela. Devo esercitarmi a non pensare male. Forse a non pensare. Impossibile?
Più tardi, ore 21.20 circa
Il tuo telefono, da circa mezz'ora, è occupato. Con chi stai parlando, uffa! Adesso vado a letto per davvero. I miei occhi si chiudono e non sono in grado di sforzarli più di tanto. Ancora il cibo. Sono agitata, mi sto annoiando e innervosendo, perché non posso darti la buonanotte. Immagino chissà cosa, immagino il colore della sabbia del deserto. Immagino il deserto. Vado in cucina, cerco i biscotti, ho voglia di dolce. Poi sto male. Di stomaco, di testa. Se rispondi bene, altrimenti buona notte.
21 gennaio 1999 ore 9.15
Ho visto l'essere. Comunico a quell'ammasso di carne e ossa che domani ho un impegno. Solite le risposte, le reazioni, le parole. Dovrei avere sempre un registratore con me. O qualcuno da infilare in un taschino, un testimone che ascoltasse con le proprie orecchie il suo vocabolario. Non ci si può credere.
Ore 11.30
Mi gira la testa. Ma non è esatto. Mi sento su una barca tra le onde del mare. Ho la nausea. Barcollo. E il mio punto fermo è la tua voce, poco fa premurosa, un po' arrabbiata per la mia noncuranza. Mi manchi. E ti cerco ovunque. Sulla pelle, nelle parole che scrivi, che mi regali, nell'espressione della foto che mia hai dato... La tua sciarpa nera è un pitone che mi stringe il collo. Se non è con me sento freddo, mi sento nuda.
È mezzogiorno. Tu stai andando nel capoluogo di questa regione insignificante. E disprezzi la terra dove sono nata. Dei miei avi. Cattivo.
Sabato pomeriggio ho deciso di andare lassù, nella casa di infanzia, per due motivi: per me, perché avevo voglia di cambiare aria, stanze, di non vedere sempre gli stessi oggetti che finiscono poi per farti pensare le stesse cose. Avevo voglia di aria libera, di fumo d'olivo che esce da quel tettuccio rosso, di quell'odore che ti entra nei vestiti, nella pelle e non lo lavi più via. Voglia di camminare sull'erba nuova e la terra rossa, come si chiama il luogo. Terra rossa. Mi fa venire in mente gli indiani, i cavalli pezzati, nudi, senza briglie, senza sella. Cavalli che ti viene voglia di galoppare all'infinito, pelle contro pelle, e ci vuole complicità per andare a tempo, per danzare insieme, per andare il più veloce possibile, per inseguire il vento, per oltrepassarlo, per umiliarlo, per sentire l'odore inebriante del cavallo che suda, la bava alla bocca, gli occhi di brace, gli indiani, il campo, le donne dai capelli neri, scuri, lisci, gli occhi forti, penetranti come la notte senza stelle, da fare paura... I miei indiani... Il mio cavallo, le mie vallate, le praterie senza tempo, senza fine. Era ancora tutto là, come l'ho lasciato. Ho ripercorso i sentieri, con mio figlio tra le braccia che divorava odori sapori colori con i suoi occhi da sogno, con quelle ciglia che impigliano il mio amore, la mia estasi, il mio orgoglio.
La sera. Io e O. andiamo in ritiro in mansarda. Faccio il letto, lui salta, gioca, è attratto dall'ambiente nuovo e, per questo, provvisoriamente noncurante del mio corpo, del mio esserci. Mettiamo qualcosa per danzare. Non c'è granché da scegliere, ma trovo una vecchia cassetta di Madonna. La sua musica non mi piace. Ma lei sì. Ha qualcosa di diabolico nel corpo, nell'anima, nel suo essere donna, nel suo prendersi in giro, negli occhi, nella voce. Poi, anche lei perde la madre in età adolescente. Complicità tacita che oltrepassa culture, oceani, terre vuote, anni luce. Abbiamo, nell'animo, la stessa rabbia, la stessa privazione, lo stesso spazio buio, sospeso, vacillante. Il ritmo parte, O. mi guarda, ride compiaciuto, le sue gambe si muovono come per assecondare quelle note, quella voce. Mi piace perché è una canzone dal suono spagnolo, latino. E quella musica scorre nel mio sangue. E il mio corpo non riesce a rimanere in silenzio, indifferente, muto. Passano i minuti, ci togliamo le vesti sporche delle ore trascorse, impregnate di odore di fuoco, il mio fuoco, che sa d'olivo, di ramo, di vero. Il cucciolo è stanco, divertito, felice. Ha gli occhi pieni di vita e ancora non lo sa. È contagioso. E la vita sgorga fuori come la schiuma da un bicchiere di birra versata con distrazione. E io la bevo quella vita, perché un po' mi appartiene, un po' è anche merito mio... Seno, mani, bocca che succhia senza avidità, senza fame. Il latte esce ancora, è ancora buono, dolce, rassicurante. Una mano accompagna il seno e la bocca, l'altra fruga il seno rimasto ad ammirare il cielo. Vuole che sia così. Vuole tutto per sé quel piccolo impiastro meraviglioso. E guai a chi oserà strappargli via quel sorriso dagli occhi. Lotterò affinché possa rimanere il più a lungo possibile attaccato al mio seno, al mio corpo, alla sua inesauribile innocenza e ingenuità. I bambini non sono angeli. Sono diavoli ed è per questo che li adoro.
I suoi occhi si spengono nel sonno. Rilassati, leggeri. Io bacio la fronte sua piccola, gli bacio gli occhi, il naso, la bocca rimasta socchiusa. Adesso sono tutta per me e non so cosa farne. Scendo a chiamarti. Poi mi abbandono al ricordo di quel giorno d'estate che siamo scesi insieme alla casa, ricostruisco il tuo volto, il mio, l'emozione di quegli istanti preziosi. Ho voglia. Ho voglia di te. Ho sempre voglia di te. Ma non credo che te lo dirò. Al telefono, voglio dire. Me lo tengo tutta per me il desiderio, lo nascondo tra i capelli, e le parole le lascio morire nel sonno che presto catturerà ogni cosa.
Sono ai piedi della salita. Ricordo l'attesa. L'attesa che si allungava sul sentiero non troppo ripido. Aspettavo mio cugino, quando non rimaneva a dormire il sabato sera, lo vedevo scendere di corsa la domenica mattina, a un'ora non calcolata. Per questo il suo arrivo era una festa per i miei occhi. Sempre. E, forse, lo aspetto ancora. Come ieri, come oggi, per l'eternità.
Di te neanche l'ombra. Eppure sei così presente, così grande, immenso. Dopo questi due giorni ti amo di più. Ti sento di più. Tu lo sai il perché?
25 gennaio ore 15.10
Ho aspettato, invano, la tua telefonata. Dico ho aspettato perché adesso non l'aspetto più. Se chiami bene altrimenti pazienza. Probabilmente starai dormendo e nessuno può rimproverarti per questo. Che l'abitudine abbia già provato a intaccare il nostro rincorrerci?
26 gennaio 1999 ore 10.30
A diciotto anni ero fuori casa, gettata fuori con violenza. Mio padre dice: o l'aborto o fuori. Ho preso due o tre paia di mutande, la mia maglina, un pigiama e sono uscita. Mia madre era morta da sei mesi. Ancora presto per rendersene conto. Presto. E sarebbe stato presto sempre, anche nel futuro.
Casa nonna materna, casa zio, casa zia con cugini, casa nonna materna. Poi il matrimonio quindi casa P. È stato bello. Tanti figli, una famiglia del sud, piena di calore. Anche troppo. Eravamo troppi. Io stavo chiusa nella cameretta, quando non ero fuori a passeggiare con la mia pancia. Leggevo, scrivevo, ascoltavo l'essere che respirava.
Frammenti. Non voglio storie. Né racconti.
Comunque sia, io ero una bambina, sola. Mio padre è lì che ha fatto l'errore più grande della sua vita. Non volendo ascoltarmi, non accettando la mia decisione, mi ha precluso una strada. Smetto di andare a scuola. I professori mi chiamano a casa, mi cercano. Soprattutto quella di filosofia. Torna. Non mollare. Ma come potevo... La stanchezza, la gravidanza, la nausea, mia madre, mio padre che non mi parlò fin dopo il parto. Durante il parto. Durante le contrazioni camminavamo insieme nei corridoi dell'ospedale. In tre ore la testa della femmina è fuori. Lui fugge.
Forse un uomo anziano potrebbe capirmi. Qualcuno che ha sfogliato la sua vita come un buon libro. E che ci ha capito qualcosa. E, magari, l'ha anche letto tre volte. O cinque, il mio numero preferito. Ho sempre allontanato chi ha qualche anno in più di me. Non so perché. Non mi piace sentirmi trattare da bambina da chi è tanto maturo.
Da chi cerca di plasmare la mia natura, chi cerca di addomesticare il selvatico, ciò che è inafferrabile.
Frammenti. Dio lupo. Frammenti.
Sono stanca di corrodere la mia vita. La voglio salda, la voglio potente, tutta per me. E ci riuscirò. Diventerò così forte che nessuno oserà prendermi più. Prendermi sul serio dico. Ciao.
27 gennaio 1999
Quando ti aspetto sono gioiosa. Quando suoni il campanello, quando sali le scale. Poi la tua assenza si dilata nella stanza, nel mio corpo. Paranoia? Non credo. Ho l'impressione che sia una fatica infinita, a volte, venire da me. Lo leggo nei tuoi occhi. E tutto questo mi mette in un'agitazione interiore che scuote, fa cadere, traballare ogni più piccola conquista. Almeno la certezza di saperti bene con me la vorrei toccare. E invece accade che proprio quando mi avvicino tu non ci sei. Sento qualcosa in agguato. Non so ancora cosa sia, ma lo scoprirò.
1.02.99
Meglio le parole dei libri. Meglio un libro. Non ho più voglia di vivere fuori da certe pagine. Non mi va. La gente è stucchevole, come zucchero bianco, filato. Decido, ma poi non lo decido perché certe cose non possono essere sviscerate. Accadono. E accade, appunto, che non mi sento stuzzicata da anima vivente. A parte te e la carne che ho moltiplicato. A parte i libri. Voglio leggere. Voglio il silenzio. Non mi va di parlare. Domande, domande, sempre domande. Dentro, rispondo in modo violento, aggressivo, sanguinario. Uccido e sono uccisa. Corro, inseguo, stanco e mi stanco. Qualcuno può fermarmi?
6 febbraio 1999 ore 11.00
Inizio.
Provo a dare una bozza, a rendere tangibile il mio pensiero. Nei giorni passati poca voglia di scrivere. Ingorgo. Come mesi fa, nel seno, il latte. Ho da dirti tante cose, lo sento. Lo sento sotto la pelle, mi sembra persino di vederle le mie cose scorrere insieme al sangue, nelle vene. Le sento, comunque. Sono ancora troppo confusa. E per confusa intendo un insieme chiuso, immenso, indivisibile. Insieme di fatti, di pensieri, di parole, di emozioni. Hai scritto una lettera così bella, forte, che mi ha fatto male. E quindi bene. Ha risvegliato un'infinità di mondi in me. Finestre aperte su universi sconosciuti, conosciuti, non ritrovati. Ancora.
7 febbraio
Buio. Mi chiedi parole. Poi sento rumori, possenti, che trascinano. Lontano. Non stare in nessun luogo. Penso e soffro, perché i pensieri sono aria, non posso toccarli, scaldarli, non posso renderli tangibili. Allora sono desideri. Pensieri desiderio. Mi dico sottovoce. Sono fuggenti. Inarrestabili, malefici. Ho paura. Di quello che sento. Di quello che dico, di tutto ciò che trattengo. Sbaglierò ancora e poi ancora e poi per sempre. La vita è un errore. E io, per sentire il male ora più sottile, ora più leggero, mi sono nascosta, gettata nel fiume. Che scorre veloce, lontano, nei luoghi più sani del mondo. Ma il mio fiume è violento e colora le mani di rosso. Stasera vedo tutto rosso. Anch'io lo sono. Il fiume è sangue e sangue è vita. Ma dentro, dentro le acque feroci, solo io vengo trascinata e dove mi sveglio non sento più la mia voce. Ma forse è la tua? Dove sei?
8 febbraio 1999 ore ?
Lo senti o no il bisogno di correre da me? Uffa. La parola d'ordine non è magica e non ti porta qui. Perché non chiami? Sono davanti a questo estraneo. Un computer in casa mia. Quasi quasi lo riporto indietro. Fa un certo effetto e poi sono abituata alla tastiera di scuola e questa non mi piace tanto. Ora vado a letto e se non chiami sarò triste al mio risveglio e non avrò l'aria di avere un amore tutto mio, da proteggere, da coccolare, da stringere, da cullare. Non avrò l'aria di essere innamorata. Buonanotte. Infinita. Ovunque tu sia.
9 febbraio 1999
Ti chiamo e non ci sei. Forse sei in bagno, forse non mi vuoi sentire o forse stai andando in Australia. Delle tre supposizioni preferisco credere solo alla prima. Però se sei davvero in bagno dovresti correre al richiamo della mia voce. Non credi che sia un dolce richiamo? Ho voglia di te. L'hai lasciata sul mio corpo, nella testa, intatta, da ieri sera, da sempre. Devo trattenermi quando non siamo soli ed è per questo che anch'io vorrei incontrarti altrove, fuori da casa mia. Non sempre però, perché è lì che comunque la mia vita prende fuoco. È l'origine degli assi cartesiani, il centro del mio Universo. Ed è sempre lì che devo tornare. Che voglio tornare.
Più tardi ore 15.00
Tu chiedi risposta.
La tua lettera, l'ultima, è lucida e attenta come la mosca nella ragnatela del ragno. E attende. È dolce, aggressiva, invadente, comprensiva, rabbiosa, a tratti prende il sapore di un rimprovero, di un invito a cambiare, a mutare, a diventare altro. Ti dico sì. Ti dirò sempre sì.
Posso ancora agire sul mio passato, su certe azioni, certi spostamenti a vanvera? Non siamo dei marziani, noi, e tantomeno in un libro. Quindi abbiamo un'unica scelta, guardarci i piedi, pararci il culo e andare avanti. Ed è questo andare avanti che, adesso, mi sgomenta. Cosa penserà la vita di me che ho due figli, due padri sparsi da qualche parte nel mondo, la scontentezza nell'anima, nei capelli, nelle mani? Cosa ne sarà di me, se mio padre se ne andrà? Sono un'opera incompiuta, lasciata a metà. Devo correre con discrezione per non stancarmi troppo. Non posso fermarmi, solo rallentare, non adagiarmi nell'inerzia, nelle illusioni. Se mi fermo fossilizzo la mente, calcifico, muoio, secco. E chi mi ha accompagnata fino a qui è certo che non ha saputo muovere la testa, non ha saputo correre con me, nelle fantasie, nei giochi di bambina, nei momenti di buio, di terrore o di allegria più sfrenata. Non sono facile né da capire, né da prendere. Questo lo so.
Ricordo, anni fa, quando uscivo con un ragazzo che da poco si era lasciato. La sua donna aveva un altro e lo aveva "abbandonato". Era la sua aria da cucciolo smarrito che mi inteneriva. Non aveva grinta in quel tempo, ma ne aveva avuta da vendere nella vita fino a quel momento. Concentrò le sue forze sulla sua unica eredità. E io gli fui compagna per pochi mesi nei quali riuscii a far di me l'essere più forte, più dolce, più grande dell'Universo. Volevo riportarlo alla vita, volevo vederlo sorridere ancora e non avevo paura di lui o di soffrire perché, ma questo l'ho capito dopo, non ero innamorata. Ero solo intenerita, sempre per colpa di quel senso materno del cazzo, e mi piaceva la sua compagnia, perché non parlava molto, ma ruminava e poi, a differenza di me, non agiva. Ho fatto la bambina scema per lui, era estate, la sera mi nascondevo tra gli ombrelloni, sulla spiaggia, correvo nell'acqua, cantavo canzoni al cielo. Volevo fargli sentire la vita, che poteva ritrovarla anche tra la sabbia, in una goccia di acqua salata, in un cielo stellato, nelle risate scure, la notte, quando la città dorme e tu ti stai lasciando cullare dalle onde, da una donna, da una sirena. Volevo donargli la mia passione, la forza madre, la rabbia degli occhi, la disperazione del mio corpo. E ci sono riuscita, dopo mesi. Il nostro legame era comunque privo di vera passione fisica, di intesa, complicità. Lui era, ed è rimasto, legato alle sue abitudini, a una donna che comunque ama ancora, a quel posto al tavolo, la sera, che non avrebbe mai più ritrovato. Spesso dimenticavo di esserci. È questo il mio più grave errore. Dimenticare le mie esigenze, il mio spazio. Quello che feci per lui potrei farlo di nuovo domani per un amico, per un figlio. Ma non in quel modo infantile, istintivo, distruttivo.
Tu sei altro. Altro da questo parlottare piano, a bassa voce. Chi può dire ciò che sei per me? Quello che io so e che non dico è solo per paura. Anch'io mi ripeto. È un difetto della macchina umana ripetersi. Magari potessimo sentirci liberi dalle cose andate, perdute per sempre. E invece no. Eccoci là, avvinghiati a un ricordo, a un però, a un se. E come pesano le parole e i gesti e l'aver toccato, l'essere stati toccati da altre mani, altri corpi, altre bocche. Si fa finta di niente, si dice ancora ti amo e ci crediamo e lo sentiamo, ne sono sicura. Ma poi, la sera, sempre la sera, scuotiamo la testa in segno di diniego e ridiamo di noi, del nuovo che abbiamo trovato, del vecchio che abbiamo lasciato, che ci hanno lasciato, nostro malgrado, tra le mani. A volte siamo così pieni che vorremmo esplodere per poi raccogliere i pezzi, i migliori, quelli ancora intatti, indistruttibili. Quelli eterni. Quindi quali?
I pensieri, le parole scritte e non dette. Non so se ti ho mai detto ti amo. Ma te l'ho scritto. Non ti ho mai chiesto di parlarmi di E., ma ho lasciato che il suo nome uscisse da me e dalle mie mani e arrivasse a te, nel modo più dolce possibile, più rispettoso. Non ti ho mai detto che mi piace come mi guardi, come mi parli, come mi tocchi e che fare l'amore con te, lasciare che siano i nostri corpi a parlare mi fa impazzire, mi fa dimenticare che esiste un mondo e che anch'io ne faccio parte, immersa come sono dentro il piacere che mi dai. Ma lo penso, lo scrivo e lo tengo per me. Forse non riesco ancora a spaccare quei muri, ancora non sono pronta, dentro, nel profondo. È pronta la mia pelle, lo sono i miei occhi, le mani, i capelli, il corpo tutto, ma c'è qualcosa, laggiù, lontano nel buio, a cui non so dare un vero e proprio nome, che non riesco a catturare. Forse è solo la paura. Ognuno di noi due esce di scena da palcoscenici molto diversi, per una serie di motivi che tu sai bene e non mi va di elencare. Ognuno di noi due deve arrangiarsi con quello che ha. Tu stesso mi dici, a volte, che non stai ancora bene. Non approfondisci mai questo aspetto, ma forse non è indispensabile. Come non mi parli quasi mai di ciò che ti chiedo in alcune delle mie lettere...
Sì o si? mi dici, mi chiedi. Ti dirò sempre sì. Dentro la bocca, trattenuto, c'è sempre un sì. E sarò qui per scuoterti, per spazzare via la stanchezza, per chiederti molte cose, per non darti tregua. Voglio farlo. Perché è tutto ciò che voglio. Perché quello che mi dai e come lo fai mi fa sentire viva e bene e forte, indistruttibile. Perché ti amo e dentro questa parola c'è un mondo che voglio scoprire con te, fare e disfare con te, mille volte, un miliardo di volte, come il divano a casa di tua sorella.
Tu violentami, come hai promesso. Perché mi capita ancora di sentirmi bloccata, ostinata, smarrita, una bambina dispersa, come dice Paola. Momentaneamente. Perdona il mio silenzio. Perdonalo quando è lì per farmi o farti soffrire. Ma per anni, per una vita, è stato l'unico velo dietro il quale ho nascosto le mie vertigini, la violenza del mondo, il rumore della gente. Silenzio a tratti indispensabile. Ne ho bisogno per ritrovarmi, per riordinare le palline fuori posto che vagano nel mio cervello. Vorrei parlare, parlarti, ma non posso con un gesto cancellare le brutte parole che altri mi hanno lasciato, quelle scritte male, quelle che il male lo portano dentro e te lo rovesciano addosso senza nessuna pietà. Non posso cancellare il tuo male, tagliare le radici. Ci vuole tempo. Pazienza. Ogni tanto va bene anche perderla la pazienza, ma poi è indispensabile riscoprirla nel letto, sul cuscino, per la strada, in una lacrima. È bello piangere con pazienza, senza fretta... mentre lavi i piatti, per esempio, spalle all'universo, nessuno che controlla i tuoi gesti, meccanici, rumorosi. E la pioggerella di lacrimucce se ne va tra la schiuma del detersivo che inquina mari fiumi laghi terra e la spugnetta sfatta più di me, che gratta via l'unto, lo sporco, la patina di residuo che il mondo lascia sulla mia pelle, inquinando i miei laghi, le mie acque. Se piango mentre lavo i piatti è bello, perché la lentezza si impossessa di me, è gustare il sapore della mia infelicità. Ed è sempre e comunque necessario carezzare anche tutto ciò che ci fa male.
Oggi, per oggi, lascio piangere il cielo. Nuvole, tante nuvole. Il vento è nervoso da far paura. Si agita e percuote alberi, persone, lenzuoli stesi fuori dal terrazzo, non si posa in nessun luogo di questa piccola città. Corre e trascina te e chi ti ama in una corsa che non stanca, ma dà vita, energia, voglia di fare e di gioire di questo attimo di eterno. Sto bene. Sto bene persa in questo tempo da lupi. E se penso a te e sono nel mio branco sono felice. E se sono nel branco e so che ho te, che mi aspetti, che mi vuoi, sto da dio. Quando sono nei tuoi occhi, quando mi vedo riflessa nel tuo infinito, non esiste niente. Acqua aria terra fuoco mare cielo pioggia vento. È tutto dentro me, dentro te. È tutto infinitamente piccolo. E nel piccolo esiste ciò che non puoi immaginare. Piccolo, perché la mia felicità è racchiusa nelle tue mani, così la mia passione, il mio gioco, il desiderio, la vita. È un circuito breve, ma è tutto nostro. Da me a te, da te a me.
Il resto che aspetti. Aspettino gli eredi. Aspettino le mie angosce, le paura di entrambi, le perplessità, i dubbi. E se non ci riesco da sola con le mie parole, aiutami tu a farli aspettare.
Ore 00.04
Devo lasciarti il tempo di scrivere un fax. Richiami tu. Uffa! Non farmi aspettare ancora. Vieni da me! Col punto esclamativo. Ti voglio.
25 febbraio 1999 ore 9.40 giovedì
Ho i piedi umidi e i pantaloni bagnati. Fuori acqua, vento, mare disciolto nell'aria. C'è odore di pineta, di onde, di rissa.
Ora ti chiamo.
Hhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Più tardi ore 12.05
Rientro. Rientro nell'utero materno. Anzi no. Sono solo un ovulo maturo in attesa di uno spermatozoo. Anzi. Nessuna attesa. Ovulo maturo punto e basta. Poi sono mestruazione, sangue, vita mancata. Vorrei ricordare quel tempo, vivere da fuori la potenza di una cellula che si divide e cresce. Ma chi ce lo fa fare, dico io. Eppure amo così tanto la vita, feto, embrione che sei cresciuto nel mio corpo... Ho solo e semplicemente sbagliato specie, razza. I pesci Amleto sono solo femmine capaci di autofecondarsi. Così come alcune lucertole del deserto. Hanno fatto sparire il maschio. Non ne hanno bisogno. Tolto il superfluo, rimane il femminile. Sempre. Chissà perché... Pensi che sia esagerata? È sicuro. Lo sono. Ma la vostra fragilità è ingombrante, a tratti. E fragili lo siete. Sempre. Negli affetti, nella vita, nel lavoro. Non mi soffermo su queste parole perché non ne ho voglia. Comunque sia la realtà delle cose, io è così che vi percepisco. Padre, figlio, compagno.
Incredibile! Sta uscendo il sole. Deve aver faticato non poco, vista la consistenza delle nuvole. Ma lo aveva promesso, lo aveva promesso a me, che oggi un raggio di luce avrebbe allagato la mia testa penetrandomi all'interno, in silenzio, con amore, per scaldare e raggiungere i miei piedini freddi e introversi. Ti adoro mio sole, anche se sei maschio. Ciao.
26.02.99 ore 11.13 venerdì
Adesso ti ho capita. Dietro quel sorriso hai lasciato andare ogni cosa. Contrazioni, stomaco, intestino, cervello. È tutto finito. Tutto riprende le dimensioni reali. I dolori, distanti all'inizio, il delta T che li separa è ampio, ti fa respirare. Poi, ravvicinati, si fanno più impetuosi, violenti, profondi. Senti che al tuo interno qualcosa si muove, qualcosa si apre, a fatica, lentamente. E tu segui il movimento, dai ritmo alle contrazioni, col respiro, col pensiero, li visualizzi nella mente, dai loro corpo, colore, immagine. Il contorno non esiste. Sei lucida, così lucida che lo tieni in mano il dolore. E non vuoi darlo a nessuno. È tuo. Poi il delta T scompare. Tu e lui. Faccia a faccia, uno contro l'altro. Due pagine appiccicate, incollate, indivisibili. Non hai scampo. Devi abbandonarti, devi concederti a lui. È bellissimo e fa paura, non sai dove può portarti, ma sai perché è lì. Adesso la dilatazione è completa. Anche la mente si è aperta, allargata. Senti un desiderio forte di spingere, spingere con tutta la forza che hai, con le parole, con il fiato, con gli occhi. Spingi, spingi ancora, devi sentire la musica, devi danzare, devi osare, respira, prendi fiato, toccati e senti la testa che esce, che spalanca le ossa, la bocca si apre di più, ancora, senti i muscoli che si distendono, lasciali fare, lascia che aiutino il piccolo corpo a uscire da quella galleria infinita. Non puoi più tirarti indietro.
Esce la testa, la testa di un corpo piccolo, indifeso, esce dalle fauci sdentate, ancora non conosce la paura. Verrà dopo, se lascerai che lo portino via da te, dal calore del corpo esausto. Graffiali se ti dicono che deve essere lavato, pulito, mordi e sbrana, perché non si è mai vista una leonessa che vuole riposare dopo il parto senza avere i suoi cuccioli nel proprio calore. Non si stanca, la femmina, dei dolori del parto. Non ci preoccupa questa stanchezza, questi dolori sono nati con noi, li abbiamo scritti nel sangue, nelle vene, nelle fibre dei muscoli. Lasciateci in pace. Lasciate noi sole con la prole, leccheremo via il sangue, offriremo il nostro seno, staccheremo con i denti il cordone ma non subito, mangeremo la placenta perché ci appartiene. Dio lupo, voglio stare sola, sola con la mia stella.
Tutto svanisce. Il dolore non è più in te, il respiro torna regolare, dolce, sereno. È un respiro di madre, orgoglioso. Un sorriso che non vedrai mai più sul mio volto. Guardalo bene uomo, e taci. Adesso siamo due esseri separati. Il cordone è morto, tu respiri da solo, e ti nutri di me. Cucciolo d'uomo fatti baciare, così come sei, sporco di sangue, di utero, di liquido amniotico. Fatti toccare vita mia, che sei la cosa più bella del mondo. Fanculo a tutti quelli che ti diranno la vita è merda, che si uccidono, fanculo al mondo che si muove fuori dal nostro circuito. Tu e io siamo qui.
Sei la vita, sei tu la vita bella che mi gira intorno, dentro, la mia giostra. Sei la mia musica. La mia disperazione, la ragione per cui vorrei non andarmene mai più dalla terra, dalla polvere, dalla carne. Dovremmo morire insieme tu e io. Sei tu il mio centro, la mia gravità, il mio peso. Dammi le mani, dammi gli occhi, voglio annusarti, voglio stenderti sopra di me, attaccati al capezzolo, piccolo mammifero, e succhiami, prenditi il tempo, strappamelo dagli occhi, dal seno, dalle notti che non vorrai dormire, dai giorni che vorrai toccare. Sono tua. Sono la madre. Colei che ti ha voluto, creato, nascosto nel grembo, conosciuto il tuo corpo, ovulo e spermatozoo uniti nell'abisso del mio utero. Stancherai la mia pelle, gli occhi, il seno. Farai sì che il tempo sia tutto per te, lascerai poco spazio al mio silenzio. E per questo, anche per questo ti amo così, più di così. Come solo una madre sa. Una femmina. E non tutte le donne lo sono.
Ho contratto altre parti del mio interno. Ho sentito altro male. Qualcun altro, fuori, nelle zone limitrofe, me lo ha provocato quel male. Io stessa sono un'esperta nel procurarmelo. Anzi direi proprio che gli altri mi scalfiscono appena. Io sola possa distruggermi. Io sono la mia signora e padrona. Mi contorco, piango, soffro per separarmi da quel fastidio. Sono allenata perché femmina, madre, donna. Ma una volta fuori rimane solo il ricordo di esso e neanche troppo veritiero. Si riparte. Muscoli, ossa, sangue. Tutto è al proprio posto. Da oggi sono rinata anch'io. E chi può arrestare la mia forza?
27 febbraio 1999 11.20
Sole. Cielo pulito profumato di fiori. Ancora non ci sono, i fiori, ma io li sento ugualmente. Li vedo pure, li tocco. Poi li lascio dove sono perché non sta bene strappare dalla terra qualcosa che non ci appartiene. Odio gli strappi. Odio le separazioni violente. I fiori sono nati per essere respirati, carezzati e lasciati in pace. Non mi regalate fiori e quando muoio bruciate il mio corpo.
Oggi, Gecchiara. Sento la primavera dietro le nuvole, la posso anche toccare, se voglio, ma se vado lassù non serve rincorrerla. È lei a venirmi incontro, mentre scendo lungo la strada, mentre respiro, mentre vivo il momento senza troppi perché. Basta con i tormenti a occhi chiusi. Oggi lo scrivo. Ed è per sempre. Ho partorito. A più riprese, come la mia gatta, ma ho partorito. E una volta fuori e fuori punto e basta. Tu sei a Carrara, per incontrarti con diverse persone. Ho un'immagine veloce di ieri sera, di noi, delle parole. Io silenziosa e stanca, tu stanco e distratto. Ma era l'ultima fase del parto. Ora sono perfetta. Ho collocato i miei mali ognuno al posto giusto. E se giusto non è, almeno mi lascia respirare. Basta con l'anticipare certe situazioni. La mia storia con D. è finita. Qualsiasi cosa accada, ora lo so, ogni parte del mio corpo è stata aggiornata, informata. Ancora qualche fibra cercava di resistere, forse per rabbia, per disperazione, per solitudine. Ora anche le cellule di quelle fibre hanno cessato il loro moto. Tutto tace.
Voglio amarmi di più, con più slancio, con più istinto. Voglio venirti incontro senza scoprirmi vacillante sopra i miei piedi. Voglio te. Voglio la mia vita, i miei fiori, i colori, vanno bene anche i ricordi, se un po' diluiti. Ho due figli stupendi e una forza che parte dal mio centro. Non provare a fermarmi. E chiamami, dopo, oggi, stasera. E vieni, e portami con te, nelle tue onde. So fare bene a nuotare, cosa credi? Non ho paura del tuo mare.
Più tardi ore 12.05
D. mi telefona. Dice che è rimasto fuori casa senza le chiavi.
Scendo dalla macchina, li vedo, in lontananza, seduti nell'erba sotto casa. Corro per calciare la palla di O., divertita, bambina. O. reclama la sua puppa ed io non mi faccio pregare. Il sole batte, scalda il seno, la bocca del piccolo che succhia con avidità, con rimprovero, cazzo sei stata fino a ora? D. parla, ha litigato con qualcuno al supermercato. Gli rispondo di ricordarsi che ha un figlio e che eviti con premura di mettersi nei casini quando è presente ai suoi occhi. Cretino. Rissoso. Immutato.
È tutta una corsa. Mi avvio alla macchina, bacio O. e l'altro maschio mi dice se non mi dimentico qualcosa. Vuole un bacio. Ma sono troppo felice e forte per creare nuovi disagi e malumori. Mi avvicino e poso la mia bocca sulla guancia. Poi gli dico: sei un troglodita, un ignorante, un punto immobile nello spazio infinito. Forse sei così intrattabile perché la mattina non sei servito e riverito come una volta. Se vuoi chiamo "Totta" e le faccio una lista delle cose di cui hai bisogno. Poi aggiungo un bel fanculo a venticinquemila denti. Risponde, ridendo, come mai quell'aria confidenziale nei confronti dell'altra. Dico, c'è anche da chiederlo? Siamo o non siamo una grande famiglia? Vuoi vedermi così, vuoi questo da me? L'avrai. E ti farò impazzire.
Odio le dipendenze. Fisiche, psichiche, ma, soprattutto, materiali.
4 marzo 1999 ore 10.10
Non posso concedermi neppure di far dipendere la mia felicità dalla tua presenza. La distanza, dicevo, è necessaria. È vita. Mi accorgo solo a questa età e dopo ben due figli che per trentatré anni non mi sono voluta poi così tanto bene. Ho fatto di tutto per complicare anche il gesto più spontaneo, la parola più dolce, per non cercare in un uomo, in un compagno qualcosa che potenziasse il mio essere, la mia persona. Anzi. Ho fatto l'esatto contrario. Adesso voglio tutto il mio tempo, lo voglio indietro. E siccome indietro non si può pretendere niente, vivo con accanimento, con avidità ogni secondo, ogni goccia di nulla che al nulla torna. Il tempo mio l'ho voluto dividere, sciogliere anche negli occhi dei miei figli. L'età di O. è importante, deve essere seguita con attenzione, deve essere un avanzare dolce, sereno, un continuo scoprire e gioire. È cosa complessa dividere poi il tempo che rimane, distribuirlo nel modo giusto, viverlo con chi amo.
Mi manchi intorno, fuori, all'aperto. Così come mi manca l'attimo di gioia infinita da dividere con il mio uomo, quando O. conquista una parola, un'espressione nuova. Ma se ci sei, anche il silenzio va bene.
6 marzo 1999
Vento. Sei stato e sei vento. Crei confusione, cambi il colore del cielo, ti porti dietro nuvole e trascini i pianeti nel tuo passo, nel rumore dei tuoi pensieri. Nei giorni senza nome hai dato un volto alla mia solitudine, alla disperazione delle mie cellule. Hai parlato alla bambina e non è mai fuggita davanti a te. Ricordo quel giorno di primavera come uno dei giorni più belli della mia vita. Uno degli istanti in cui so di esserci stata, presente alla mia vita, al mio calore. E sono felice, anche se piango, che dall'altra parte degli occhi, fossi tu a proteggere la mia presenza, con i colori che mi hai disegnato, con le parole che mi hai soffiato addosso. E il soffio ha preso vita in me, è passato sopra quelle ore, lasciando una polvere che ancora grida e geme e scuote la terra dove cammino. Magari tu avessi avuto il coraggio di portarmi via. Anche solo per una sera, una notte, quella notte. Salivo le scale e mi sentivo davvero una principessa nel castello del suo amato. Ricordo le tue carezze, il tuo volto quando mi hai lasciata, le lacrime che hanno allagato il resto di quella splendida, candida notte. Dopo rimane l'amaro in bocca. Ma dopo. L'attimo vissuto con te, intensamente con te, il silenzio, le risa, il toccarsi è infinitamente grande, è così potente questo tuo esserci che dimentico il resto, che la terra gira, che le guerre uccidono e che un giorno morirò. È la tua assenza che porta distruzione. Il resto, tutto il resto che dico, è razionalità inventata, ricostruita, necessaria, ma non vera. E amami di un amore che sia anche odio, violenza, rabbia, veleno. Amami e sotto il mantello porta solo me nel tuo cammino.
8 marzo 1999 ore 13.00
Ci sentiamo più tardi.
Quanto sei noiosa. Più tardi vuol dire più tardi punto e basta. Tu e i tuoi orari, le tue scadenze. Non siamo mica latte noi, che andiamo a male. Non abbiamo scadenza. Eterni siamo, senza tempo, senza misura, senza profondità. Comunque tu sei un po' antipatico al mattino quando hai da fare telefonate, quando devi smuovere l'universo. Sei cattivo, infernale, diabolico, freddo, non mi consideri più di tanto, quindi mi trascuri, ti prendi gioco della mia voce, delle parole, e ciao. E la notte, quando torni nella tua tana, non telefoni. Egoista. Ma io sono più veloce di te. Sono già nel tempo del più tardi e ti aspetto, ti prendo, divoro la tua carne e poi ti bacio fino a farti male. E non ti dico più niente se no non vale. Torna da me, più tardi, più presto che puoi. Al mantello ci penso io.
11 marzo 1999
Ieri ho comprato una crema per il corpo al muschio e more. Mi piace questo odore, il muschio è una droga, è un richiamo al sesso. E quando mi giro nel letto, quando sciolgo i miei capelli sul cuscino, sento questo odore penetrarmi nel profondo, e mi avvolge, mi rende arrendevole, fa scivolare via l'aggressività, e non penso più che ho un ruolo, in casa, nel mondo, che ho un tempo e un'ora che mi aspettano per portarmi via da qua, dimentico i soldi, il lavoro che mi attende la mattina, quello del pomeriggio a casa, i miei figli, le loro esigenze. Sono solo un mammifero, caldo, femmina, mora, purtroppo non scura di pelle, ma solo nei pensieri. E scuro non vuol dire pessimista, ma solo che difendo nell'oscurità la mia anima, il mio io, le mie cose. La luce, un raggio o più, la faccio penetrare nelle mie tenebre solo quando qualcuno lo merita. Altrimenti nel buio io vivo per non confondermi con il chiarore accecante degli altri. Lo definiscono pessimista il mio non esserci. Eppure mi basta un po' di muschio per ritrovarmi, per desiderarmi, per essere viva, per sentirmi in quell'istante e goderne all'infinito. Voglio pattinarci sopra ai malumori altrui, come sul ghiaccio, e lasciare scie indelebili. Pattinare e danzare sopra le teste altrui. Comunque, il silenzio è prezioso a tratti, come le schiarite nel cielo in un giorno opaco. Ti fa alzare gli occhi, dà profondità al tuo malessere e quindi puoi respirare meglio, il silenzio è ossigeno, è vita, è musica. Non lo taglierò dalla mia vita. Non sempre. Torno a dire: che siano gli altri a porsi un limite. Dove c'è silenzio c'è voglia di ritrovarsi.
15 marzo 1999 ore 10.30.
I gesti sono rallentati dal sonno. Ho una visione alterata delle cose perché gli occhi sono bendati, chiusi, addormentati, altrove. Quello che vedo non è qui, non è presente, non è vivo di vita propria. Sono io a concedere vita a certe immagini. Continuo a chiedermi dove può essere quel posto d'incontro. Dove scontrare le teste l'una contro l'altra senza l'ombra di tutto ciò che ci lasciamo dietro. Ma è poi vero che ci riusciamo a lasciare tutto fuori?
Entri in casa. Poche parole, bastano gli occhi. Ho voglia di giocare, sono tanti giorni che aspetto questo momento. Tanti infiniti minuti. Ogni volta è la stessa identica cosa. C'è un nemico che vince sulla mia collina e non riesco più a correre felice senza mutare il mio umore, i colori, il gioco. Qualcosa ti infastidisce, il piccolo è rumoroso, vivace, stanco, piagnucolone. Non so di preciso cosa avverti tu, ma quello che lasci nelle mani, le mie, poco mi piace. È questa la mia cocciutaggine? Ci sono parole che ti escono e che sono frecce infuocate. Un bambino tira fuori agli adulti istinti primitivi, reazioni chimiche.
Ieri sera mi hai ricordato un episodio di una "famiglia" di leoni. I cuccioli giocano con la madre, morsi alle orecchie, alla coda. Praticamente la massacrano. Lei ferma, immobile, paziente, dolcissima femmina che sa che tutto ciò deve accadere. Il re leone non fa altrettanto. Morde, ringhia a qualsiasi cucciolo si avvicini a lui. E a volte uccide. Mi chiedo perché tanta freddezza nei gesti, nelle parole, negli occhi. Non mi piace sentirmi in difficoltà per O. C'è un silenzio che ferisce.
Sono una madre. Tra tante, tra mille. E ho il mio modo di esserlo. Non mi piacciono le imposizioni, non mi piace picchiare mio figlio quando combina guai. Odio la violenza, quella violenza. Sono convinta, perché l'ho scritto nel sangue, che l'obbedienza sia un vicolo cieco, voglio usare metodi che incoraggino la sua autonomia e non addestrarlo. Voglio educarlo, tirare fuori, appunto, aiutarlo passo dopo passo senza imporre niente che non abbia prima tentato di fargli capire. Le regole servono solo a nascondere i veri problemi. Odio le regole in assoluto. Non riesco a fare qualcosa perché mi è ordinata, non posso subirla. E non credo sia giusto fare altrettanto nei confronti del prossimo, delle persone a me più vicine. Le punizioni fisiche poi a cosa servono? Fanno male, di solito vengono date in occasioni di rabbia improvvisa, di stanchezza da parte di un genitore, è un gesto stizzoso, acido, che provoca altrettanta violenza. Quando fa un capriccio io lo ignoro, lo lascio fare e se piange smette quasi subito, a meno che le lacrime non siano sintomo di altro malessere. Allora non è più un capriccio, lo prendo, lo bacio, gli faccio sentire il mio calore. Esiste persona vivente che può giudicarmi? No. Tutto accetto, ma in questo giardino non porto sporcizia. E se hai qualcosa che non va, se senti fastidio o altro dimmelo. E fallo per bene. Se ti chiedo di non startene in piedi, nel buio della stanza, o in cucina da solo, devi farlo e basta. Non lo chiedo per me. E non rispondermi che tanto non capisce niente e che non rientri nelle sue abitudini. Sono risposte stupide, vuote, che mi raggelano il sorriso e oscurano la disponibilità. Questo è quanto accade. Senza filosofare, senza retorica, senza troppe chiacchiere. In questo modo mi sento sempre più sola, per difesa, per istinto, anche se ti desidero, se ti amo, se ti cerco, se ho bisogno di te per camminare, respirare, vivere.
16 marzo ore 10.00
Il pensiero di oggi è distratto, sparpagliato, si sfalda come unghie deboli, delicate e non porta da nessuna parte. Dico che il mio essere mamma mi allontana dagli altri. Lo dico e ne sono convinta. Quando mi sveglio e sento il mio cucciolo nel letto, lo vedo, quando mi chiama, quando mi sorride, in quell'istante niente di più bello potrebbe accadere alla mia vita. E il sentirmi dire che ci sono anch'io, che devo vivere per me stessa mi fa sorridere, a tratti, perché nessuno capisce che io sto vivendo per me stessa. Pensare a O., corrergli dietro, fargli conoscere il mondo, i colori, gli animali, sentirlo cantare, tutto questo è la mia vita, è ciò che ho voluto, ciò che di più bello potessi strappare a questa esistenza. La stanchezza ha un posto d'onore in questa mia vita. Nasconde la mia vivacità, il temperamento, il fuoco che brucia senza tregua. Sono stanca, ma non è vero.
Ti guardo negli occhi, sento la tua voce, tocco i tuoi colori e mi viene da piangere, ultimamente. Carezzo i capelli, il viso, l'odore e mi dico che no, niente di tutto questo mi appartiene. Non può essere. La tua vita camminerà senza il mio passo. Lo so, lo sento. È come cercarti in un prato di margherite in primavera, una stagione e poi di nuovo l'inverno. Ci saranno altri occhi di cui ti innamorerai, già ti vedo. E la mia freddezza, a tratti, è tutta racchiusa in questa goccia di terrore che mi scivola sul viso, che bagna i miei occhi, i pensieri, i vicoli ciechi.
Non riesco bene a dividermi, a scindere i ruoli che ho. L'unico punto di riferimento fuori di me, mio padre, sta diventando un retta che tende all'infinito. È poca cosa? Non per me. Da quando è morta mia madre, ho combattuto a vuoto, contro di lui, contro un mondo che non ho mai capito né condiviso. Ma sapere di avere i suoi occhi, di essere sua figlia, mi ha dato la forza di andare avanti. Adesso è lui ad avere bisogno, lui a cercare un punto fermo che non troverà, perché non sa guardare dentro sé, oppure perché sente che è troppo tardi e le foto sono già state scattate da altri. Sente, nella solitudine dei suoi anni, la voglia di avere una tana, un rifugio, una donna con cui camminare fino alla fine. E non ha niente di tutto ciò. Potrebbe reagire, ma si è impantanato in colori scuri, fangosi, dai quali non esce nessuna luce.
E così, oggi, fuori il sole splende, per chi ha occhi e orecchi attenti. Per chi vuole esserci c'è uno spettacolo nuovo, stupendo, a cui, valga la pena o no di assistere, dobbiamo comunque e sempre delle scuse. C'è un vento freddo da godere, perché sarà sicuramente l'ultimo e poi verranno giorni di fuoco, giorni indiavolati, rosso sangue, senza tregua. E chi la vuole, la tregua?
20 marzo ore 11,30
Riprendo a leggere, lascio la voglia di te scivolare sul fianco, quello mancino, e mi giro dalla parte opposta. In questa posizione riesco meglio a odorare la maglietta, perché la mano sinistra è libera di muoversi. Muovo anche meglio i pensieri su questo lato, l'altro è più ingannevole, è sognatore, anche se fa comodo, ogni tanto, vedere e sentire ciò che non potrà mai essere.
A pensarci bene tutti questi lati sono una noia infinita. E poi non prendo mai sonno così. Se metto la pancetta al coperto, se copro la mia ombra lasciando solo la schiena e il sedere in balìa del mondo, è come se girassi le spalle al mio destino, al DNA, alle scelte che ho fatto per arrivare fino a qui sbilanciata, con un seno più grosso dell'altro, con più latte, più vita solo da un lato. Solo così riesco a dormire e se qualcuno mi raccontasse qualche storiella, dormirei anche meglio e più a lungo.
Mi accorgo che sto agitando il sangue, le vene e tutto il resto. Così finirò per svegliare O. Lui si muove di un movimento che ricorda gli spostamenti nell'utero. È la lancetta di un orologio. Ora sono i piedi a toccare il mio viso, ora le mani e così via, per tutta la notte e oltre. Avverto il corpo del mio capolavoro libero, libero di occupare il posto che vuole, senza costrizione alcuna. Come si può far dormire un bambino in un letto stretto, in una piccola bara prigione, dove il corpo è costretto a non godere dello spazio necessario? Magari non faccio bene a tenerlo con me, ma in ogni caso i bambini dovrebbero dormire in letti più spaziosi, meno belli, più pratici. Letti bassi, larghi, cosicché la libertà di alzarsi, di andare in bagno, di infilarsi nel lettone dei genitori possa essere una scelta, una libera scelta anche restare nella propria cuccia, senza costrizioni, senza obblighi e regole superate. Si è visto che generazione è salita al cielo con l'obbedienza cieca e le regole. Ecco perché mio figlio non dorme tra due sbarre. Deve fare ciò che vuole del suo corpo, deve gestirlo anche nei sogni, e lo spazio, lo spazio che lo circonda, non deve, non può essere finito. Quando sarà più grande costruirò per lui quel letto, una stanza tutta blu e porte aperte. Uomini liberi non si diventa per caso a quarant'anni con un lavoro sicuro. Si costruisce la libertà, poi si inventa, quando non basta più la razionalità.
Ci sarà sempre una risposta per la sete dei suoi occhi. E ci saranno cascate di acqua pura per lui, mari, oceani, fiumi, torrenti. I laghi no. Sono morti i laghi, anche i più ampi, i più simili al mare aperto. Sono umidi, portatori di malanni. Ci vuole qualcosa che si muova, che sia in continuo mutamento. Che provochi reazioni, che trascini, che crei correnti.
Continuo la lettura. Poi chiudo con un solo gesto della mano le pagine di questo libro. Nella testa scorrono via altre immagini. Non sono dentro questa carta. Ti aspetto, ma credo che sarai altrove, con la testa e con le mani.
26 marzo 1999 ore 12,15 venerdì
Sulla vetta c'è un forte vento. Non mi piace questo posto. Voglio rifugiarmi più sotto, dove c'è il verde, qualche albero per ripararsi dal sole. Quassù sono allo scoperto, nuda, il corpo privo di stracci, i capelli ancora più arruffati, le parole nascoste, le sensazioni sbagliate, quelle che non vuoi dire, quelle che non puoi. E ci sono ferite che guardano in ogni direzione. Non solo orizzontali rispetto al mio corpo in piedi davanti al mare. A volte bruciano, a volte tacciono e cantano. Danno vita, quando non fanno male. Fanno pensare, ti avvicinano al tuo dolore e poi lo allontanano con forza. Bisogna lasciarle fare. Sulla vetta, già che ci sono e che non mi piace, mi diverto a guardare il mondo. Il mio. Il tuo. Quello che mi circonda e mi permette di camminare. Anche scalza va bene. E rido, mi fa ridere tutto se penso che da ridere non c'è niente. Ma se piango chi mi sente? E questo pianto ha bisogno di essere udito, deve raggiungere un corpo, e se non lo può fare, meglio evitare di bagnare i piedi. Ridere. Voglio ridere. Di me, di te, delle ombre che ci seguono, che vanno oltre, che si perdono nel silenzio. Poi tornano. Forse. E se non tornano, peggio per loro. Io non voglio l'essenza delle cose. Voglio la carne. Voglio toccare. Va bene anche il volo, ma poi i miei piedi tornano a sporcarsi sulla terra. Devono farlo.
Voglio prendere e tirare i capelli di mio padre e gridargli in faccia che basta. Avrà tempo di morire, avrà tempo per giacere e essere morto. Non ora. Questo è un tempo in cui si devono cavalcare cavalli nudi, combattere corpo a corpo, penne in testa, frecce e viso aperto nel vento. Quando la morte verrà, non ti lascerà il tempo di lamentarti così, di decidere. In quel momento penserai a tutto meno che alla tua dipartita. Quindi muoviti. I cavalli sono pronti.
31 marzo 1999 ore 11.00
Sei così inafferrabile, così perso nell'infinito delle tue cose. Adoro guardarti, starti a sentire, per ore, ancora. Ma poi ti perdo. Mi perdo.
9 aprile 1999 ore 11.10.
Il tempo fuori mi segue, nell'enormità del cielo scende e copre la mia età. Non ho trentatré anni. No no. Sono mica io quella che invecchia.
Vedi che io ti scrivo anche se non rispondi alle mie lettere? E vorrei farlo ogni giorno, più volte al giorno, ma il tempo mi ha detto che non posso, non devo dedicarmi sempre e solo a te. L'ho anche guardato male, ma niente da fare. Così è.
Ho una stanza enorme, non conosco neppure la fine, dove porto ogni cosa. Rubata s'intende. E quando mi perdo, quando nessun richiamo è così veloce e forte e potente da riportarmi indietro, è sicuro che sono là. Non nel passato, ma in un presente dilaniato dalla storia, quindi tocco, sento vedo soffro. Niente è lasciato ai ricordi. È tutto vivo. Tutto geme, sanguina, tocca le viscere e poi se ne va. Non si sta sempre bene in quel buio conosciuto. Ma devo andarci, perché nessuno possa scoprire quanto riesco a portare via a questo tempo.
10 aprile 1999 ore 12.00
Una lisca. Una lisca di un pesce, per giunta morto, riesce a metterci in crisi. Una piccolissima lisca, innocua, quasi invisibile, quella dell'animale in questione, diviene un'arma tagliente, pericolosa non solo per il palato. Tutto si complica. Lisca di nasello provoca terza guerra mondiale. E se non siamo capaci neppure di sostenere una parola così inutile, figuriamoci il resto. Ma poi, in fondo, di cosa mi meraviglio, o perché continuo a scaldarmi così? Se ti dico di stare attento alle lische del pesce che dai a tuo figlio, basta rispondere: certo che sto attento, stai tranquilla. E invece rispondi che il nasello non ha lische, che è diverso dagli altri pesci e bla bla bla. Sei una noia infinita e mi sono arrabbiata solo per un millesimo di secondo. Mi rallegro che non sei più accanto a me. Devo solo gioire quando accadono queste cose.
Poi oggi sono indistruttibile, perché il mio odore è il risultato di mezza giornata vissuta con TE. Spezzettata, non silenziosa, stancante. La mezza giornata dico. Credi davvero che sia un suono di rimprovero la mia ultima lettera? Dico solo quello che accade dentro me, ti dico quello che si muove nella testa, sotto ai capelli. Quello che ho scritto non è forse ciò che accade? Scopro con i giorni nuovi che mi investono senza troppi riguardi che ho voglia di pace. Pace fuori, nelle parole che dagli altri mi arrivano, dagli occhi, dagli sguardi. La mia confusione è infinita, forse perché a ogni soluzione si aprono finestre su nuovi orizzonti e tutto ricomincia daccapo. Ma va bene. Sono gli altri che mi infastidiscono. Il mio prossimo vorrei che fossi solo tu. Portami via. Va bene anche una piattaforma sull'oceano, va bene tutto se ci sei tu.
Ho voglia di te, di sentirti nel corpo. Di sentire la tua carne dentro la mia. Ho voglia di gridartelo in faccia il mio piacere, senza pensare se qualcuno si sveglia, se qualcuno mi sente. Vorrei tenerti nel mio corpo per ore. Vorrei dormire e risvegliarmi con le mie voglie appiccicate sulla tua faccia, nelle tue mani, sul tuo sesso. A volte trattengo. Trattengo anche il piacere, che allora è solo dolore. Non so perché, ma capita che non riesco a rilassarmi. Nel corpo, nella testa. E tutto rimane incompiuto. Tutto rimane nell'aria divenuta irrespirabile. Ma io ho voglia di godere con te, di impazzire, non voglio trattenere niente, voglio liberare il mio desiderio e l'universo in cui si muove, spazia, si nasconde. Voglio liberarmi dai blocchi di marmo che mi cadono addosso disintegrando la mia carne.
Più tardi ancora
Il tempo bambino. Deve esserlo stato anche lui, non credi? Penso a queste parole, ma non trovo un'immagine che risponda al suono delle lettere. Il tempo bambino deve essere stato terribile.
Il mio stupore di fronte al volo confuso dei pipistrelli mi ha sempre rapita e volentieri mi sono allontanata sulle loro ali. Fin da piccola ho amato queste piccole bestie, brutte sì, ma così particolari da sembrare irreali. Se ci sono, mi dicevo, se sono così orribili, se sembrano topi con le ali, se escono solo la sera, se odiano la luce e volano come farfalle accelerate ci sarà un perché. Vengono dall'inferno, mi convinsi. Sì sì. Qualcuno le libera di sera, perché non si noti granché la loro bruttezza, perché la luce tenue del tramonto non accechi i loro piccoli occhi indifesi. Sono vampiri, succhiano il sangue e cercano nell'aria il sapore giusto per affondare i loro denti. Una notte mia madre trovò la finestra del terrazzo della mia camera aperta. Alle sue domande risposi che volevo trasformarmi in un vampiro e solo lasciando entrare i pipistrelli avrei potuto esaudire il mio desiderio. Lo dicevo piangendo, perché nessuno mi credeva e mi sentivo umiliata. Volevo un tatuaggio indelebile sul collo. Volevo conoscere il sapore del sangue. Volevo volare via e scoprire il loro segreto.
13 e 14 aprile
Se sposto il cielo rimane un buco. Tolgo lentamente l'azzurro che lo riveste, lo sfoglio, ho paura di romperlo. Il gesto è quello che compio quando cambio le lenzuola del mio letto Al suo posto un mantello tutto bianco, luce accecante che impedisce il respiro. Il sogno continua. Avrei dovuto ricomporre quel cielo, mi dico, non tradirlo. Ricomporre. La sensazione è precisa, persino affascinante. Cerco di rimediare, strizzo gli occhi, li riapro e la luce è cambiata. Visto, basta la forza di volontà! E poi ci sono voluti secoli perché il cielo fosse libero di sprigionare questo azzurro. Dopo tante lotte, dopo tanto aspettare e soffrire, perché desistere proprio ora? Continuo a camminare sospesa nel nulla che sostiene la mia vita, crucciata e immersa in questi pensieri. Le case sono troppo alte per me, non arrivo alle finestre, non posso vedere chi c'è dentro. Salto, ma anche il salto è trattenuto. Una mano invisibile tiene il mio corpo senza nessuna fatica. Mi arrendo. La scena cambia ancora. Mi trovo in un bar. Ho i capelli lunghissimi, neri come la notte e sorrido. Qualcuno mi ha detto che non sto bene con i capelli così scuri. Ma se li avessi più chiari cambierebbe qualcosa? Sono sola. Seduta con qualcosa nel bicchiere. C'è un vento forte, i miei capelli sono tentacoli e la gente lo sa. Mi evitano, lasciando pezzi di vetro intorno alla mia sedia. Tiro su le gambe, braccia intorno alle ginocchia e rido. Non ho paura del vetro, né del sangue, né del dolore. Chiudo gli occhi, le mie labbra sorridono, getto la testa indietro insieme al vento e quando il fiato cessa di penetrarmi scopro il corpo di una donna che conosco. L'amica ritrovata. Parliamo di qualcosa, ma non ricordo. So solo che le mie pupille vanno diritte alla sua pancia. Aspetta un bambino. Nella realtà, intendo. Nel sogno dice che lo ha perso. Ci alziamo e andiamo altrove. Cammino accanto a lei e so che ti sto cercando. Ti chiamo nella testa, perché il tuo nome mi piace tutto intero. Arrivi. Una macchina bellissima, qualcuno ti apre la portiera. Scendi e non sei solo. Con te c'è R. Sono felice di vedervi insieme, sento dentro qualcosa che non riesco a collocare in nessun posto, perché le parole che escono dalla testa sono vive e si muovono tremule come mercurio sul palmo della mano. Solo un sollievo. Tu sei tu, fisicamente. Sei bellissimo, vestito di chiaro e lei, al tuo fianco, è più splendida di te. L'ho vista solo un volta, ma non la dimenticherò tanto facilmente. Vado oltre, anche perché sto fumando una sigaretta e ho paura che tu mi veda. Ti sento al sicuro. La stessa sicurezza che mi do e che do a mio figlio, la sera, nel letto, capezzolo nella sua bocca che succhia. Quella femmina ha catturato nel nascere e tramontare di un secondo, per sempre, i miei occhi, incatenandoli a un'immagine di immensa e irriducibile bellezza. Mi dai una foto? La mente lavora, lavora ancora. Adesso sono sul mare. Di nuovo sola. Ho freddo e mi ricordo in quel preciso istante che ho due figli. Ma dove sono adesso? Corro. Forse li ho dimenticati a Gecchiara. Forse. Poi è come se mi cadessero addosso, dal cielo, foto di guerre, aerei, bombe, morte. Corro ancora più velocemente. I miei bambini. Ho dimenticato la mia carne chissà dove. Sulla collina non sento stanchezza e svanisce la paura di averli perduti. Se così fosse, mi dico, basta dire "questa non è la realtà, svegliati" e io sarò nel letto, a casa. Al sicuro. Qualcosa precede il mio passo. Non è la paura, ma la disperazione. Mi volto, vedo lontano il mare che avanza. Dove tocca, dove si lascia rotolare sfinito ed esausto, rimane aria, vuoto, nulla. Mi butto nella vallata e ricordo che in altri sogni spiccavo il volo, per arrivare prima alla meta, proprio dalla mia casetta. Perché non farlo ora? Ci provo. Il mio corpo ricade pesante e impotente. Scendo lungo il pendio, leggera come una gazzella e sempre di corsa. Devo, devo andare, ma non so dove. Il buio è sempre più invadente. Arrivano alle mie orecchie musiche e voci. Catturata da questi suoni mi avvicino a una casa. La riconosco. Ogni volta che salgo o scendo dal monte
che porta alla mia la cerco con gli occhi per perdermi in lei. È una casa infinita. È vecchia, ma bellissima, con una dignità che poche persone possiedono. Nel sogno escono dal suo corpo tante luci. Non la raggiungo, perché so di essere entrata nel proibito di un altro essere umano. Lassù, tra quelle note, tra le maschere, potrei riconoscere un volto meglio che alla luce del sole. Questa prospettiva non mi attira. Mi allontano. Ho la bocca secca, asciutta. Forse è la corsa. Forse il non sapere dove come agire per salvare me stessa dalle acque nere scure affamate di ogni cosa ha prosciugato il mio mare. Il buio dilaga in me. Fuggo nel buio e non posso salvarmi, perché è dentro il mio corpo che si muove la corsa. Due occhi. Ci sono due occhi attaccati al cielo che scendono giù come ragni su un filo invisibile. Non so se quel sottile filo di bava è proprio attaccato al cielo, ma sembrano davvero sospesi nella sua immobilità che bracca il mio viaggio notturno, nella sua densità. Non ricordo il colore, ma so, lo sento, che è un colore che inganna, perché fa sperare. Sono feroci, ma non li temo. Non sono umani. Mi invitano, mi corteggiano, mi girano intorno. È una danza che precede l'atto sessuale. Ho voglia. Una voglia che copre tutta l'oscurità del nulla che mi circonda. Mi abbandono a quel richiamo. E sento nel sogno un corpo caldo, scuro, che mi ama, mi prende, non mi lascia andare. Finalmente. Finalmente mi hai trovata. Quando apro gli occhi alla luce del mattino reale ho l'immagine di me, lupa tra lupi. Il mio branco si riposa. Il mio lupo è seduto e fiero accanto a me. Non dorme. Il maschio non vile vigila sulla sua femmina, non le permette di andarsene, è lì per proteggerla, difenderla, per ingoiare il suo odore, la sua voglia, per sbranare e dilaniare la sua stanchezza. È la sua ombra a riposarsi accanto al mio corpo, esausto e felice, liberato e non trattenuto. Ogni fibra, ogni cellula è mesa a tacere da quella complicità animale, primitiva, essenziale. Il mio nome è Alice. E nel mio Paese delle meraviglie questo è un buon non compleanno.
16 aprile 1999
Eccellente. Eccellente disposizione delle camere. Cazzo vuol dire? Non lo so. Ho aperto gli occhi, stamani, e queste parole mi tormentano senza tregua da quell'istante. Forse è ancora sogno ciò che esce dalla mia bocca.
Se non vuoi rivoluzioni, non puoi desiderare la mia carne che gira, si muove e mai, mai sta ferma. Se non puoi correre, non puoi avermi. Solo chi ha forza nelle gambe del desiderio può stare dietro ai miei capelli nel vento. E il profumo si perde dietro i trentatré anni di rivoluzione intorno alla mia spina dorsale. Lei, la spina, è sempre la stessa. Identico il dolore. Quello di adesso. Il resto si trasforma e muta e invecchia. Il dolore è giovane. Fresco, agile, inesperto, per questo fa così male. La resistenza ad esso si sbriciola come pane e non si ricompone. Rivoluzioni, resistenza. E il mio partigiano, perché non mi porta via? Stamani mi dice che mi desidera. Vuole il mio corpo, la mia pelle, il mio sapore. Io piango, perché non ne posso più del mio corpo. Ci sono avvoltoi ovunque. E mi fa sentire sempre più sola questo desiderio che hanno dentro gli occhi. Cosa sarà mai un pezzo di carne? Io li lascio volare. Non conoscono il mio veleno. Né i miei artigli. Né il colore che cambia e il sorriso che si spegne. Così, all'improvviso, come lo sfiorire di una rosa. Non potete raggiungermi. Non posso raggiungervi.
4 maggio 1999 ore 8.25
Batto la tastiera con la mano destra, mentre l'altra sostiene, tesa, capelli e cervello. In questi giorni, a scuola, ci sono i marocchini spagnoli. Scambi culturali li chiamano. Uno di loro si avvicina e mi regala parole che non capisco. Non è che non capisco niente, ma non sono sicura. Comunque sorrido e gli dico sì. Deve avermi chiesto se ho molto lavoro. Poi mi segue con gli occhi e mi ruba qualcosa che non saprò mai, che non vedrò mai. Chissà cosa vedono i suoi occhi quando mi incontrano. Ha uno sguardo dolcissimo, forse fin troppo. Una bocca carnosa, bella, invitante. E se sorride una fascia di luce esce e entra nei miei occhi come un lampo nella notte. Ha la pelle scura, una bella voce. I suoi anni non voglio saperli, ma non è un ragazzo di scuola, credo piuttosto un accompagnatore. Non sono innamorata. Non sono niente. È questa complicità silenziosa che si muove nell'aria, densa, piena, profumata, che mi fa impazzire. Ti tocchi con gli occhi per un attimo e poi la morte, per sempre.
Voglio andarmene, sai?
Ore 12.30
Ieri mi hai detto che mi ami. Volevo risponderti anch'io, ma ho preferito baciarti e stringerti e sentirti dentro me. Oggi non ci sei. E la tua voce al telefono a poco potrà arrivare. E se fossi io il mare che distrugge tutto ciò che tocca?
5 maggio 1999
Mi dici di chiamarti alle 8.30 e poi non rispondi.
Stamani corre nell'aria una corrente caldissima. Taglia le parole, divide i cuori e separa il bene dal male. Io guardo attentamente, indisturbata. Non può toccarmi perché sono già a pezzi. Ho l'impressione di essere regredita di molti anni. Di ogni cosa chiedo il perché, proprio come i bambini. Non sempre ad alta voce, spesso accade tutto nella testa e allora è pericoloso. Le risposte che mi do non rispondono sempre alla realtà. Comunque sia, gli esseri umani che mi girano intorno non potrebbero in nessun caso rallegrare la mia curiosità. Lavoro da sola, tu non scrivi e il resto del mondo procede senza tregua con un passo che non mi piace per niente.
Addio.
Rinascita.
Rivoluzione.
Riproduzione.
RRRRRRRRRRRR consonante potente, forte, grintosa, e anche un po' capricciosa. Fa venire caldo o freddo. Insomma disturba. Anche il cervello.
8 maggio 1999
Il mese delle rose, dei nuovi profumi, dell'aria dilatata nel tempo, nello spazio, nel corpo. Mi sento aria e terra. Ho radici profonde e non affondo in nessun mare, non ho ali per volare ma volo, non ho cieli per scappare via ma fuggo, quando e come posso. Adesso l'estate non è più una promessa. È una certezza che si discosta dalle voci comuni.
Le promesse umane non hanno potere, le stagioni stravolgono le nostre vite, ci piegano, ci controllano, nei sogni di notte, nei giorni scalzi, nudi di lacrime e di colori. Hanno dignità anche nel ripetersi. Noi no. Ancora sangue. Antico, nuovo, che sgorga per dissetare la nostra sete. Il rifiuto non ha voce né sostanza. Impotenza. Ecco cosa c'è nell'aria. Impotenza che paralizza il mio divenire. Cosa potrò diventare, cosa altro potrò essere? C'è fame nell'aria che respiro. Una fame senza fondo, un richiamo dello stomaco, continuo esasperante. E quando il cibo è lì per riempire quel vuoto ho solo voglia di vomitare. Se ho fame è una fame dalle mille e una bocca. Potessi almeno ricoprire pezzi di terre, potessi almeno sfamare qualcuno con il rigetto del mio fagotto interiore. Potessi.
C'è un pianto nel vento. Non uno ma cento. E ancora mi sbaglio. Non sono cento e uno, è comunque un oceano. Anzi due. È una lacrima che allaga il pianeta. Quegli occhi li ho già visti. Avevamo già giudicato il passato. Avevamo già stabilito le colpe. Il potere. La voce che lo accoglie.
E poi ci siamo noi. Una massa assolutamente liscia e vuota. Cosparsa di olio. Tutto scivola, niente fa presa. Niente permane. L'abitudine delle immagini proposte fino all'esaurimento. Ci sono angoli scuri che non si fanno vedere. Io avverto solo l'odore e temo la sostanza di cui sono composti.
Si continua a parlare, il giornale, la TV, l'indignazione. Ma poi il nulla inghiotte i nostri occhi e i loro gesti. Niente. Non stiamo facendo niente per fermare il terrore. Tolto il superfluo, fermate le macchine, i lavori, niente giornali da leggere, niente più televisione, cosa rimane? Perché per noi la guerra è questa. È immagine, è parola, è fotografia. E piano piano, ci stiamo abituando anche a questa. Ai profughi, ai bambini, alla morte ingiusta e alle bombe intelligenti. E odiamo e giudichiamo l'assuefazione di un drogato che non riesce a rinunciare all'unica cosa che lo tiene in vita in questa vita di merda. Rimanere vivi morendo. Ti pare poco?
Sono le dodici quasi e trenta del dieci maggio 1999
La tua voce mi ha presa di sorpresa. Dovevo sentirti. Era assolutamente necessario. Stamani sono in sciopero. Giuro che non ho fatto niente al lavoro. Ho letto, mentre gli altri che girano nella stanza sono bravi e diligenti e hanno tutti qualcosa da fare.
A tratti rido se penso al volto di O. ieri sera quando si è incantato su una parola e non riusciva a dire altro. Rido se penso a te che prendi le gocce che non fanno niente, rido per nascondere le altre cose, quelle che fanno male.
Ieri sera sono stata una stupida. Avrei dovuto stringermi a te e dirti che non riuscivo a dormire, ma ti sapevo stanco e ho preferito cambiare letto. Ero così agitata! Forse per la voglia di te, forse per le parole che non trovo, per quelle che lascio archiviate dentro me. Me la fai o no questa dichiarazione d'amore?
La tua lettera è ancora intatta. Dopo, a casa, ti aprirò dolcemente e avrò la sensazione di averti vicino. Che poi non è per niente una sensazione. Tu ci sei.
11 maggio 1999
Ho pianto. Per la gioia quando ti ho letto. Per la tristezza quando i miei occhi si perdono e si strappano dalla mia faccia. Sono staccata dal resto del mondo. A lavoro e un po' anche a casa. O. mi trascina nella vita e non mi dà altra scelta. Ma quei pensieri, quei pensieri di morte, a tratti, fanno sì che mi disperda come un branco di cavalli impazziti. E poi dovevi venire da me punto e basta. Senza fare troppi discorsi. Senza aspettare nel silenzio.
Ho voglia di sentire la tua voce.
12.00
scrivo per non perdermi.
14 maggio 1999
33 anni. Tempesta. Non per il compleanno, ma per il resto che sopravviverà a lui. Lui, almeno, torna tra un anno. Sono piena. È tanto che lo dico. La pazienza è una mia alleata. E come dovrei chiamare ciò che fino ad oggi mi ha tenuto in vita? Amore? Desiderio?
La mia vita peggiorerà. È per questo che sono nata. Che mi hanno fatto nascere. Per soffrire, per non avere scelta. Dio e i suoi complici li immagino come nazisti invisibili che provano la resistenza di ogni essere. In silenzio quei maledetti consumano vite, delitti, oscenità. È loro la colpa non c'è dubbio. Vanno stanati. Bombardati. Eliminati.
Poi chissà.
L'alleanza. Abbiamo firmato l'alleanza. Non ci possiamo separare? Come due cretini che si sono sposati e poi non lo vogliono più. Si sono promessi il domani ma il domani non si promette a nessuno.
18 maggio 1999 ore 0.24
Pensavo di avere tanto da dire e invece.
Sono nervosa, poca fame, poche parole, zero persone a cui far assaggiare il sapore della pelle. A parte la prole. Oggi potrebbe essere intitolato "Giornata del topo".
Ho bisogno di un momento tutto mio, di vedere i miei pensieri scritti sopra un foglio, anzi, vederli e poterli anche toccare sopra questo schermo. I miei trentatré anni si fanno sentire. Sono mica uno scherzo? Quando ne avevo sedici, perché per me esiste il 5 e il 16 il resto è nulla, avevo terrore dei trenta anni. Sono tanti, non troppi, ma tanti e secondo in quale mare di merda ti trovi si capisce un po' tutto della tua vita: si capisce ciò che è stato e ciò che sarà. Devo solo disabituarmi agli altri, non cercare niente dietro al rumore della gente, negli occhi affamati, nelle mani attente e sicure di gesti incompresi. Tanto la fine arriva lo stesso. Tutto sta a decidere se si vuole andarle incontro. Perché a volte non vorrei altro. Farla finita.
Quando mi porteranno via O. cosa ne sarà di me? Perché verranno giorni in cui suo padre lo vorrà con sé. E io già pregusto la disperazione.
Gli occhi del mio cucciolo adorato sono meravigliosi, vivi, potenti, diabolici, attenti, dolcissimi. Il mio dolcissimo amore.
22 maggio 1999 ore 11,15
I rumori sono forti stamani. Registro tutto a toni alti e sono investita da sensazioni infinite che si accavallano, si rincorrono. Sono sempre le stesse cose. Quelle che mi urtano. E sento di non possedere più la spensieratezza, la voglia di godere. Ti sento lontano, nel senso che non riesco a raggiungerti. Forse dipende solo da me. Forse. E forse deve essere così. Manca l'entusiasmo nei miei respiri profondi. Manca una parte importante. Non riesco a rinascere. A stare bene, rilassata, felice. Arrivo alla sera e sento che il mio mondo è sempre più piccolo. Non posso gioire solo per gli occhi di mio figlio. Non devo. Ma il resto si muove troppo in fretta. Quando sono in un posto è già sparito, quando si muove un sentimento non c'è nessuno ad afferrarlo. E quando canto la musica è altrove. Cosa rimane di me tolto il latte? L'altalena sta strascicando la mia presenza. Ci sono, non ci sono, sto per esserci e poi per non esserci. Gli occhi si chiudono. Le finestre le apro solo la sera, quando la luce è più morbida e ci posso saltare sopra senza farmi male. Quando O. dorme, quando il silenzio si lascia toccare, piango e per non starmi troppo a prendere sul serio, per non ascoltarmi me ne vado a letto. Cerco di sognare, ma un sogno conscio, vivente, voluto. Mia madre torna a casa. Lei è rimasta come allora, bella, ancora giovane. E quando ci tocca, quando ci stringe forte rimane incredula perché noi non siamo più gli stessi. È felice comunque, la vedo, posso sentire le sue espressioni sulla pelle senza sforzarmi più di tanto. Sei nonna adesso, lo sai? Ho fatto due figli e disfatto il letto tante volte. Adesso, mi chiedi? Adesso non lo so. Sono grande, adesso. Sono responsabile. Sono una persona seria che non ride quasi mai. Poi mi alzo perché, dico io, non ho altro a cui pensare? Mi sono rassegnata. In alcuni frammenti di tempo di pensiero di carne lo sono davvero. Non motivata. Per paura, per sfiducia, per questione di sangue. Leggo fino a che anche la parola diventerà un nemico da combattere. E tu non chiami.
Buonanotte.
24 maggio 1999
Sono andata un attimo in cielo a disperdere le nuvole. Ho preso un bastone e le ho scacciate. Tutte. Ho fatto una strage, in verità, e un poco me ne dispiace. Ma almeno il male alla testa se ne è andato. Adesso il cielo è liberato dalla presenza di quelle stupide pecorelle impalpabili, leggere, silenziose. Posso continuare il mio lavoro.
Il mio lavoro consiste, oggi, nel darmi parole buone, trovare ciò che di bello si muove intorno a me. E ce ne sono di cose. Di colori. Di persone. Di voci. È il sottofondo musicale che non mi piace. Non so nemmeno perché sto scrivendo. Scrivo per non perdermi, è vero. Ma quando smetto di farlo sono ancora più confusa. E mi sento noiosa, ripetitiva, bambina.
Senti bene. Non ce l'ho con te, è solo che non capisco più la mia vita quotidiana. Ho bisogno di toccare. Di occhi attenti e pazienti, di un'ombra che c'è e non c'è e che, a volte, si gira di là per farmi muovere come voglio senza infastidirmi, senza per questo andarsene. Ho voglia di fare progetti. Progetti quotidiani. Minuto per minuto decidere per il minuto successivo. Ho bisogno di una culla. E di fare l'amore bene perché così non è cosa. Sono insoddisfatta di tutto o quasi. Non rido, ultimamente, se non con mia sorella.
C'è una energia ambigua che si muove tra noi. Se io non ho voglia di parlare tu sei sicuramente stanco, troppo stanco per sciogliere i miei nodi, i miei fiocchi di neve. Ognuno di noi rimane al proprio posto. Solo. Mi sento a disagio, mi sento stupida, mi sento non libera di muovermi come voglio. Sembra così faticoso il cammino in certi frammenti di alcune giornate. Sembra che non ci veniamo incontro.
E io trattengo tutto e soffro e non riesco a godere di niente. Neppure di un bacio.
E te lo scrivo perché, come tu dici, il tempo per parlare di certe cose, non c'è.
Ore 12.01
Stanno passando giorni. Io li guardo dalla finestra, più o meno divertita. Passano, ma la sensazione che ho è di non saperli afferrare per bene. È solo una sensazione? Perché magari la vita è così che va vissuta, è così che passa, tra le incertezze, i dubbi, le lacrime e gli istanti di felicità profonda, scura, buia a cui non partecipa quasi nessuno. È pericoloso condividere sorrisi. Sentire la complicità, toccarla e sistemarla negli occhi del compagno che insieme a te decide di affacciarsi a quella finestra. Mi senti diversa? Sono staccata, lontana o cosa? Tu sai perché sono così? Tu capisci che a volte preferisco perdermi da sola che camminare orgogliosa col tuo passo? Sai perché tutto questo accade? Perché i dubbi, le paure, le parole non capite? È inevitabile, dopotutto. E dopo-tutto ci siamo noi.
Mi sento sola. Triste. E alla gioia dei miei occhi tu sei assente perché l'euforia appare d'un tratto, per la strada, mentre vado a comprare il pane, o mentre gioco con O. o con i miei capelli in un giorno qualsiasi perso nel vento o ritrovato in gesto, in una smorfia. Ma forse è solo mio il problema. Sfoglio i miei giorni e non mi piacciono. Quello che voglio non esiste. O quello che voglio lo voglio solo perché irraggiungibile?
27 maggio ore 11.00
Rileggo e decido che tutto ciò che penso e scrivo è comico. Oggi mi fa ridere. E neanche poco.
L'euforia di cui sopra non mi lascia e il merito è anche tuo. Dovrei vederti ogni giorno. Ogni giorno sentire il tuo odore, riconoscerlo, gustarlo, viverlo. Voglio vederti parlare, tacere, leggere, scrivere. Voglio trovarti quando ti cerco e lasciarmi addomesticare dalle tue mani. Sempre. Non per sempre ma sempre in ogni istante di ogni giorno, di ogni notte. Il tempo che non ci abita, che non ci veste, lasciarlo fuori, altrove, come un estraneo di cui non immaginiamo neppure l'esistenza. Adesso sono le 11.15 fremo per arrivare alle due. So che per quell'ora respireremo la stessa aria e vestiremo un odore nostro. E per oggi voglio fermarmi qui senza andare in altri luoghi, in questo piccolo pianeta e amare il sapore, la scia del nostro esserci.
28 maggio 1999 ore 11.30
Dopotutto non è mica necessario procedere sulla stessa strada. Ci sono troppi ostacoli. E le strade alternative le lascio agli altri. Qui c'è proprio da cambiare direzione, muoversi verso altre mete, conoscere altri cieli. Quando la porta si chiude cala il sipario. Rimugino e penso e dormo e mangio male. Il cibo diventa il mezzo per esprimere il disagio interiore ma sono vecchia, per favore, fate tacere quella bambina.
D'altra parte non può tacere. Lei mi avverte, bussa alla porta e mi fa sentire il vento, il vento freddo che gira nei dintorni. L'euforia è l'altra faccia della depressione. Ancora l'altalena.
Ho voglia di comunicare, di parlare, di ascoltare. E mi accorgo che con te mi riesce bene solo ascoltare. Poco importa sapere o riconoscere dove risiede la ragione di tutto ciò. A me importa solo che accade e che sia io a manifestare il disagio. Ma non credo che tu non avverta quanto ti scrivo.
Ma tu non senti questa divisione tra noi due? Non vedi che non c'è mai quel tempo, e quel giorno è lontano da non poterlo neppure pensare? Non sono tranquilla. Non sono felice. E mi sento sola. L'ho già detto e scritto. Mi mancano le piccole cose. Quelle di ogni giorno. Tu le chiami abitudini per cui non si deve blablabla? Io me ne frego. Sono le piccole cose che sorreggono la vita. E se non sono forti loro nessuna palafitta può essere innalzata. Al primo soffio di maestrale tutto crollerebbe.
Adesso scrivo e scrivo per me e mi dico che non ti darò queste parole per permettermi di dire tutto. Ho l'immagine di me che grida queste cose con il mondo tra le mani e tutti zitti ad ascoltare. Muti. Grido e piango, perché non è mica uno scherzo questa angoscia che vive in me. E nessuno mi crede. Nessuno si ferma. E tra noi si creano piccole microscopiche crepe che tali resteranno, per sempre. Se ti dico che ho bisogno di te tu rispondi anch'io. Se ti dico che sto male tu dici anch'io. Se ti dico che non mi parli tu rispondi neanche tu. Dove cazzo vogliamo andare?
Io ho l'immagine non fisica, tutta mia, di qualcuno che incoraggia le mie parole, di un volto amico che c'è punto e basta. Voglio le piccole cose. Voglio essere carezzata quando non parlo e che qualcuno mi aiuti a vomitare se necessario.
Ieri. Arrivi. Si mangia. Poi leggi. Poi mi metto a fare due cose in casa, quelle che fanno le donne vere, poi ancora leggi, poi il bambino, poi il mare, silenzio, mare e silenzio. Bambino. Mi alzo gioco con lui che è mio, che ho voluto. Tu leggi. Poi si torna a casa. Sto poco bene per la stanchezza. Ma che importa? Bambino noioso perché ha sonno. Tu sei nella stanza blu a scrivere al computer. Certo, dovevi farlo. Ma in quel momento avrei preferito vederti fare l'orco a quel bambino, scoprirti in salotto con un sorriso, come dire, stai tranquilla, ci sono io. Poi il bambino precipita nel sonno. Io vorrei seguirlo dal momento che ho dormito solo cinque ore e comunque tu devi andare a letto presto - così avevi detto il pomeriggio - per essere riposato e fresco stamani. Quando il bambino viene trasferito a letto ci mettiamo alla tv a vedere un po' di guerra, di morti, di uranio. Ciliegina sulla torta tanto che vado in cucina e ne mangio almeno cinque col nocciolo e altrettante senza. Ho sonno ma i miei occhi non sono ancora pronti. Tu mi tocchi mentre guardi la tv. Io non so cosa sento. Sono così stanca... e poi le mie orecchie sentono ancora parole di morte, di guerra, di violenza. È bello godere o rilassarsi in queste condizioni. Tu fai tutto con notevole freddezza e distacco. E se così non fosse è così che io ti ho avvertito. E allora che fare? Andiamo a letto. Oggi non ci sei. Domani è sabato e poi domenica. Tu cosa farai? E io? Lo vedi che non va bene? Non va bene per niente. Nelle piccole cose non ci troviamo. Se poi penso che quando starai meglio con la testa mangerai una mela al giorno, be', allora, in quell'istante avrei voglia di sparire. Non hai bisogno di me. Sono un ostacolo per la tua testa, adesso, in questo pezzo di vita che sto vivendo, confusa per i soldi, per mio padre che dà poi rinfaccia, per una vita che comunque è spezzettata, frammentata. E anch'io sono stanca di sentirmi così, di convivere con la sensazione di essere inadeguata a vivere certi legami. Così, alla fine, mi chiudo nel guscio. A volte leggo quello che scrivi per me, per altri. E mi viene voglia di capire, a volte ti vorrei chiedere chi c'è dietro una parola, ma poi sto zitta. Mi sento a disagio, non so cosa pensi, non lo dici mai. E vorrei che fossi tu a farlo, liberamente, come facevi mesi fa. Hai scelto il silenzio stampa e taci su eventi e persone. E io non so più dove orientarmi, quale vento seguire, quale odore. Tu sei abituato diversamente. Lo so. Io son cresciuta nella melma. A volte mi ci hanno impiantato. Tu no. Dici che eri abituato bene. E allora perché non mi aiuti a ripulirmi? Certo, devo chiederti io di farlo. Ma se leggi tra tutte quelle stupide parole che ti ho scritto troverai diverse volte lo stesso nome, le stesse cose che ti chiedo adesso. E poi basta. Mi sento ridicola. Chiedere chiedere chiedere. Basta anche scrivere e pensare. Piccole cose.
Mi chiedi che c'è e io ti dico niente e dietro il niente il mare. È normale se a volte mi manca D.? Mi mancano certi momenti di quel miserabile mondo che ci eravamo creati o che io pensavo di aver creato. Ma io - solo io - sono quella che sceglie e male. Quindi sono stata una cretina a credere a certe cose, a credere a quel piccolo focherello che scaldava le mie giornate. Quando ero stanca mi dicevo vai a raccogliere un po' di legna e tutto tornerà come prima. Perché prima c'era qualcosa che ci univa! Ci sarà stato un frammento, un sassolino, un pezzo di pane che ci univa!
È questa lunga abitudine al silenzio che mi fa tacere e soffrire. È il silenzio della casa, il rumore dei ricordi, quello che potevamo essere e che non siamo stati che mi uccide le fibre, i muscoli, il pensare positivo. A te capita mai? Ci pensi mai? E se ci pensi cosa sono io per te in quell'istante? Un sorriso, una lacrima, una notte senza luna, o una luna senza cielo? Stai bene dentro quando pensi ai tuoi vecchi odori, a quei colori, hai finalmente trovato un posto dentro te per collocare un nome, uno sguardo, un dolore? Un posto dove niente si scolora, dove niente viene dimenticato. Un posto neutro, non acido, che non fa male quando le nostre mani interiori lo cercano.
Ma non rispondermi. Se mai ti manderò queste righe non rispondere alle mie domande. Non fare niente. Tanto strappo tutto. Lettere, parole, foto. Strappo i miei occhi, il mio cuore cazzuto, i miei sentimenti confusi, birichini. Le mie parole non le vuoi più. Una volta mi pregavi di scriverti ora cosa è cambiato? Forse non so fare più neanche a scrivere. Oppure scrivo cose che ti annoiano. Puoi sempre bruciarle. Tutte, quando vuoi. Anche le foto. Salva almeno il cane.
2 giugno 1999 ore 12.10
Accade oggi per la prima volta da un anno. Mi dovrò abituare anche a questo? Mi chiedo perché. Mi dico che no, da te no. Ma non voglio risposte. Non ne voglio più. Né domande.
Abisso silenzio.
Non c'è posto per i miei capelli. Né per gli abiti che indosso. E i piedi sono stanchi. Nessuno li massaggia. E poi per quanto? È meglio che me ne vada. Subito. All'istante.
Pagherò.
Pagherò qualcuno perché mi ami come mi pare.
11 giugno
La festa è svanita. Cenerentola non ha trovato un cazzo di principe. Lo avrei preso anche nero, o a pallini bianchi e rossi, ma niente. Ero a disagio. Con me intendo.
Esco da casa, D. mi dice che sono troppo bella e non vuole lasciarmi andare. Gli dico che è il caso di farla finita e che vado dove mi pare. Sono nel giardino. La festa è già iniziata, i ragazzi riempiono il piazzale. È una marea di anni ancora troppo giovani quella che si muove intorno, e mi fa piangere. Mi appoggio al muro, non sto bene in piedi. Non ho O. con me, nessuno a cui rendere conto. Posso stare seria, o ridere, o pensare, o piangere e nessuno mi chiederà perché. Quando passo nel mezzo del giardino voci maschili chiamano il mio nome ma non me. Sorrido senza fermarmi.
Ripenso a poco prima, a casa. Acqua sul fuoco, tavola apparecchiata, pesce cucinato. Bevo un sorso di vino bianco perché mi va. D. gioca sul divano con O. Io vado avanti e indietro. A disagio. Poi mi gira la testa, perdo il controllo di me, del corpo, della mente. D. corre in bagno da me e gli dico se muoio pensa a O. Pensa bene a O. Lui sorride. Poi vomito non so cosa. Il mio corpo sta mangiando di nascosto. Non so cosa abbia sputato. Sto male. In piedi cammino piegata in avanti. Le mani tremano. Ma devo andare. Devo uscire. L'ho promesso. Devo andare alla festa.
Nella sera, spunta dal buio del giardino una voce a me nota. Gli occhi mi fissano neri e potenti, belli, giovani, discreti, senza essere invadenti. Mi dice: ti ho cercato tutta la sera, ma dov'eri? Io rimango stupita e non rispondo. Una smorfia sarà molto più eloquente. Poi si avvicina, mi dice che vuole offrirmi qualcosa da bere. Bene. Accetto. Sarà meglio di niente. Meglio che fare la tarantola sul muro. È carino, educato, dolce. Perché dovrei essere scortese con lui? Non siamo soli, con noi c'è un altro giovane che già conoscevo. Tornati nel cuore della festa ci salutiamo. Mi dice ancora che verrà a trovarmi al mare. Ciao.
Il suo corpo è bello. Forte, robusto, pelle scura, capelli neri. Sono belli gli anni suoi. La sua gioia, la sua curiosità nei miei confronti. Mi fa sorridere. E il suo sorriso scalda il gelo che ho dentro agli occhi. Ma Cenerentola, si sa, deve tornare a casa. Ha un prezzo la libertà ed è bella ed è magica proprio perché limitata. Sa che deve finire e gode l'attimo. Lo mangia, lo mastica, lo assapora piano e poi forte poi ancora e poi basta.
Punto e a capo. Ancora. Ogni anno.
Oggi è un giorno anoressico. Stanco al suo sorgere, il sole, adesso che sono le dieci e mezza non si fa vedere. Ore che si trascinano all'infinito, senza davvero esserci. Aria fiacca, né troppo calda, né umida, né secca e frizzante. Insomma, se stai fermo e buono e zitto forse non sudi. Il cielo vomita fasci di luce di un grigio accecante. Poi si mangia qualche nuvola. Poi di nuovo cerca il vuoto, la trasparenza, la leggerezza. Ed è davvero magro il cielo, oggi. Magro e triste, lo sento, lo vedo. Ci guardiamo, sentiamo nell'aria la complicità della nostra disperazione. O della nostra folle euforia. Il che è lo stesso. Le vesti che si muovono lassù sono ampie, protettive, nascondono qualcosa, qualcuno...
Mi tiro su i pantaloni perché sono larghi al punto vita. Mentre mi affatico in questo gesto muovo il mio corpo al ritmo di una danza sensuale. Sono nel corridoio della scuola, e non mi accorgo che qualcuno mi sta spiando. Gli occhi si incrociano. Io rido e lui pure.
Cammino cammino cammino. Per la scuola silenziosa. Per le aule vuote. In presidenza dove il preside mi chiama zingara e mi invita a sedermi. A rilassarmi. Ma non posso. È tardi, è tardi e devo andare.
Forse se, come promesso, verrà L. a trovarmi, oggi potrò godere delle sue mani sul mio corpo, sui piedi soprattutto. I suoi massaggi sono un abbandono totale.
Poi leggo e sento che vorrei essere anch'io una prostituta. A pagamento si intende.
Poi mi perdo e ti chiamo ma tu non ci sei.
17 giugno 1999 ore14.38
sto cercando una nota per iniziare.
Il ballo.
Il canto.
Un sorriso.
Una lacrima.
Silenzio, polvere, vento.
Tutto è musica. Danza leggera, farfalla bianca, infanzia, sogno, deserto.
Mi accorgo che non riesco a rilassarmi. Sono sempre in tensione. Allora cerco il tuo volto, gli occhi belli, scuri, allungati per vedere di più, taglio orizzontale che racchiude la passione, la vita, l'amore che hai e che sai dare. Nel vento cerco il tuo odore, il corpo, tutto. E rivedo le espressioni, la voce sempre allegra, dolce, materna, scherzosa, protettiva.
Ti ripesco così, tale e quale a tutti gli anni che hanno preceduto il nostro incontro ultimo. Hai un'energia positiva, masticabile, dolce, penetrante, indimenticabile. E quando tocchi il mio corpo, quando ti sento, in quell'istante di vita, dentro quel miraggio, sono a casa. Quella mia, si intende, quella vera. Quella che non ha bisogno di cure, né di luci, né di ombre, né di niente. È perfetta così.
No. Non è una lettera d'amore. Non l'amore che possiamo anche fare. Non quello. Tu sei qualcosa di eterno. Sovrasti la mia vita. Mi dai calore e carezzi la mia rabbia. Non sei un amico. Non sei un amante. Non sei né carne né pesce. Tu sei Mary. Mary per sempre.
23 giugno 8.45
I ragazzi sono fuori dalla scuola, nel giardino, seduti sugli scalini davanti al portone. Una moltitudine di colori si confonde con le voci, con gli sguardi distratti, secchi, assenti.
Arrivo a scuola e trovo questo quadro parlante, vivo, mobile. I suoni sono familiari, già esplorati dai meandri della mente. Vissuti in prima persona e rivissuti attraverso altri tante e tante volte. Li guardo. Ma non li vedo e cerco tra quei sapori volti a me cari. Mi cerco e mi dico che no, in nessuna di quelle piccole donne rivedo i miei anni giovani.
Stamani sono piena. Piena di cibo finito chissà dove. Vorrei cercarlo, prenderlo con la mano, gettarlo via. Ci sono attimi infiniti di panico, di terrore scuro, incontrollabile. Ed è in questo luogo che tremo, che ho paura di me. Attimi in cui devo, devo mangiare tutto, fino a scoppiare.
Ho fame ma non è fame. È voglia di non sentire quel vuoto, voglia di riempirlo per poi svuotarlo, per non abituarsi a nessun tipo di consolazione. Poi guardo gli occhi dei miei figli. Mi sento in colpa, dove cazzo vuoi arrivare piccola intrigante?
Mi calmo e mi addormento sul divano. O. sta per cadere, lo prendo, ma non ho la forza di tirarlo su subito e per bene. Nel ricordo ho la sensazione di essere stata ore a cercare di rimetterlo al suo posto. Ti chiamo, ma tu stai già parlando e allora mangio ancora qualcosa per poi andare a letto con O., telefono e libro. Prima di cadere nel precipizio di un sonno sordo, muto, cieco, cerco ancora la tua voce.
Niente.
Mi addormento ancora e definitivamente fino alla 6.25 di questa bellissima mattina di giugno. Sono le nove e da quando ho aperto gli occhi non faccio altro che pensare al cibo. Penso a te, a noi, penso che ti amo davvero e non ho scelta. Provo ad allontanarti dalla vita mia, provo mentalmente, a tratti. Provo perché è tutto in salita l'istante che mi racchiude adesso, perché tu sei così meraviglioso e infinito e grande e dolce che ti odio, ti vorrei mangiare, crudo con un po' di limone per darti il bruciore allo stomaco, e comincerei con il partigiano, che non mi porta via però non se ne va, poi la lingua, poi il colore degli occhi, i capelli, le mani piccole e i piedi che non ti danno equilibrio. Il cervello è buono fritto. Mia madre me lo dava sempre quando ero piccola piccola. Ora non lo mangio più. Il tuo credo che lo metterei sotto spirito. Insieme all'ombelico di mio figlio.
Poi scuoto la testa, rido, e sento di amarti a partire dal dito più piccolo e introverso dei miei piedi, quello in decomposizione. Tutto inizia lì, poi l'amore, il desiderio, la voglia che ho della tua bocca che ride se ne vanno a cavallo di una retta, all'infinito che tende la mia vita a te. Come farei senza l'ombra della tua cervicale? Come farei senza il tuo mare, movimento che tiene sveglio in ogni istante, anche nel sonno, anche di notte, anche in una lacrima?
Ti amo, per sempre e ancora nell'istante che corre via e si perde su quella retta.
Quindi... ti amo all'infinito.
Ciao.
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