LA SESTA ORA

UN FILM(?) DI FEDERICO NOBILI



LA SESTA ORA

con: Tullio Battaglini, Andrea Battistini, Gianluca Brunetti, Claudia Belli, Enrico Dell'Amico, Gaia, Giulio, Romano Guelfi, Emiliano Iovine, Jacques Lacan, Menotti, Luca Mercadini, Federico Nobili, Stefania Scroglieri, Francesco Tesconi, Tingis, Gianluigi Tosto, Pepi Zohar
operatori: Fabio Ferracane, Romano Guelfi, Ernesto Fialdini, Federico Nobili
luci: Massimo Lippi, Federico Nobili - immagine: Titorelli
organizzazione: Daniela Benassi, Massimo Lippi, Félix Naguère, Lara Osvaldini, Aurora Tomarchio
assistente di produzione: Giancarlo Nobili
premontaggio analogico: Federico Nobili
montaggio Avid: Ernesto Gerevini
il seminario su Franz Kafka è stato tenuto da: Alessandro Raffi, Federico Nobili
assistente al montaggio e aiuto regia: Davide Bini
scritto e diretto da: Federico Nobili
coprodotto con: Teatro di Castalia
collaborazione di: I.S.A. "F. Palma", Massa - Liceo Scientifico "G. Marconi", Carrara - Alfea Cinematografica, Pisa
postproduzione: Centro Audiovisivi, Massa
masterizzazione e titoli: Videotroupe, Viareggio
prodotto da: Gruppo Eliogabalo


ENTBILDUNG - L'INSOLENZA DELL'IMMAGINE
preferisco il rumore del mare

Look back in anger, scriveva un testo e cantava una canzone di qualche decennio fa. Intrappolati dalla metafore, crediamo di dover compiere un atto deliberato e consapevole per rivivere il passato, dimenticando caparbiamente la grande lezione presocratica: noi abitiamo una battaglia che è gia stata giocata, noi percepiamo un mondo che è già irrimediabilmente trascorso. Abbandonarsi alla ripetizione dell'ovvio, di ciò che appare e non si vede, disapprendere schemi cognitivi e reattivi, fare vuoto di bocca spalancata per lo stupore d'essere, con il coraggio e l'orrore di non avere nulla da comunicare, mai, a nessuno, abbandonandosi al canto delle Sirene, al loro gelido e incantevole silenzio. Fatta tabula rasa di ogni smania ermeneutica nei confronti della realtà, si gioca se stessi e il proprio mondo, pensando smodato, fuori dalle mezze misure dell'etica e dell'estetica contemporanee (sit venia verborum, troppo nobilitanti rispetto al panorama squallido del presente). Come al solito, ho deviato dall'intenzione originaria: sempre di tempo e controtempo si trattava, ma circoscritti alla stanza di Circe della propria presunta biografia, al gusto rétro di accogliere come proprietà riconoscibile eventi e opere che hanno costellato la vanitas dell'io... Pensare contro se stessi, disdire e disfare continuamente l'immagine-gabbia dell'identità, è compito faticoso, sisifeo, marcato dalla cifra patetica dell'impossibile. Un modello anarchico - l'espressione è grottescamente ossimorica, ne convengo, ma ogni pensiero sovranamente tragico e ludico non ha potuto fare altro che esprimersi per paradossi e contraddizioni - un modello anarchico di divenire assume con fastidio l'esibizione del proprio "capitale" creativo, umano, affettivo, pur nella consapevolezza della valenza strumentale del prorio agire. Per quanto si disprezzi la Retorica e il cattivo gusto del consenso, aprire bocca è già mediare, accettare, riconciliarsi; ergo: solo il santo e l'idiota - oltre al suicida - hanno coerenza smisurata ed inutile. Non è pudore di Narciso che esita di fronte allo specchio ingannevole dell'opera, comunque, ma noia della routine, paura di assumere, in questo sguardo su di sé, la sintassi detestabile del nemico spettacolo, la volgarità meschina dell'esibizione. Insomma: l'opera non riguarda più il suo presunto autore, che vi si è accanito per perdere se stesso; l'opera non ha padri, al contrario, è fuga pinocchiesca e kafkiana da ogni legge paterna e autoritaria... Un eventuale presunto avvocato o addirittura progenitore impenitente è da considerarsi, pertanto, come mera occasione di equivoco... oppure di gioco... sta all'eleganza del medium (l'autore, per chi si fosse distratto) e alle sue necessità di sopravvivenza: diffidate sempre di un artista o di un pensatore il cui sostentamento dipenda dalle proprie idee o creazioni... Spinoza docet.

Valerio von Valeriental

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Ogni immagine contiene in sé il germe della propria distruzione.
Osip Mandel'stam

The images have to be contradicted.
Charles Olson

Sul piano delle tecniche, quando l'immagine costruita e scelta da qualcun altro è diventata il rapporto principale dell'individuo col mondo, che egli prima guardava da sé da ogni luogo in cui poteva andare, evidentemente non s'ignora che l'immagine reggerà tutto; perché all'interno di una stessa immagine si può giustapporre senza contraddizioni qualunque cosa.
Guy Debord

Non vi farete alcuna immagine.
Antico Testamento - Franz Kafka

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ANARCHIA E RUMORE
note postume su "La sesta ora"

L'INCANTO DEL NIENTE. Malinteso, impazienza, impreparazione. Dopo due anni vissuti pericolosamente insieme a Franz Kafka, la sua triade del fallimento si è radicata nella carne e nelle ossa, sbeffeggiando quasi, amaramente, ogni velleità d'esperienza, ogni illusione di movimento. Tutto appare imbiancato nel sudario di malattia dell'ineluttabile: la confusione ondivaga degli slanci verso il mondo - amorosi, aggressivi; il tormento euforico del castello interiore. Santità, forse, è la tentazione di comunicare soltanto con il non umano.

Così scrivevo nel maggio 1995, chiudendo il percorso che aveva condotto alla realizzazione del film (?) La sesta ora. La distanza che mi separa da quel lavoro è identica a quella che mi separa dalle parole che lo accompagnavano. Ma la tentazione di deserto - a lungo dominata nell'ascesi quotidiana della sussistenza e dei progetti, nel cortocircuito feroce di utopia e Realpolitik - sta ritornando prepotente e al contempo dolcissima, come un vento d'oblio.
La sesta ora veniva a dare forme e ritmo apparentemente definiti ad un lungo e probante corpo a corpo con le opere di Franz Kafka, in particolar modo "Nella colonia penale" e "Diari". Gigantomachia interiore che riverberava, di fatto, con speculare e lucida crudeltà, il continuo attrito della propria figura con il girotondo del mondo. Il caos molteplice eppur monomaniaco che designiamo con il termine desiderio si traduceva nel lavoro disumano della macchina - quella punitiva della colonia, quella discreta della scrittura, quella collettiva del lavoro filmico, quella tecnica della riproduzione di immagini e suoni, del loro montaggio e smontaggio. E la metafora principe del racconto di Kafka - con un gioco al rilancio ipercalligrafico, con lo humour del raddoppio retorico - subiva un ulteriore spostamento metaforico: l'apparato di tortura, nella sua traduzione visiva, veniva sottratto alla vana curiositas della pulsione scopica, negato alla vista, irrimediabilmente ustionato nel bianco astratto e accecante. I suoi contorni erano tracciati dalla mano aleatoria e indelicata del rumore. L'udito - senso dell'attenzione e della paura - si riscattava della prepotenza dell'occhio. Frastuono sibili cigolii voci parole fiati fruscio di vesti e musiche si intrecciavano in una variazione incessante dello stesso tema: tempo del desiderio, tempo dell'attenzione, tempo della scrittura - accompagnato dalla prescrizione veterostestamentaria e kafkiana di non farsi alcuna immagine. Iconoclastia e iconodulia si abbracciavano, facendosi reciproco sgambetto, inciampando l'una nella tentazione dell'altra. Si scontava, per l'ennesima volta, facendo di se stessi laboratorio ludico e tragico, la tensione irrisolta delle antiche, premoderne contraddizioni; si esibiva, con intenzionale rifiuto di minimalismi epocali, l'aporia della totalità, frantumata in una maldestra arte della fuga.
Quello che resta, quello che mi resta, adesso, nel pudore e nell'imbarazzo del riproporne il calvario (la sesta ora non è soltanto l'acme della tortura narrata da Kafka, ma anche l'inizio della passione di Cristo sul Golgota) sono tracce di intuizioni formali e ritmiche, svuotate di ogni presupposto metafisico o estetico, gravate da scelte che talvolta le incatenano, laddove potevano librarsi come il volo paradossale della "deposizione" pontormesca. Resta, inoltre, il nesso ancora irrisolto, e ulteriormente sviluppabile, di anarchia e rumore.

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HORA SEXTA
frammento di lectio talmudica in omaggio all'uditorio labronico

Il pozzo di Babele. Da questo rovesciamento d'immagine prende avvio ciò che segue.
Il pozzo di Babele resterà come allegoria muta, orbata d'ogni supporto esplicativo. All'incauto lettore il tentativo di riempirla con la materia solida del senso presunto o di tradurne l'invisibilità fluida e taoista alla luce del giorno micidiale, dove l'acqua non ha scampo: evapora o congela. Quanto al dilemma residuo, inerente il coitus interruptus semantico (frustrazione occidentale o rafforzamento tantrico) , lo si lasci sospeso nella liquefatio spiritualis del film (?) spermentale (sic) da cui trae la sua delirante sragion d'essere: verrà così scongiurato almeno il cattivo gusto consolatorio del pensiero addomesticato dalla legge di gravità dell'accumulo, incapace di vuoto stupore silenzio balbettio preghiera rumore corpo gesto congedo...
Il pozzo di Babele. Ciò che è profondo, è oscuro, eracliteo. E non è detto valga la pena occuparsene, come suggeriva Brecht a Benjamin a (s)proposito di Kafka. Tessere simboli significa restare impaniati nella trappola teologica del segno. E la scrittura kafkiana è inqualificabile, innanzitutto, come teologica, a meno che non ci si riferisca all'ovvietà dell'orizzonte metafisico-linguistico come inaggirabile terminus a quo. In questa derisoria ars venandi, che ha come unica preda l'azzurro del cielo, la sigla K. è l'epifenomeno doloroso-autoironico di una deriva pornografica del pensiero, ossia di un eccesso del desiderio che si fa macchina (rigore tecnologico della spersonalizzazione) e si mette in gioco nella masochistica dilazione del godimento, secondo la legge del cammino nel deserto (Abramo docet) e l'infinito dell'infanzia. Di notte lo sguardo affonda nel nero stellato e non vorrebbe mai più riemergere; di notte ci si smarrisce in un libro senza tempo e non si vorrebbe mai più ritrovar se stessi; di notte non si smette mai di scrivere: è il buio che ti parla e muove la mano, è il bianco spaventoso degli occhi che reclama un pozzo d'inchiostro, un'architettura incoerente di fuga che insegni a scordare, a scordare la musica che ancora t'incanta e ti lega.
Il segno che si viene tracciando - stupiti e avidi, cacciatori e braccati - si prodiga nello schivare i tentativi maldestri del riconoscimento e dell'utile comunicativo: è deriva d'affetti oscena, in cui si esibisce l'impossibile e se ne gode, irresponsabili, fingendo continuamente di sottrarci - per impazienza, per stanchezza, per illuminata deliberazione - ad un ipotetico simulacro d'assoluto, che altro non è se non una delle molteplici circostanze immaginarie conservate a bella posta, perché il gioco prosegua. Se l'officiante - reso ateo da secoli d'incallimento social-razionale - si distrae per la durata d'un batter di ciglia, il rito si può tollerar cantando, in quanto automatismo della forma-preghiera (es ist ein eigentuemlicher Apparat...). Sta poi alle nostre riserve di humour farlo saltare a pezzi.
Questa deriva, questa traduzione - dall'orale al detto, dallo scritto alla camera d'ascolto, dalla pagina al tempo-immagine-suono - , questo infinire del movimento ludico, altro non sono che la metafora. Almeno così come ci si presenta (come si riduce?) nel corpus sadico e inafferrabile di Franz Kafka: sovranamente sottratta ad ogni referenza oggettuale, ma non svilita ad esercizio formalistico o a superficiale iconoclastia, entrambi luoghi insospettabilmente omogenei tra di loro, dove neoclassicismo e avanguardia si identificano in una sostanziale (leggi: mercantile) innocuità. Entbildung del pensiero è altra Cosa rispetto alla performance spettacolare, è metafora inarrestabile, fatica dura e ascesi, immodesta umiltà; e le risate che suscita sono spossamento e culmine del processo che essa stessa incarna, confine invalicabile della porta aperta tra interno ed esterno, tra esuberanza di vita e rigor mortis: chiostra dei denti bianca accecante o, forse, paresi funebre per poco ancora procrastinata. Metafora è, dunque, il puro possibile dell'ontologia classica ovvero ciò che non accade mai, ciò che preferisce non accadere (Bartleby), ciò che eternamente indugia (Klee): l'avvento del Messia, la quiete dello sguardo onnivoro, la nostalgia del non-nato, il compimento della storia - foss'anche la propria personale historiette, in una perversa complicatio della patologia spettacolar-teologica: Dio che non riesce a trovare un punto dello spazio-tempo fuori da se stesso per guardarsi (e magari scomparire, in una contrazione kabbalistica - vedi Yitzchàq Luria); il soggetto malato di totalità, che preferisce consumarsi forsennatamente, piuttosto che acconsentire alla propria incompleta finitezza... Malattie della tradizione, sospirava Benjamin.
Dentro alla tana di Babele sono il buio e la confusione delle lingue. Quello che affiora alla superficie: rumore; quello che si inscrive sulla pelle e sulla pellicola-nastro: rumore. Come se il senso, risalendo dal profondo, facesse attrito con le pareti del corpo e si ripiegasse nell'afasico; altrimenti detto (con voce bambina invertita di segno, quasi Alice dall'altra parte dello specchio): come se il senso si dissipasse nel significante, nell'apoteosi barocca e vacua dell'insignificante. Avere idee chiare e buone intenzioni sono sintomi di una dimensione topologica inequivocabile e che non ci appartiene: l'esser fuori dal pozzo. Condizione invidiabile, per chi ama la desolazione del giorno (lavorativo) e il cicaleccio mondano (soprattutto quello "culturale"), che si gratifica delle oscurità ctonie soltanto per poter pavoneggiare un'affinità con gli abissi, una frequentazione degli estremi "dominata con maturità", sterilizzata nell'asettico e nel virtuale. I nostri atomi elagabalici, privi di specializzazione e scandalosamente non talentati per la felicità del frivolo, agognano il fondo immaginario delle proprie cavità artesiane: male che vada, potranno osservare con autoscopico piacere il disegno delle stelle, come insegnano gli antichi, e credersi, in un delirio di santità materialista, stiliti al vertice di una colonna ribaltata nel ventre della terra, figura bizzarra di un'architettura invertita del sapere e del desiderio: vuoto vs pieno, sprofondamento vs altezza, buio vs luce.
Invero, è appropriazione linguisticamente indebita quella che ci fa dire: proviamo a raggiungere il fondo. La brutalità senza infingimenti del pensiero animale traduce: siamo semplicemente trascinati giù, con il solo compiacimento ironico di una disinvoltura rassegnata, la sprezzatura di un Cortegiano senza Aule, Principi o Pubblico. Un cavaliere dell'assurdo, felicemente démodé e solitario. A forza di ottusi chiarimenti ci siamo cancellati e ci scopriamo più diafani delle figurine che preconizzava Kafka... Quanti impicci avremmo evitato, accettando con coraggio il vero nome della volontà: semiconsapevolezza, come suggerisce l'etica spinoziana...
Astronomia del collasso: apro la finestra e un mare di stelle brulica nel mio corpo, non distinguo più dentro e fuori, non ricordo più da che parte sono arrivato...
La tradizione talmudica e in genere la mistica ebraica possiedono il dono di una lucida e stringente capacità argomentativa, ma il rischio di chiudere il gioco e il piacere dello sperimentare nella gabbia dell'interpretazione è disdetto - come accade per lo zen - dalla "macchina-per-fare-il-vuoto" dello humour. A voi, messaggeri, angeli, amanti, animali, idioti, giocolieri e studenti, il compito - o forse il supremo otium - di scavare... talpe nel deserto... pozzi e refrigerio... tane e cunicoli... Babele e balbettio...chi non cerca è trovato... e quel che si trova... si può dire, forse? Certo, la libertà possibile oggi è una pianta assai mingherlina... una lenta ginestra... se seguiste le metafore, sareste diventati voi stessi delle metafore e quindi vi sareste liberati dell'affanno d'ogni giorno...

Nella peggiore tradizione didascalica, il testo si interrompe qui, ossequiando la natura frammentaria dichiarata dal sottotitolo. Quanto ai cortocircuiti tra ciò che precede e il videofilm (?) La sesta ora, non spetta a questa penna illustrarli o negarli. Chi legge è scemo, si scarabocchiava sui banchi di scuola, nelle ore di otium sine dignitate, così tristemente caratteristiche del cursus studiorum statal-democratico. Chi legge è scemo, scemo come un bicchiere di vino. L'astante trarrà le conclusioni che riterrà più confacenti al proprio infelice caso, colmando il contenitore di liquido dionisiaco, per smania di completezza e piacere (nevrosi?) di simmetria contemplativa, oppure svuotandolo in altro catino: il mondo, in una nostalgica dissipatio sacrificalis; il proprio corpo nel mondo, da inappuntabile kafkiana durstiges Tier. Tertium datur: che sia costui il vero ebbro?

Valerio von Valeriental

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NNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNN HORASEXTAFARMACOPERACONCLUSIVAPROGETTONELLACOLONIAPENALEVI
DEOFILMICOFRAMMENTOINREGRESSENTBILDUNGNONCHIEDETESPIEGAZIONI
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QUESTOE'ILDIARIODELTEMPOCHERESTADOPO
L'APOCALISSIBAROCCADEISEGNICOLTIMALCOLTIINCOLTI
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ILCRONICODIARIODELL'IDIOTACHESISVEGLIADAVANTIALMURO
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ELAGABALICOSMEMORATOCHERICOMINCIADACCAPODATESTADACORPO
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Crestomazia tribunalizia dedicata a La sesta ora*

è un film violento e diseducativo, B.P. e F.B., padri di famiglia;

...mi sono commosso. Non ho pianto, ma ho sudato..., Mario T., outcast del villaggio natale;

checché tu ne dica, hai fatto proprio un bel lavoro..., Marco L., musicista e teologo;

è un compito in classe, X, rockettaro colto;

complimenti per la Ricerca..., Y, democraticamente eletto;

...minchia, due attori strepitosi abbiamo visto..., Z, manager del Povero Teatro;

si può affermare che il Nobili stia decisamente maturando, anche se il suo prodotto non raggiunge ancora lo standard estetico-culturale del nost' Milàn, videorganizzatori;

pensavo peggio, Luca, senza ulteriori qualifiche;

...è senza senso come un quotidiano dimenticato in casa che ti capia di rileggere dopo mesi, è vuoto e ripetitivo come la tv, barbuto spettatore livornese;

mi hai fatto sentire il tempo, sconosciuta.


*OROLOGIO DI PASSIONE, TEMPO SOSPESO DEL DEMONE MERIDIANO, IL VISIBILE COLLASSA NELLE TENEBRE, SOLE ACCECATO DALLA KENOS IS DEL DESIDERIO...



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