ASSOLUTAMENTE SFUOCATI
Link di Bologna
14 gennaio 1998
Avrei voluto parlarvi di resistenza al presente. Di comunicare che fa male e di pensare che è chiamare. Di rivoluzione
intesa come necessità astronomica, imperativo etico, esigenza estetica. Di poesia come passione precisa. Di immagine come
utopia del desiderio. Di politica come spinoziana arte degli incontri e di gentilezza come arte della guerra taoista. Di
padri del deserto come esempio di materialismo estremo. Di ascolto e attenzione. Di economia ristretta e generale. Di
anarchia elagabalica: rigore e dissipazione, invocazione del caos e gusto del ritmo, carattere distruttivo e generosità
del sole. Avrei voluto parlarvi del molteplice in cui si declina l'ossessione del vivere, la distanza creativa del
contemplare, la paura di essere e di fare, lo stupore delle parole. Avrei voluto un corpo invece di un verbo su questa
carta e dentro la bocca. Avrei voluto il vento come carne disumana della voce. Complicità di polvere e silenzio. Notti
infinite passate a ridere ubriachi. Fuochi fatui degli sguardi. Avrei voluto, ma c'è sempre un ma che ti fotte...
Ma diffido della potenza dell'astrazione che mi ha formato e deformato; della retorica che seduce e dello spettacolo che
incanta; di me stesso che a trent'anni son soltanto idiota, racà, testa vuota, nella stanza del mondo che mi dà vertigine
come un ballo tondo. Ma diffido della cultura come eterna promessa, introduzione al libro della vita, prologo esangue alla
guerra, parodia inconsapevole del gioco. Ma mi annoia la cornice implicita di questo testo che sto scrivendo: presentazione,
fatìca fàtica, progetto. E se mi concedo del tempo per pensare, se fingo di aver tempo per evitare i malintesi, se tento e
provo un controcanto maldestro all'impreparazione di fondo, allora non penso più, panico, mi confondo, allora reagisco e
imito, allora assumo una cadenza che è forma conforme, allora mi salva e mi distrae solo il corpo bestia che si ritrae,
arte della fuga di animale anomalo e asociale. Lo ammetto, è una politica ben singolare... Circondato dall'esercito dei
ma, posso dare ancora fiato al fiato che mi resta inventandomi la seconda parte di questo foglio, quasi fosse una lettera
destinata a un volto e a un nome, scrittura ad personam, senza altra intenzione che deviare dall'occasione pubblica e
generale.
Tarda mattina, corsia d'ospedale. Aspetto. Neon bianchi e caldo di scirocco invernale. Altri aspettano. Sembriamo tutti
agitati o malinconici o rassegnati. Massaggio prostatico. Spremitura. Tutto il corpo e il fare e il creare, nient'altro
segreto che secrezione: cacare pisciare eiaculare spirare aria parola starnutire sputare sudare. Imbocco l'autostrada,
veloce, acceleratore schiacciato, fretta, volgare dire cazzo 'fanculo ai lenti che mi ostacolano la corsa, lo studio che
mi chiude, ma forse m'aspetta... e me la rido vedendo la faccia tesa nello specchietto, rido automobile e già distante,
studio ospedale dove si affanna il mio desiderio, asfalto bagnato sotto e cielo grigio sopra, verso lo studio dove mi
hanno preparato la cassetta, i video, quelli che porto a Bologna, domani, "La sesta ora" e che altro, suoni e figure di
chi più non m'appartiene. È lucifero il sole che brucia anche quando non si vede. E la minuscola è d'obbligo. La minuscola
di lucifero, intendo. Niente sostanza, solo accidenti. Fuori dei modi è impossibile. O forse è smodato. In delirio sarai
tu, scriveva qualcuno. T'abbraccio, come si dice in lingua cortese, al telefono. T'abbraccio. Carezza lontana di traccia
vocale. Se non mi prendo sul serio è perché mi ha fatto male... Comunque insisto. Non so se resisto, ma insisto. Un tempo
credevo d'essere sempre al termine del mio viaggio notturno e ripetevo: non si ha più molta musica in sé per far danzar la
vita, ecco qua. Adesso ripeto con qualcun altro: bisogna saper organizzare la sfiducia. Non è razionalità. O forse sì:
irragionevole razionalità della musica che ti abita, che torna ad abitarti, ostinata, come basso continuo, come concerto
lucido e barocco. Non ti chiedi più perché: se son rose sfioriranno. Non è vero che non lo chiedi, ma lasci che la domanda
aleggi su di te come un compagno affettuoso e non più come il verme della diffidenza, come l'abnorme malattia del
disincanto. Idiota è insistere malgrado. Nebulosa è un corpo stellare nel cielo, è la fotografia della distanza: spazio e
tempo su fondo nero. E il rumore non è che il mare quando spalanco la bocca, quando respiro. Vedere e toccare. Se
sembriamo sfuocati è un problema di giudizio, la piccola morale rassicurante. Forse è per sfuggire al controllo. O perché
stamattina siamo usciti di casa, così, senza definirci meglio, ancora storditi da un sogno brulicante d'insospettabile
vita. A che pro pettinarsi? Comunicare fa ridere. Un altro abbraccio a te che mi leggi, a te che mi ascolti.
Federico Nobili
Ceserano, martedì 13 gennaio 1998
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