La peste dell'abitudine e le farfalle

I. Non manchiamo di comunicazione, al contrario, ne abbiamo troppa, manchiamo di creazione. Manchiamo di resistenza al presente.
Ascesi è parola antica: per ora, la chiameremo materialismo. Seguendo la suggestione e lo stupore di una consapevole ingenuitas teoretica - controcorrente, forse, rispetto al terror panico di tutta la cultura novecentesca, icasticamente stigmatizzato da René Girard - ci abita la necessità di porre domande non avviluppate nella presunzione aprioristica della complessità e, comunque, sfuggenti alle maglie di specialismi e idioletti: al rischio dell'eclettismo o della coazione a fuggire, fa eco l'esigenza di pensare e trasformare (si traduca: mettere a distanza e balbettare) l'ovvietà dei linguaggi e delle forme di vita, linguaggi e forme cristallizzati nei circuiti chiusi in cui sapere e potere "si comunicano". La prassi creativa, il continuo movimento del fare e disfare - il mondo e se stessi, come nell'universo kabbalistico luriano, che prevede il ritrarsi assoluto (Tzimtzùm) dell'artefice - rappresentano un laboratorio privilegiato per interrogare la rivoluzione permanente (formula da esibire nella sua collisione interna fra accezione storiografica ed astronomica) del desiderio, senza troppo indugiare sull'anatomia semiotica e sulle spesso comode superfetazioni ermeneutiche, che rimuovono dall'alchimia dei segni ogni traccia di vita spasmodica gioiosa imperfetta. Sperimentare - non soltanto descrivere - permette forse di vedere con occhio limpido, ma non spassionato, i fallimenti di ciò che, con sempre maggiore fastidio nei confronti dell'attualità, chiamiamo politica, giustizia, convivenza civile. Sperimentare indica una tensione irresponsabile verso il buon senso e l'inerzia, una tensione che si sa ancora capace di immaginare e incarnare modelli di tempo ludico irreversibile, rifiutando il postulato biecamente contemplativo dell'inaggirabilità di Reale e Presente, la vacanza colposa e psicolabile della Ragione o l'insonnia di una Ratio asservita alla meccanica astratta e cinica del calcolo.

II. Non ho nulla da comunicare, mai, a nessuno.
Ascesi e materialismo devono declinarsi, innanzitutto e per lo più, nel ritmo quotidiano della resistenza, che non si traduce in un orizzonte di attesa e men che mai di polemica frontale, atteggiamenti che comporterebbero, al di là delle intenzioni, l'accettazione della sintassi del nemico. Resistere è di per sé potenza costruttiva, che si raccoglie in una stasi momentanea dello sguardo, sottratto alla deriva vertiginosa dell'esteriorità (ex-sistere). Resistere è "persuasione" antiretorica (non c'è cosa fatta, non c'è via preparata, non c'è modo o lavoro finito pel quale tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c'è ma devi crearla, devi creare il modo, devi crear ogni cosa: per avere tua la tua vita), è sisifea levità dell'idiota, che sa ogni istante "novum" (impossessarsi del presente, vedere ogni presente come l'ultimo). La cognizione del dolore - ovvero del contesto relazionale storico immaginario - può essere allora capovolta in arte della guerriglia. Si consideri, a titolo di esempio marginale, il détournement della frase kafkiana posta ad epigrafe di questo secondo paragrafo: prosciugata della sua connotazione psicologica e diaristica - zum letzten mal Psychologie - si trasfigura in assunto stilitico, estremizzando il bisogno etico ed estetico che Gilles Deleuze reclamava come "conditio prima" per la comunicazione: le problème n'est plus de faire que le gens s'expriment, mais de leur ménager des vacuoles de solitude et de silence à partir desquelles ils auraient enfin quelque chose à dire. Les forces de répression n'empêchent pas le gens de s'exprimer, elles les forcent au contraire à s'exprimer. Douceur de n'avoir rien à dire, puisque c'est la condition pour que se forme quelque chose de rare ou de raréfié qui mériterait un peu d'être dit. Materialismo dei padri del deserto, geometrica ascesi dei mistici: il loro stile, inscritto sulla pagina transeunte del corpo, è rigor vitae, disancorato da modelli universali e consapevole del proprio ininterrotto ricominciamento. C'è una parola in Meister Eckhart che allude a questa alterità assoluta del pensiero singolare inarrestabile: Entbildung, luce accecante che potremmo variamente scomporre, senza imbarazzi filologici e con prisma di pensiero non riconciliato, in: disimmaginazione, controinformazione, allontanamento dall'ordo rerum social-spettacolare, tabula rasa percettiva, oblio attivo contro memoria miope e coatta; e, ancora, carattere distruttivo, ovvero - altrimenti detto - contrabito all'ovvio. Quanto precede può riassumersi, in sintesi metaforica, nella scrittura intesa come modello (exemplar chirografico) di divenire, in cui la figura del deserto, irriducibile a tappa di un percorso dialettico, è sobria tecnologia del sé e locus coeruleus onnipervasivo, dimora neurobiologica dell'attenzione, che un tempo fu preghiera spontanea dell'anima e adesso è soprattutto macchina per cancellare il volto narciso - potere dell'immagine e immagine del potere (the images have to be contradicted, pur frequentandone la jouissance e avendo già scontato ogni necessario pedaggio iconoclasta) - e per scardinare l'identità dell'autore e del nome proprio, cifre e garanzie del riconoscimento sociale. La scrittura plasma lo stile dello stilita (persino nella sprezzatura che si dice: oggi il mio stile è non avere stile), facendo esercizio di resistenza rispetto alle forze reattive (surveiller jusqu'en en nous le fasciste, et aussi le suicidaire et le dément), non limitabili alla semplicistica contrapposizione "metafisica" di un dentro e un fuori. L'armonia che vagheggiamo come terminus ad quem musicale per il nostro incerto cammino è relativa alla nostra disarmonia, è la fata morgana della migrazione nello spazio liscio del deserto: no hay camino, hay que caminar, Wandrer ohne Ziele, come il leitmotiv di un tema che dispera del proprio soggetto. Il fallimento nella comunicazione tra "cuspidi" non riguarda questa disperazione fisiologica e vitalissima, ma il malinteso che manda tutto in rovina, la paura di non poter far sapere, forse, quanto fu bello ridere prima di morire. Il problema filosofico della comunicazione si pone, senza possibilità di scioglimento o decisione definitiva, nella differenza di potenziale fra la trivialità del postulato che afferma: wer redet ist nicht tot, chi parla non è morto; e il brusio, talvolta intollerabile e tossico, della parola mondana, materiata di rimozione dello stato d'emergenza costante che chiamiamo vita: bobòk bobòk bobòk... come continuano a masticare i morti impenitenti di un racconto dostoevskiano. Arte delicatissima e circostanziata di aperture e chiusure, comunicare è, parafrasando Sergej Esenin, aver qualcuno con cui dividere (mitteilen) la felicità e lo stupore di sentirsi ancora vivi.

III. Comunicare fa ridere.
La madre, madonna con bambino, guarda il volto del figlio che si illumina di un sorriso. L'unica chance di comunicazione senza clausole restrittive, censure formali o teleologie pragmatiche parte da questo luogo vivo del sentire e perennemente vi ritorna. Comunicare fa male ogni volta che viene inchiodato alla croce del tempo, che sbrana nella sua piega più infame, la fretta; ogni volta che il moltiplicarsi dissipato di progetti e similpensieri ci affanna nella distrazione, facendoci invocare una piccola musica o un vasto silenzio, che ci separino anche da noi stessi. Ma comunicare fa male, ancora, perché si esprime come crudeltà esuberante di pensiero e comportamenti, che disturbano l'ipocrisia della quiete pubblica e la familiarità ottusa dell'automatismo dell'esistenza, automatismo che non si rivela mai a se stesso, finché incrinature, traumi o lento lavorio di consunzione non ci ricordano con violenza che all life is a process of breaking down. Videmus itaque Mentem magnas posse pati mutationes, et jam ad majorem, jam autem ad minorem perfectionem transire, quae quidem passiones nobis explicant affectus Laetitiae et Tristitiae. Per Laetitiam itaque in sequentibus intelligam passionem, qua Mens ad majorem perfectionem transit. Per Tristitiam autem passionem, qua ipsa ad minorem transit perfectionem. Porro affectum Laetitiae, ad Mentem, et Corpus simul relatum, Titillationem, vel Hilaritatem voco; Tristitiae autem Dolorem, vel Melancholiam. Sed notandum, Titillationes, et Dolorem ad hominem referri, quando una ejus pars prae reliquis est affecta; Hilaritatem autem, et Melancholiam, quando omnes pariter sunt affectae. Hilaritas - francescana o spinoziana che sia - è il terreno materialista delle comunità di amici e amanti, vento di metamorfosi continua, che investe corpi passioni pensiero come festa e gioco. Hilaritas, in quanto dimensione affettiva olistica, comprende la caducità del corpo e il negativo delle relazioni umane (transitio ad minorem perfectionem), l'entropia dell'universo nel tempo e la malinconia della finitezza, e pertanto non può confondersi con il fondale illusorio di un pascaliano e barocco divertissement. Più si è di santi, più si ride: se a questo motto facciamo seguire la suggestione dell'assonanza - sanctus et seiunctus -, la separatezza che rifiuta perversione sublimata del marketing comunicativo e riduzione del panorama antropologico a mera variabile di funzioni del capitale (ceux qui parlent de communication quand il n'y a que des rapports de choses répandent le mensonge et le malentendu qui réifient davantage) diventa canto di Josefine, l'estremo regalo che ci fatto Franz Kafka - un canto spesso distorto faticoso maldestro, comunque irrinunciabile - complementare alla necessità di una voce desiderante collettiva e differenziata. Come si configurino le forme e le dinamiche di questa voce, dipende dal respiro dei singoli, da complicità luminose, da sovversioni impercettibili e spesso non sospette. Non è il nulla della morte a persuaderci dell'ineluttabilità del peggio, ma il concatenarsi disamorato dei desideri umani, il torvo rifuggire degli sguardi, la catena di generazioni senza abbandono animale o follia divina, la muffa contabile di bocche voraci, bocche murate dal mercato delle ore. La passion de la création, la passion de l'amour et la passion du jeu sont à la vie ce que le besoin de se nourrir et le besoin de se proteger sont à la survie. L'unica vera infinita Vanitas è lo Spreco delle occasioni per resistere, imparare a tacere, comunicare.


Ciò che precede vorrebbe avere la natura del Flaschenpost celaniano, del messaggio in bottiglia - e quindi un eventuale carattere fàtico e performativo - piuttosto che assumere il ruolo maldestro di illustrare un frammentario quanto superfluo manifesto programmatico per quell'occasione di incontri che prende il nome di Comunicare fa male. Non ci si chieda, pertanto, un rigore metodologico o formale consacrato da qualsivoglia abitudine "informativa". La rassegna di passi "altrui" è orbata di riferimenti ai luoghi e agli autori, perché la citazione deve trovar la sua ragion d'essere nel percorso della scrittura, anche senza indicazione di paternità. Comunque, palesata o no la fonte, pensare citare commentare restano sempre, anche, modi del ringraziare *. Per concludere: tra l'assunto generico e cautamente pedagogico di fornire suggestioni, strumenti concettuali, occasioni percettive per sfuggire al "cerchio incantato" della cosiddetta cultura di massa, e la prassi anarchico-velleitaria di un continuo sovvertimento della prigione di ordini simbolici e di inerzia civile - che caratterizzano questa nostra esangue e al contempo sanguinosa fin de siècle - sembra spalancarsi una distanza incolmabile. Sta all'immaginazione, alla volontà e al piacere di chi partecipa (di chi partecipa, in primis, dell'urgenza e del lusso di questi problemi) smentire, pur nell'estrema umiltà della situazione, ogni facile tentazione disfattista (sit venia verbi). La gioia problematica che si conquista giorno per giorno non ha nulla a che vedere né con la dyalecticorum garrulitas e con l'ironia supponente di tanta classe intellettual-frustrata o intellettual-dominante, né con il sarcasmo del presunto vincitore. È vino di luce del sole che si consuma instancabile; è azzurro del cielo eminentemente tragico e inattuale. A buon bevitore poche parole...

Federico Nobili


* E non per restituire il maltolto, dunque, ma per rendere grazie, nominiamo qui di seguito tutti coloro che sono stati saccheggiati, letteralmente o per parafrasi, senza il pudore grafico di faticose virgolette: Antonin Artaud, Karl Barth, Georges Bataille, Carmelo Bene, Gottfried Benn, Walter Benjamin, Gesualdo Bufalino, Massimo Cacciari, Guy Debord, Gilles Deleuze e Félix Guattari, Erri De Luca, Francis Scott Fitzgerald, Enrico Ghezzi, Franz Kafka, Jacques Lacan, Nicolas Malebranche, Carlo Michelstaedter, Charles Olson, Francesco Petrarca, Edoardo Sanguineti, Baruch Spinoza, Georg Trakl, Raoul Vaneigem.



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