LA PAROLA BUIO
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Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita. Bambino Bocca Big Bang Bere Baciare Ballare |
a Claudia |
...orizzontale mi fa pensare... se sto sdraiato è tutta un'altra cosa...
mi rilasso, mi abbandono, mi faccio cullare dallo spazio e dal tempo, ascolto
il mio sangue e i miei pensieri come onde di un altro mare, li vedo quasi
arrivare da lontano, come dicevano i padri del deserto, i pensieri che arrivano
da lontano, i tuoi stessi pensieri che arrivano da lontano... orizzontale mi fa
pensare... lo sguardo rivolto al cielo, alle nuvole, alle stelle, al cosmo:
occhio verticale, corpo orizzontale, astronomia, la parola che ingoia tutte le
parole, la parola che fa buio di tutte le parole... come un soffio sulla fiamma
di una candela, e la fiamma sei tu, e anche il soffio sei tu, sei la candela
che si consuma, la fiamma che parla, il soffio del buio che interrompe le
parole... orizzontale mi fa pensare... ma se mi alzo, se non sto più orizzontale,
se non parlo più da solo, con me stesso, fino a far scomparire me stesso nel
pozzo del cielo, allora sono di nuovo catturato dalla vanità o dalla necessità
di comunicare, dalla fatica o dalla noia di dover spiegare, mi devo far capire,
per sopravvivere e mangiare, per non stare sempre a guerreggiare, e non mi
lascio più cullare dalle onde senza senso delle parole. Insomma, passo da un
buio a un altro buio, da un malinteso solitario a un malinteso collettivo.
Prima, sdraiato, c'è il buio della parola cantilena, del ritornello ripetuto a
se stessi, una preghiera, una piccola follia, una bocca che balbetta. Poi, in
piedi, c'è il buio dell'attrito delle parole scambiate, della loro schiuma di
malinteso, delle loro molteplici intenzioni, aggressive o dispersive. Un doppio
buio, una doppia luce, un'altalena che mi schianta e mi piace... orizzontale mi
fa pensare... perché vedo e sento il mondo come se fossi quasi morto, senza più
tensione muscolare, senza esplosioni emotive, senza rigidezza di posture.
Perché vedo e sento il buio del cielo, lassù, o forse potrei dire anche laggiù,
tra una stella e l'altra, dietro lo smalto ingannevole che è l'azzurro del
giorno, che ci separa da quel pozzo di nulla, lo sento, e mi ci perdo, e mi
sembra di diventare tutto pensiero e tutto corpo allo stesso tempo, senza ponte
di lingua, senza chiacchiere vane... orizzontale mi fa pensare... affinché il
pensiero e le parole, affinché tutto il corpo e il respiro si sgancino dagli
affanni del fare e disfare, dei progetti e dei sentimenti, dell'economia
dell'avidità e della sopravvivenza, può essere di qualche aiuto mettersi in
orizzontale. Tutto cambia. Tutto resta lo stesso eppure tutto cambia.
Orizzontale mi fa pensare. E non sono pensieri pesanti, di gravità cupa, di
inquietudine schiacciante. Pensare diventa dare il giusto peso alle cose, alle
parole, al tempo, allo spazio. Pensare, pesare. Forse l'unica cosa che conta,
come disse una volta un attore pazzo, è imparare ad amministrare il proprio
stato di semplicità. Ma pensare non è
soltanto questo sentire, questo abbandonarsi al dolce naufragio, quando te ne
stai così sdraiato, sulla materia solida e pesante della terra. Pensare può
essere anche ficcare la testa gli occhi la bocca e tutto il corpo nel buio... E
allora quello che chiamate capire è solo bere annaspare e affogare, fiori inutili, fiamme impotenti, e dietro a tutto
l'Impenetrabile con il suo No sconfinato, l'Impenetrabile con il suo
sconfinato No...
Bambino Bocca Big Bang
Bere Baciare Ballare
Ma frattanto viviamo nell'ignoto
senza conoscere le nostre forze
e come bimbi giocando col fuoco
bruciamo gli altri e noi stessi.
Frattanto...
Fra
Tanto è un amico mio, un frate francescano che mangia molto. Per questo si
chiama Fra Tanto, appunto. Mangia dorme e beve finché il Signore provvede. Che
dovrebbe fare, del resto? Il Signore stesso fa altrettanto.
Frattanto...
Ma frattanto viviamo nell'ignoto
senza conoscere le nostre forze
e come bimbi giocando col fuoco
bruciamo gli altri e noi stessi.
io sono la verità e la vita
io sono la ferita e la fica
io sono la carne e la cagna
io sono il sesso che si bagna
io sono il piacere e il pudore
io sono il silenzio del sole
io sono il continuo rumore
io sono la merda e la morte
io sono tutte le vite andate storte
io sono onde medie lunghe e corte
io sono la materia primordiale
io sono la madre e il mare
io sono il fare e il disfare
io sono l'amore che dice ancora
io sono l'avidità che dice ancora
io sono la felicità che non c'è ancora
io sono ancora ancora e ancora
io sono l'assenza che divora
io sono il buio tra le stelle
io sono i buchi nella pelle
io sono il freddo da scaldare
io sono la voce che vuol bruciare
io sono sangue sgorgato dalla terra
io sono il cibo il latte e la guerra
io sono il denaro che non dorme
io sono il capitale da accumulare
io sono il tempo da sprecare
io sono la porta da sfondare
io sono la porta sempre aperta
io sono solo la tua finestra
io sono una lenta ginestra
io sono le mani senza domani
io sono le mani senza controllo
io sono il ballo la danza e il crollo
io sono il ballo la danza e il crollo
io sono il ballo la danza e il crollo
-
Zia,
parla con me: ho paura del buio.
-
Ma a
che serve? Non riesci ugualmente a vedermi.
-
Non
fa nulla. Se qualcuno parla c'è luce.
Nel
1905 Freud scrive che deve "il chiarimento circa l'origine dell'angoscia
infantile a un maschietto di tre anni" che una volta sentì pronunciare queste
parole in una camera al buio. Più o meno alla stessa età risale la mia prima
immagine rimasta indelebile nella memoria, una luce nel buio: bambino,
tre-quattro anni, il fuoco, l'incendio sul crinale del monte, dalla finestra,
di sera, al buio, il mistero, gli indiani che stanno per arrivare, come gli
invasori del Deserto dei Tartari... e poi le fiabe, che parlano del buio, della
notte... e poi, ancora, il film, il primo film che ha provocato terrore, che ha
inoculato la paura nella carne, "La scala a chiocciola" di Robert Siodmak... il
brano musicale espressionista che accompagnava le sequenze dell'omicidio, un
occhio minaccioso e folle ritagliato nel buio, un serial killer ante litteram,
che colpiva di notte, in una casa gotica, dominata dalla presenza inquietante
di una scala a chiocciola... unica testimone una ragazza muta... l'impotenza,
l'impossibilità di fuggire..., sdraiato sul tappeto, sotto il tavolo del tinello,
il mio sguardo ipnotizzato, inchiodato allo schermo... e mi appare anche uno
scorpione, uno scorpione nero, immobile, minaccioso, arcaico... un brivido
primordiale di paura che afferra il midollo spinale, che paralizza la voce...
Vincent van Gogh scrive che in natura il nero assoluto non esiste... eppure per
un bambino non c'è nulla di più nero di uno scorpione nero a pochi centimetri
dal suo naso... le notti successive, insonni, con un occhio inquietante che si
materializzava nel buio, che mi fissava, orridamente spalpebrato... ne avrei
ritrovato l'eco, dopo anni, in alcune sequenze di "Profondo rosso"... le notti insonne, i brividi, il pianto, la
paura mai più definitivamente fugata di scendere in cantina, di affrontare
quella scala di cemento polveroso, ammalata di una luce giallastra, tenue,
insufficiente... la cantina, luogo oscuro, umido, freddo, ovattato di silenzio
sempre sul punto di esplodere, popolato di ragni, insetti, strane presenze,
rumori sinistri, soffi e ombre...
Ma
questa esperienza del buio non si traduce solo in angoscia, è anche stimolo
all'immaginazione, portale di scoperta, possibilità genetica di rifiutare la
brutalità univoca della realtà, quella che, come un giorno ti diranno, è una e
una sola. Alberto Savinio scriveva con rammarico, già negli anni '40: nelle
città, soprattutto nelle città, stanno nascendo generazioni di bambini ignari
dell'inquietudine affascinante delle cantine buie, che la sanno lunga,
illuminati, ottusi dalla luce artificiale, luce sempre più artificiale e
artificiosa, incapaci di aprirsi all'incomprensibile sovrano della vita, al
buio definitivo, alla contemplazione della notte, morti in vita, senza timore e
stupore, per eccesso di spiegazioni ragionevoli, accecati per assenza di buio.
Una
domanda a David Lynch:
- Qual è per te l'associazione tra il nero e il sogno?
- Il nero possiede profondità. È come una piccola apertura:
ci si entra, e dato che l'oscurità permane, la mente si distende, e una
quantità di cose che accadono li dentro divengono manifeste. Ci si comincia a
rendere conto di ciò di cui si ha paura. O di ciò che si ama, e diventa tutto
come un sogno. (...) Credo che l'idea centrale sia la vita immersa nell'oscurità
e nella confusione...Sicuramente è lì che mi trovo io: sperduto nell'oscurità e
nella confusione.
Nel
labirinto del buio... una notte, alla periferia di una città, attraversando i
viali punteggiati dai corpi delle prostitute, uscito proprio dalla visione di
un film di Lynch, "Lost Highway", mi ronzava in testa questa frase ritornello:
nel labirinto del buio. Fuori dalla camera autistica del cinema, dopo questo
solitario stare al buio insieme che è il cinema, una solitudine accanto
all'altra, in silenzio, percepisco tutti i miei movimenti, le traslazioni
spaziali così come i moti interiori, le mie traiettorie evidenti e quelle
invisibili, ridotte alla cifra unica di una X: linee convergenti, punto
d'incontro, e subito via, in fuga, in divaricazione d'infinito: we'll never
meet again, we'll never meet again...
chi vuole imparare a volare
deve prima imparare a stare
chi vuole imparare a volare
deve prima imparare ad andare
chi vuole imparare a volare
deve prima imparare a correre
chi vuole imparare a volare
deve prima imparare a danzare
chi vuole imparare a volare
deve prima imparare a tacere
non si impara a volare volando
non si impara a volare volando
è
una bella parola, un gerundio
Ho
avuto un'illuminazione: la parola buio. La parola è il fiore della luce, il suo
specchio, il suo sesso, il suo riflesso. Ma la parola è anche il boia della
luce. Decapita la possibilità di capire, irretisce nell'opacità del comune
vedere, dell'abitudine che diventa cecità. E anche guardare direttamente la
luce del sole, del resto, fissando dentro l'occhio raggiante del suo ciclone
provoca il buio. Quando chiudi gli occhi, dopo aver fissato quella massa
incandescente nel cielo, vedi rosso, il sangue rosso delle tue palpebre.
La
parola buio deriva probabilmente da burrus, che in latino parlato, medievale,
significa rosso scuro, rosso cupo. Il buioparola che ci accompagna ad ogni ora,
notte e giorno, giorno e notte, consiste anche nel dimenticare quel sangue vivo
che scorre dentro di noi, che scorre verso la fine, estuario d'invisibile. Quel
fluido caldo che ci permette di vedere, di sentire, di parlare. E non avremo
capito nulla, finiremo e non avremo capito nulla di tutta questa macchina
dell'universo, dei nostri stessi desideri, delle nostre gioie e delle nostre
mancanze. Io morirò e non avrò capito niente. Anche voi morirete e non avrete
capito nulla. Lo so, due negazioni affermano. Quindi, in fondo in fondo, sia io
che voi, alla fine, qualcosa l'avremo pur capita. Bene, molto bene! Eppure non
avremo capito tutto. Non avremo ca-pi-to TUTTO... capito?
Litania della C - I parte
can you c? can you c?
ca-ca-ca-ca-can you see?
he sees a canyon
in his mind
he sees a canyon
in his mind
oh crazy canyon
seize my mind!
crazy canyon
seize my mind!
c'è una crepa nel mio corpo
c'è una crepa nel mio corpo
c'è una crepa nel mio corpo
il corpo crepa
il corpo crepa
il corpo crepa
ah ah ah ah ah...
La storia è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi, rumina tra sé e sé il professor Stephen Dedalus di fronte a una
scolaresca distratta di adolescenti cui sta facendo domande sulle guerre
romane. La parola è buio, recettore di buio, anche perché sonda il cuore di
tenebra della terra, volgarità e violenza della specie umana, la più
distruttiva del pianeta. Tanto più distruttiva quanto più dotata di parole sofisticate,
complesse, precise. La parola infatti resta la nostra tecnologia più avanzata e
micidiale. Nel gennaio scorso, preparando "La stanza della memoria",
un'installazione dedicata alla Shoah, in ricordo dell'apertura dei cancelli di
Auschwitz, Andrea, che ne era il protagonista teatrale, mi fece leggere un
libro intitolato "Cambogia". Vi si racconta dei massacri compiuti dal regime
comunista di Pol Pot, certo,ma si cerca anche di comprendere il tessuto
complesso della storia-incubo, ricordandoci la banalità sconcertante che anche
gli eventi estremi non rappresentano delle anomalie mostruose, ma piuttosto la
regola più o meno evidente dei processi umani. Per esempio, vi si ricorda il
numero delle persone uccise in Congo dal colonialismo europeo a cavallo tra
fine ottocento e primi del novecento, in un arco di tempo relativamente breve:
la cifra oscilla tra i 25 e i 40 milioni. E l'aspetto più lugubre, forse,
consiste proprio in questa gelida e approssimativa indicazione statistica:
quindici milioni di persone trucidate ci sono e al tempo stesso non ci sono,
rappresentano una variabile plausibile, insostenibile, della nostra
ricostruzione. Cambogia Congo Colonialismo Comunismo Capitalismo: tutte parole
che iniziano con la lettera C. Fondamentalmente ossessiva è la mia natura
fisiologica. Quindi, così come stavo preparando un Alfabeto per la "Stanza
della memoria" tutto declinato a partire dalla A - Auschwitz Acetilcolina
Arbeit Ateo Amnesia - mi son ritrovato spinto a scrivere una filastrocca che
racchiudesse il cuore pulsante del cosmo, il suo orrore e la sua insensatezza,
dentro una teoria di termini che iniziano con la lettera C, un piccolo mantra,
come fanno i bambini impauriti di cui parla Emily Dickinson, che per prendere
coraggio mentre di notte costeggiano il muro del camposanto, cominciano a
intonare un ritornello sottovoce, a canticchiare una nenia rassicurante: già,
anche cosmo e cimitero iniziano con la lettera C... Forse è proprio meglio che
cominciamo a cantare, a dimenticare: mangiamo brindiamo balliamo, e poi ci
addormentiamo, al suono di una ninnananna infernale, demente, dolcissima:
cin-cin can-can cous-cous...
Litania della C - II parte
Cin-cin Can-can Cous-cous
Cin-cin Can-can Cous-cous
Cin-cin Can-can Cous-cous
Corrotto Cancro Collettivo
Congo Cambogia Cecenia
Cuore Cuponero Cervello
ColonialCapitalComunismo
Carbonio Còltan Caucciù
Cocciuta Curva Cupidità
Capo Corpo Corrode
Confuso Cielo Cosmo
Cool Contempla Calmo
Caverna Cinema Coscienza
Combustione Comunica
Comunicare Combustione
Cosmogenesi Criptica Cinica
Cane Curioso Chiosa Cresce
Concetti Cavi Concepisce
Coltiva Cromosomi Cattivi
Catacombe Comete Chiese
Campanili Campane Croci
Culto Cadaveri Corvi
Cristallo Casa Castello
Cassa Cranio Cimitero
Combatti Colpire Cadere
Comico Carpire Cronico
Colite Condanna Cultura
Cacare Certezze Crollare
Comune Capacità Criminale
Consumare Cretini Crepare
Consumatori Compulsivi Coccodè
Calcolo Computer Contare
Chistoèupaesedumare
Cerchio Continuo Circolare
Cicatrice Chiama Coltello
Cicatrice Chiama Coltello
Cicatrice Chiama Coltello
Corto Circuito Cantare
Cià Cià Cià Crepuscolare
CoCosì Come CiCale
CoCosì Come CiCale
CoCosì Come CiCale
Etimo
della parola PAROLA: dal greco parabolé, parabola, sezione conica, a sua volta
dal verbo corrispondente paraballein (in latino diventato parabolare):
avvicinare, confrontare, paragonare, giustapporre, mettere un piano in
parallelo - forse, anche, con la realtà ineffabile, con prima e dopo le parole?
con l'universo espressivo preverbale?
Ein Wort - ein Glanz, ein Flug, ein
Feuer, ein Flammenwurf, ein Sternenstrich - und wieder Dunkel, ungeheuer, im leeren Raum um Welt und Ich. |
Una parola - un bagliore, un volo,
un fuoco, un getto di fiamme, una parabola di
stelle - e di nuovo buio, immenso e
terribile, nello spazio vuoto intorno al mondo
e all'io. |
Parola
in anglosassone: word, wort, ordet. Non richiamano all'orecchio il latino ordo,
ordine? Del resto il termine greco logos deriva da una radice che porterà proprio
al latino lex, legge, ordine. Le parole, costruttori mitici che raccolgono le
membra sparse del mondo, che attribuiscono forma presentabile e sostenibile
all'informe, al vertiginoso, a ciò che incessantemente sfugge. Le parole,
farmaci ambigui che vogliono essere misura di tutte le cose, griglia
sovrapposta e coessenziale al caos dell'universo. La parola, suono con unità
definita, organizzato, che tenta a sua volta di organizzare l'indefinita
moltitudine delle percezioni, il loro continuo trascorrere, divenire,
trasformarsi. La parola, gesto magico e primordiale che dà la vita, che la
restituisce: ricordate "Ordet" di Dreyer? Eppure word, wort, ordet richiamano
all'orecchio anche orda: un esercito barbaro e selvaggio, in ordine e disordine
combattivo, che conquista e distrugge il mondo, che penetra i corpi con
desiderio e violenza, che crea, inganna e distrugge.
Nelle
lingue slave il termine per indicare la parola era slovo, poi utilizzato da
questi popoli per indicare se stessi, cioè "coloro che parlano". In seguito gli
slavi furono più volte conquistati da altre genti, che usarono lo stesso
termine per designare i servi, i sottomessi, gli assolutamente "soggetti",
privi di margine di autonomia giuridica, economica, esistenziale, esclusi
dall'orizzonte della libertà. Da lì, si passa al veneziano ciao, sciao, servo
vostro. Ogni volta che salutiamo nella nostra lingua col termine più usato,
ricordiamo, senza ricordarlo, la nostra natura di prigionieri della parola:
ciao, sciao, schiavo, slavo, colui che parla, parola...
E
quanti sono i miti sulla cosmogenesi che partono dalla forza plastica e
produttiva del verbo? "Quando in alto non era ancora nominato il cielo": questa
espressione per esempio indica la fase precedente la creazione, in un mito
della Polinesia. Finché non si dà parola, non si dà essere, non si dà natura.
"Aprii la mia bocca, pronunciai il mio proprio nome, come parola e potenza...
niente esisteva sulla terra, io creai tutte le cose", Neb-er-Tcher, divinità
della mitologia egizia. E così per il logos\figlio, nel Vangelo di Giovanni: in
principio era il verbo, e il verbo stava presso dio... Quanto orgoglio
antropocentrico, quanto accecamento conoscitivo, quanta tracotanza in questa
affermazione. E quanta forza di pensiero, al tempo stesso. Già, come attribuire
forza al pensiero, se slegato dalle parole? Come pensare il pensiero senza le
parole? Come ridurlo a forme logiche matematiche e astratte, senza incorrere
nell'ingenuità del presupposto rimosso, la lingua? Il pensiero, come noi
continuiamo a balbettarlo, sta forse proprio nel ponte tra meccanismi
chemioelettrici e voce articolata in suoni dotati di senso acquisito, storico.
Mentre parliamo, mentre nel nostro cervello si agitano neurotrasmettitori, il
pensiero, forse, non è altro che il rumore dell'acqua che scorre sotto questo
ponte.
Eppure,
per quanto pervasiva e ineliminabile sia la presenza del linguaggio, il mondo
senza le parole è abbastanza facile intuirlo, prima e dopo di noi. La parola ha
una storia così recente, nella smisurata geologia dell'universo: qualche
migliaio di anni in un pozzo di miliardi, un epifenomeno precario ed effimero
dentro il tempo sconfinato.
Verbum
sembra derivare dalla radice indoeuropea uer, stesso etimo di wort, word o vru
- che in russo tra l'altro significa mentire. Questa radice possiede anche il
significato di scalfire, incidere. Pensate ai primi supporti della scrittura:
pietre, legno, tavolette di cera. Ma suggerisce anche una metafora, banale,
profonda. Quella della parola incisiva perché incisa, non cancellabile, quindi
duratura, potente, autorevole, da rispettare. Una parola la cui descrizione di
essenza suona così abissalmente lontana dalla confusione e inattendibilità
della lingua mediocre di cui abusiamo, dall'inflazione di segni depotenziati e
triviali che sputiamo nella distrazione quotidiana delle nostre vite.
Ci
pensate mai al fatto che le parole, quelle che spumano e sbocciano dentro le
nostre bocche, arrivano da lontano, da lontananze inimmaginabile, dalla materia
sconfinata che esisteva e fermentava prima di ogni voce, quell'onda smisurata
di materia che schiumando nell'arco di miliardi di anni si è trasformata in
occhio e bocca: occhio della materia stessa in estasi che si guarda, che si
contempla allo specchio; bocca della materia in musica che dà fiato di parole a
se stessa, che finalmente si ascolta e non capisce...
la materia è fuori di sé, quando (si) parla
la materia è fuori di sé, quando (si) parla
fusione di idrogeno elio ossigeno ferro
carbonio fosforo piombo e uranio
uranio impoverito e arricchito
pensieri radioattivi e teste infiammate
sesso che scorre insoddisfatto nel sangue
e corpi esplosi di uomini bambini e donne
alberi antichi mare schiumoso batteri impazziti
virus informati e informatici
e canzoni perse nello spazio
la materia è fuori di sé, quando (si) parla
la materia è fuori di sé, quando (si) parla
parole parole parole
che è una canzone di Mina
che è una frase d'Amleto
parole parole parole
che non s'incidono nella carne
che non cambiano niente
parole parole parole
di poeti politici e amanti
parole parole parole
un po' di rumore fra tanti
buonanotte buongiorno buonasera
quando dormo sogno la vita vera
parole parole parole
per i pesci l'acqua del mare
parole parole parole
un'abitudine da dimenticare
parole parole parole
come dire: bere o affogare
parole parole parole
da ripetere e scordare
mi sento come un ragno
un solo progetto una sola direzione
sto entrando nel regno
della Stanchissima Allucinazione
buonanotte buongiorno buonasera
quando dormo sogno la vita vera
la materia è fuori di sé, quando (si) parla
Il
1878 è una data importante nella storia del buio, per quanto il buio possa
avere una storia: è l'anno dell'invenzione della lampada a incandescenza, che
sostituisce candele e lucerne. Avete mai visto una foto satellitare del nostro
pianeta di notte? Negli Stati Uniti e in Europa, così come in corrispondenza
delle megalopoli tutto è illuminato. Tanto maggiore la luce notturna, tanto
minore la nostra possibilità di contemplare il cielo nella sua misteriosa
vastità di buio irrespirabile e punti di fuoco che chiamiamo stelle. Siete mai
stati sorpresi da un black-out in una sera d'inverno, magari durante un
temporale violento? Si interrompe all'improvviso il flusso continuo, abituale e
ormai scontato della corrente elettrica, il frigorifero smette di ronzare, il
televisore di abbaiare, il computer di ipnotizzarci, i lampadari non allagano
più le stanze, i lampioni, fuori, diventano neri come le strade, inutili e
scultorei. Il mondo torna ad essere innanzitutto una presenza sonora, fisica,
palpabile: tu e gli altri non siete più un'immagine, magari a distanza, ma
corpi tangibili, qui e ora, che respirano, dentro cui scorre il sangue, e che
adesso non si muovono più con automatica disinvoltura o meccanica sicurezza,
impacciati dalla densità inaspettata di questo nero, imbarazzati da possibilità
fuori di controllo ottico, eppure al tempo stesso consapevoli di questa rara
occasione per fermarsi, per ascoltare, per contemplare. Il buio si rivela come
fenomeno essenzialmente acustico e tattile. Ci rivela come fenomeni
essenzialmente acustici e tattili. Se poi vengono accese delle candele, per
tornare ad orientarsi nel regno dominante della vista, l'universo è comunque
mutato: il mondo esterno, con i suoi lampi e tuoni, con il suo vento e i suoi
silenzi, si fa più incombente, non è più plausibile relegarlo a fondale della
nostra distrazione quotidiana, ma diventa quella grande bestia dentro cui noi
ci muoviamo, inermi. La luce tenue, viva e fragile della fiamma ritaglia volti
e gesti e corpi finalmente sottratti alla brutalità sfacciata del neon e delle
lampadine, allo schiaffo diretto e implacabile, impietoso, di quei fotoni
gettati su di noi a fiotti gelidi, percussivi. La stessa voce si fa più
riflessiva, discreta, meno querula e invadente, le sue frequenze smussano le
asperità isteriche istigate dalla frequentazione di una luce concreta e
metaforica che pretende comprensione immediata e provoca sistematico malinteso,
i suoi volumi si abbassano e assumono un contegno più dignitoso, per rispetto
di questa cornice di tenebre da cui ci troviamo ad emergere con vellutata,
carezzevole e inquieta incertezza. L'insolita temperatura in cui si trova
immerso l'occhio, plasmata dal buio circostante, ci ricorda l'incanto del
pensiero e del sentire resi gesto e pittura in Rembrandt o in Caravaggio, con
le loro figure drammatiche, attonite o assorte, che si stagliano nel nero e
dentro al nero sembrano in procinto di perdersi di nuovo, risucchiate,
ricondotte al loro fondo primigenio. Oppure le candele fiabesche di Georges de
la Tour, così affabili e vellutate con la fragile consistenza della nostra
pelle. O, ancora, il terrore folgorante dei sabba e degli incubi di Goya, negli
affreschi selvaggi, visionari, degli ultimi anni. Noi siamo diventati la
civiltà che meglio di tutte le altre domina il buio naturale con la tecnologia
e, quindi, diventiamo anche la civiltà che più di tutte le altre ha un rapporto
distorto, rimosso, distratto, nevrotico con il buio.
Proseguendo
nella "mia narrazione buia" - avrebbe detto Dante - vi ricordo che la parola
buio, nella nostra lingua, sembra provenire, come abbiamo già accennato, dal
latino parlato buriu(m), da burrus, rosso cupo, con sovrapposizione di altra
voce, probabilmente boreus, settentrionale: il vento del nord che con il suo
soffio gelido spegne il rosso del tramonto, l'incendio del cielo. Quando si fa
sera ci si può cullare con qualche parola, e anche se dice l'autunno, anche s e
anticipa l'inverno, questa parola è pur sempre una piccola fiamma, qualcosa che
può scaldare.
Quando
si viene gli occhi cercano il buio e le palpebre sono lì ad aiutare il nero
delle pupille, a ricordare la loro vocazione allo scuro, al silenzio, al
piacere che freme e grugnisce, alla voce animale che esce come fiato e calore.
"Io non penso e perciò non posso impazzire", diceva Nijinsky. "Io non penso e
perciò non posso impazzire". Nijinsky era un pazzo che ballava anche con le
parole... io ti tocco e ti abbraccio, perché voglio smettere di parlare pensare e
vedere, di sentire il freddo che sto per diventare... io ti tocco e ti abbraccio
perché non sarò mai saggio, perché sono una rosa di maggio, perché sono una
rima sciocca e bambina, perché niente mi basta mai, perché ho bisogno di sapore
e calore, e le parole non si possono toccare, bere, mangiare. Voglio un'ombra
di vino, voglio il buio del tuo odore.
E sarà buio, sarai buio,
ancora,
soli di noi ancora da venire,
soli per noi ancora da
trovare,
notte danzando la notte
trovando.
Tu, mio osso, mia carne. Non ti vedo e
ho paura di te. Lo spavento di un corpo nel corpo. I nostri cuori si ascoltano,
si danno un ritmo atavico e sempre nuovo. La mia creatura cresce e non ha paura
nel buio perché nel buio io esisto e lei esiste. Non lo so se il bambino vuole
uscire. Ma sono finalmente piena di qualcosa, qualcosa che mi attraversa. Sono
dio camuffato da donna che accoglie la vita, dio fecondato che apre il suo
ventre e lo richiude come un mare rosso e ubriaco. Dio ci prova con me. Ci prova
con tutte le donne. Apre i loro ventri, crea disordine e polvere e spavento.
Non so se il bambino vuole uscire. Per ora resta sospeso in un liquido caldo e
trasparente dentro il mio utero forte e spesso e umido che non lo tradirà, che
nasconde alla luce la sua infinita pazienza, il suo lavoro prezioso. Buio è
femmina piena.
Sono
venuto alla luce - si dice così, no? - la notte del primo novembre 1967. Il
calendario è una delle nostre molteplici superstizioni da terrestri, ancora ben
poco evoluti rispetto alla conoscenza delle forze del cosmo. Mi irritano e mi
annoiano, per esempio, le scempiaggini dell'astrologia. Eppure mi ha sempre
fatto sorridere, e quindi anche pensare, perché ridere è macchina per fare il
vuoto e ripartire, forse... esser nato il giorno in cui, secondo le consuetudini
della civiltà cristiana e cattolica, si celebrano tutti insieme tutti i santi.
Io me li vedevo, da piccolo, tutti in piedi, in chiesa, o in un'enorme stanza,
silenziosi, verticali. E il giorno dopo eran già tutti orizzontali, tutti
morti. Beh, a quell'età, un passaggio così brusco e repentino assume un certo
peso, un invito perentorio a percepire la natura effimera della vita, e a non
prendere troppo sul serio nessuno, nemmeno i santi. Del resto, più si è, di santi, più si ride. Se
l'assunto è vero, appena nato, mi son fatto indigestione di risate, tante
risate, risate sante, e il giorno dopo le ho sepolte tutte, tutte quante. Un
bel modo di morire, morire dal ridere...
ci vuole un bel maglione
per non essere un coglione
un maglione pesante
per l'inverno equidistante
precedente la vita
e la vita seguente
ripeto parole sceme
perché il maglione mi preme
la prima cosa è il mio nome
ma la seconda è il maglione
ogni spesso mi manco tanto e quindi arranco
poi mi svuoto perché qualcuno mi faccia stanco
o m'illuda in reciproco gioco di fuoco pieno
finché il corpo avido inquieto venga meno
E allora venghino, signori, venghino! Ché
per venir meno s'ha da venir di più e di più e sempre di più...
Un poeta ha detto: vorrei scrivere parole
che fossero essenziali e necessarie come un bicchiere di vino. La questione del vino, l'ossessione per il
vino, non si limita alla passione alcolica, anche se questo può ben essere il
movente iniziale. Non si tratta soltanto di predisposizione all'ebbrezza, di
piacere provocato dal venir meno dei freni inibitori, di alchimia della
dipendenza tossica, di voluttà dell'epidermide amplificata dalle sostanze che
saturano il sangue, dopo aver bevuto... insomma, il vino non è soltanto una
meravigliosa e antica droga eccitante... è anche un cibo complesso, per il corpo
e lo spirito, e innanzitutto un alimento sapienziale, capace di far intuire
come la stessa distinzione di corpo e spirito sia fallace, ipocrita, miope, una
distinzione che non permette di penetrare i misteri della materia e
dell'energia nell'universo che ci plasma, forma, comprende e distrugge... il
vino, in chiave simbolica e tutta concreta, al tempo stesso, è una sorta di
quinto elemento, oltre all'aria, all'acqua, al fuoco, alla terra... un quinto
elemento che lega gli altri quattro, facendoli circolare in un ballo tondo e
senza fine, in una vicissitudine di trasformazioni e incontri e ancora nuove
trasformazioni: il Fuoco del sole penetra e riscalda l'Aria dell'atmosfera che
circonda come una pellicola protettiva e fragile il nostro pianeta, provocando
l'estate torrida della maturazione, mentre l'Acqua che cade dal cielo feconda
la Terra che nutre la vite, e dalla vite l'uva, fonte magica da cui sgorga il
succo dolce e potente, austero e al tempo stesso lieve. Il vino, cifra ed
emblema di un arcano girotondo cosmico.
...cantare,
cantare il vino, sbavare e balbettare, fare bolle, incendio nel cervello,
sputacchiare, fuoco che sale dalla terra, ossa sfarinate da millenni,
matematica elegante della grande distruzione, estasi demente della materia
senza nome, vino rosso mia dolce culla, nello sviluppo tondo del nulla, nello
sviluppo tondo del nulla...
E
poi c'è un'altra considerazione da fare. La parola cosiddetta poetica, la
parola sentimentale, per non parlare di quelle politiche, così come di quelle
che ci scambiamo nei nostri commerci quotidiani, sono troppo spesso prive di
autonomia e pura presenza: rimandano sempre ad altro, nel tempo, nello spazio.
Sembrano votate all'ansia del non raggiungibile, dell'incompiuto, al lavoro del
lutto, allo sguardo perso dell'assenza: promessa fragile, utopia enfatica,
rammarico, nostalgia. Un bicchiere di vino, nella sua irrimediabile, sensuale e
ipnotica evidenza, ci racconta in musica - come la musica, e come le stesse
parole quando sono liberata potenza di se stesse, corpo incarnato della voce -
l'essere così e non altrimenti della pura e semplice presenza, il qui ed ora
dell'esistenza nuda: colore, densità, profumo, sapore, potenza dei suoi effetti
sulla carne, sulla voce, sul sangue e sul cervello, sono qualità e talenti,
forze e volumi che catturano immediatamente, senza bisogno di sviluppi
ulteriori, di prove, tribunali, dimostrazioni, verifiche. Insomma, nessuna
spossatezza della dilazione, dell'esame risentito e funereo della storia, della
cronaca, Certo, molti, moltissimi vini sono deludenti, pessimi, fanno proprio
schifo. Ma questo rende il succo dell'uva ancora più prezioso, ancora più
profondo, nella sua essenza manifesta, nella sua visionaria potenza. Significa
semplicemente che il suo valore non è traducibile nella brutalità industriale e
farmaceutica di una formula chimica, di una molecola estatica. La grandezza del
vino consiste nella sua irriducibilità al tasso alcolico, nel non essere una
droga e basta. Il vino è lavoro, cultura, corpo, paesaggio, stagioni, tecnica,
abilità e attesa. E la sua apoteosi avviene nella bocca e nel cervello di chi
beve, nel naso e negli occhi, oltre che nel sangue e nella carne. Quando si
beve bene, poi, accade di essere bevuti, in progressiva, regressiva, santissima
perdita di sé. La parola buio vuol dire anche: la parola vino, l'unico vino che
riesco a bere, che amo: rosso scuro, rosso del tramonto nel controllo di sé,
preludio del buio in cui scompari, inaugurazione sontuosa della notte, della
festa senza nome e senza tempo.
...sprofondare,
nel mare, nel dormire, nel grembo della notte, nelle onde di cenere e piacere,
tra i bivacchi di fuoco delle stelle, rapiti dai cavalli dell'universo che si
espande... dormi, continua a dormire, non devi ancora partire, ti puoi
riposare, dormi, non devi più lavorare, non pensare, dormi e lasciati cullare...
Pensateci:
la parola, all'inizio, nel suo slancio originario, nella sua fase mitica, si
avvicina a te, penetra dentro di te come riverbero, eco, balbettio. Ripeti dei
suoni, i suoni delle bocche che ti circondano, la bocca della madre, quella dei
grandi, gli adulti. Dal loro mondo incomprensibile, misterioso e buffo, a volte
anche minaccioso, ti arrivano quei suoni, quei rumori. E tu, inciampando,
giocando, musicista involontario del senso, ti trovi, in maniera lenta faticosa
confusa irreversibile, dentro la trappola della lingua, dentro i suoi
molteplici doni. La parola parola, secondo uno dei suoi possibili tragitti
etimologici, deriverebbe anche dal latino medievale favola, fola. Ed è proprio
in questa veste che la parola si presenta di nuovo alle tue orecchie nel suo
splendore magico, aurorale, soprattutto se hai la fortuna di riceverla da
strani affascinanti adulti, uguali agli altri eppure diversi: i vecchi. I
vecchi, preferibilmente donne, che ti raccontano favole. Allora, per una
seconda volta, la lingua tutta insieme torna a sembrare un'esperienza nuova,
inaudita. Un regno affascinante, ma anche pericoloso. Un incantesimo e una
trappola. Un'architettura in cui ti perdi, in cui è bello e inquietante
smarrirsi. E spesso queste narrazioni raccontano, appunto, del buio, dei nostri
rapporti complessi col buio: la minaccia della morte, il rischio di esser
mangiati, il panico dell'esser abbandonati, la notte come perdita di
orientamento, l'orco, che può manifestarsi sotto forma di brutalità aggressiva
e selvaggia, di animale a metà strada tra la parola articolata e il grugnito,
l'urlo e il silenzio: la sua voce, un rumore profondo, cupo, oscuro, che
raschia nel pozzo primordiale della vita, non necessariamente per incutere
terrore, ma anche per avvicinarti a quello che, comunque, tu sei, e continuerai
sempre a essere finché sarai: una piccola bestia, un animale smarrito che cerca
di orientarsi nel grande mondo, nell'universo. La parola, qui, per la seconda,
e troppo spesso per l'ultima volta, si fa esperienza del suo limite, di un
radicale "essere alla finestra", partecipi e al tempo stesso distaccati, dentro
e fuori la bolla dell'abitudine. La favola - questa passione e percezione
dell'estremo, dell'estraneità che è anche portale di conoscenza, stupore,
viaggio immobile - può accadere di nuovo in virtù di un incontro, di una
patologia, di una forsennata gioia, di una "tremenda volontà di sapere":
filosofia, poesia, astronomia. La favola più potente, radicale, sconvolgente
che non smettiamo mai di raccontarci, anche quando non lo sappiamo, anche
qualora non ce ne accorgessimo mai, fino alla fine dei nostri giorni e delle
nostre notti, è quella dell'universo, con il suo buio infinito, impenetrabile,
dove la parola si avventura come ponte, come gesto incerto e ambizioso, come
fiotto effimero di luce, ma, in definitiva, per esserne ingoiata, senza ritorno
di sapere, senza formule rassicuranti: l'universo intero non è altro che questa
favola, sotto forma di parole e di tutt'altro dalle parole. L'universo, la
favola da cui sgorgano tutte le parole. La favola che le inghiotte tutte nel
buio.
Fortore
di carne cotta dal sole in questa mansarda fornace pentola bolle il mio sangue
le mie mani al risveglio che neppure m'ero accorto quasi di dormire quelle
poche ore di sonno tondo e ora le mie mani strette al muscolo del piacere
insoddisfatte le mani che fanno ponte a quel profumo a quell'odore meccaniche
lo traghettano verso i buchi del naso in mancanza accidentale di altri buchi da
sondare di altre mani da afferrare il muscolo duro e molle e poi ancora teso da
sciogliere e spillare quello che è già acqua da sciogliere e incendiare quello
che non è fuoco e che cenere sarà ma poi mica è detto che devo subito bruciare
anche se è certo dicono il destino universale del trasformare dissolto
congelato poi incandescente del cielo della terra del sistema dei pianeti
finalmente sistemati che non si vedrà più niente e nessuno nessuno ci sarà più
a fare e disfare e men che mai a dire toccare e capire come sparlavo ieri notte
come ripetevo all'amico mio giovane all'attenzione notturna della sua mirabile
sigaretta al fumo del cervello nostro che volteggiava azzurrino impalpabile
nell'aria e gli sparlavo che una volta
fatte tutte le eccezioni di rito e tutti i distinguo sensati ed evitati i
malintesi e archiviato l'umanesimo spontaneo e la psicologia terrestre e avuta
piena la pancia e nessun dolore di nervo esasperato o di osso troncato o di
corpo desiderato o di nome defunto insomma
una volta fatte tutte queste premesse mi si schianta il capo e mi
devasta la parola mi stupisce tutta la carne e mi trabocca di lacrime vane
sapere sentire che morirò e non avrò capito niente che sono già in dirittura di
arrivo in spalanco di morte e non avrò capito niente che sbatto la testa contro
i muraglioni del telescopio ottico e mentale in questo viaggio nell'orrore
senza ossigeno degli ammassi di stelle rotanti pulsanti al confine estremo del
visibile nell'immaginazione a ritroso fino al punto primordiale che poi magari
è solo una goccia del tempo dello spazio e di quello che non sappiamo neppure
nominare e non ci sarà più la mia bocca e gli occhi bambini a fissare tutto
questo fiume di luci e masse urticanti e parole frasi spezzate sfiatate
ammassate che forse se le fermo e mi faccio sosta è davvero meglio o peggio ma
che importa meglio o peggio importa che dio quello che tu dici dio del mio
sangue dio vigliacco che non si capacita di pensare se stesso che non ferma
tutto perché reclamo un gesto un suono di comprensione micidiale insomma mi
ripeto in cerchio che morirò e non avrò capito un cazzo nemmeno il mio di cazzo
con tutte quelle smanie con tutti quei turgori che non smettono mai che non
bastano mai e non avrò capito nulla e questo è il mio piccolo nome la mia
piccola culla Afasia che non è una bella parola come Amnesia ma è quanto mi
resta di esagerato e minimo e che mi rimanda subito allo specchio senza
immagine al vampiro di quanto forse mi tiene ancora in vita vivente e che forse
non dovrei neppure dire per non farmi forse compatire ma non ci posso fare
niente è lui che mi tiene lui il naso mucoso lui infilato nella regione circolare di un
vetro tintinnante di un'ampolla trasparente di un calice cristallino con buona
dose di vino rosso versato da bottiglie di vino morbido profumato di frutta e
terra e morte stagionale e sole animale che fruga il suolo che ci si ficca e
sale nella terra lungo i tralci e gonfia l'uva nel vento nel giorno sotto la
pioggia dei grilli nell'estate affogata di cicale nella luce e nel calore che
poi strizzi e spremi e tocchi e lecchi dopo preciso fermentare e posa calma al
buio e al fresco dove tace e riposa e mi piace sì che si infili nella bocca
nella bocca che diventa non più mia e mi piace che indugi sulla lingua
devastata di parole ipertrofica di papilla cancerosa avida di altra lingua
languorosa mi piace che liquido rosso si allarghi nello spazio sontuoso di
gusto e sapore sì lo ammetto forse è triste e forse è solo bello che mi faccio
allagare felice da quello che
vivo da ultimo soprattutto per quello
per tutti i nomi santi dal Sangiovese in avanti...
Voglio arrivare ad ascoltare tutte la
parole, anche le mie, soprattutto le mie, soprattutto quelle interiori,
inespresse, ruminanti, fluviali, quelle che germogliano sul bordo instabile tra
coscienza e incoscienza - come un rumore di fondo, un rumore che arriva da
lontano, disumano, senza significato verbale, come il cinguettio degli uccelli
all'alba, come il rombo sordo e continuo dell'autostrada, come lo sferragliare
dei treni nella notte, come la pioggia che batte sul tetto, come lo scrosciare
delle onde del mare, nient'altro che un suono che appare e scompare, nello
sviluppo tondo del nulla, nello sviluppo tondo del nulla, nello sviluppo tondo
del nulla...
I problemi sono una cosa dentro la mente, la mente è dentro
il cervello, il cervello è dentro il corpo, il corpo siamo noi che parliamo. Lo
scheletro è nel buio. È la frase del corpo. Sì, però l'orologio sta cambiando
tempo. Forse l'ora si sta avvicinando. Le tue follie sono nella mente, quindi
non sta cambiando niente. Il tendone del buio si apre e arrivano la merda e il
papavero.
Sono
parole di Lorenzo. Lorenzo è un bambino di poco meno di sei anni. È un po'
anche il mio bambino, perché l'ho visto crescere, l'ho accompagnato, in questi
anni. Sentendo che stavo preparando una delle mie cose strane, uno spettacolo
intitolato "La parola buio", mi ha regalato la sua sintesi lirica, visionaria,
pensante. La cifra definitiva, misteriosa e perfetta, di quanto ho cercato di
balbettare.
I problemi sono una cosa dentro la mente, la
mente è dentro il cervello, il cervello è dentro il corpo, il corpo siamo noi
che parliamo. Lo scheletro è nel buio. È la frase del corpo. Sì, però
l'orologio sta cambiando tempo. Forse l'ora si sta avvicinando. Le tue follie
sono nella mente, quindi non sta cambiando niente. Il tendone del buio si apre
e arrivano la merda e il papavero.
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scritto e diretto da Federico Nobili
voci
Federico Nobili
Giuliana Sciaboni Lorenzo
Esposito
composizioni chitarre Giacomo Nencioni
ricerca e composizione sonora Davide Fabbri
composizioni vocali Lorenzo Esposito
musicisti live Lorenzo Esposito
Davide Fabbri Giacomo Nencioni
musicisti aggiunti per jam-ob/session
finale Giacomo Cotta Roberto
Passuti
immagini Elisa Seravalli
Alessio Valentini
ricerca linguistica Marianna Aldovini Agnese Cavalli Chiara Galloni Francesco
Tosi
altri testi Claudia Belli e Lorenzo
fonico e oltre Roberto Passuti
luci
Alessandro Bronzini
trasporti Fabio Bianchi Davide
Bini
assistente tecnico Gianpaolo Battolini
assistenti organizzazione Giacomo Cotta Alessandra Roselli Yuri Rossetti
organizzazione generale Alessandra Galloni
si ringrazia Luca Bassignani Gabriele Mazzoni Leonardo Rosi Maura e
Giancarlo Nobili
realizzato da gruppo eliogabalo
in collaborazione con Bottega di Musica e
Comunicazione di Giovanni Lindo Ferretti - Bologna
Testi
di Federico Nobili
Tranne
quelli in corsivo, in ordine di apparizione:
Sandro
Penna, Gottfried Benn, Aleksàndr Blok, Sigmund Freud, Friedrich Nietzsche
(riscritto, tradito), James Joyce, Gottfried Benn, Marianna Aldovini, Claudia
Belli, Jacques Lacan, Lorenzo.
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