AMNESIARCA
pubblicato sulla rivista Più luce
comunicare fa male - di qui non si scappa - di qui non si fa che scappare - arte della fuga - apri la finestra, vento di tramontana - tramortito e sciroccato, provi a chiudere, serrare gli infissi - doppio vetro - vetri azzurrati affumicati smerigliati - allontanamento abbandono distacco - cinema incipit
Non ho mai sognato. Non mi sono mai ricordato un sogno. Al risveglio tutto uguale, nessuno stupore. Tuo nonno. Mi dici al telefono che tuo nonno era sicuro di non avere mai sognato. Ogni vecchio che muore è come una Biblioteca che brucia. Un film infinito non è più un sogno. Un film infinito.
Sempre al telefono. Digiti una lettera commerciale. Ascolto il ritmo delle tue dita sulla tastiera, cerco di ricopiarlo sulla mia. Ridi. Sulla schiuma della risata si forma un suono lungo, un fiato metallico che si solleva da terra. Una u dilatata, che riverbera nello spazio tra le tue labbra appoggiate al microfono e il mio cranio appoggiato all'auricolare. Ascolto, senza poter più scrivere. Dev'essere il varo di una nave, mi dici.
Mi sono appena alzata o devo ancora dormire? Mattina. Una vecchia in piedi accanto al letto. La nonna di Beatrice. Pronuncia questa frase a qualcuno che è entrato nella stanza. La pronuncia per se stessa e nel farlo la sua voce non le appartiene più. Nell'immobilità si spalancano frantumi di luce bianca. Di lì a poco si dirà: ricorda tutto del passato, anche quello più remoto. I morti sono ancora vivi. Il suo nome spesso non lo sa. Dimentica subito quello che le si è appena detto. Dimentica subito quello che ha appena fatto. La sua età è quella di una bambina. A volte piange in silenzio. E quando le chiedi perché, non sa rispondere.
Non cambierà mai Continuerò a camminare avanti e indietro Come un lupo Su qualsiasi pavimento - così mi ripetevo.
La vecchia è sempre in piedi. Che dirle? Le parole colano dentro la sua testa come acqua nell'acqua. Dilagano nello spazio. La sua vertigine: non sapere più che cos'è fuori, che cos'è dentro. Il volto atono ingoia la tua voce. Ti specchi in quella cancellatura di ogni febbre di vita. Le tue parole cominciano ad uscire a scatti. Diventano rarefatte. Adesso guardi e basta. Che cosa guardi? Una montagna che ignora le leggi della geologia. Una stella che ha preso a bruciare lenta. Sempre più lenta. L'erba dei capelli disegna onde impercettibili sul cranio alitato dagli spifferi che penetrano la casa. Chiudi la porta, chiudi la finestra, spranghi l'inverno con gli abbracci, con i libri, con i voli, con i biglietti da centomila, con la traiettoria d'insetto dei viaggi, con la fame placata di ora in ora, con la sete della bottiglia senza fondo. Proietti il tuo film su quel corpo dritto immobile, macchina degli occhi che registra variazioni d'ombra, smalto di colore su forme lisce e ruvide. Un brivido sottile come un serpente invisibile percorre con la sua gelida lingua, vertebra per vertebra, l'intera lunghezza della tua spina dorsale, dalla spaccatura in basso fino al collo. E' la stessa corrente d'aria che solleva appena le ciocche grigie sulla fronte della donna. Quanto durerà ancora tutto questo? Quando ti deciderai a lasciare la stanza? E come lo farai? Quale sarà il tuo sguardo per sottrarti alla radiografia involontaria delle sue pupille?
Poggi la pianta dei piedi sul divano rivestito di panno bianco. Le gambe nude, divaricate. Gli odori che salgono al cervello. Prima di sdraiarmi sopra di te, prima di entrare nelle tue bocche, lingua e sesso che sondano il tuo infinito insaziabile, lo sguardo galleggia, finalmente senza parole.
Perché non chiedete ad un albero di aggiornarsi? La sua intelligenza: un turbine di polvere setacciato dalle foglie. La sua ingenuità: aver compreso tutti i libri, aver succhiato tutte le immagini, aver captato tutti i suoni.
La rivoluzione continua, sempreuguale. E' una parola antica, rivoluzione. Invecchio. Un tempo avrei voluto incominciare a girare un film: mi sarei ripreso dieci secondi al mese, per tutta la vita, ripetendo le parole: invecchio invecchio invecchio. Troppo faticoso. Ogni progetto è troppo faticoso, adesso. Sono tornato oggi da Bologna. Parlato eccessivamente. Esibito saggezza d'accatto, svolta dei trent'anni, maschera di serenità, controllo. Pensato con rabbia alla stupidità meccanica delle tossicodipendenze. Moraleggiato sull'eroina. E stanotte la mia stupidità m'è rimbalzata addosso, schiacciante. Stanotte il mio sangue, più lento per la bassa pressione, si ritrova denso di tossine distruttive, senza alcun bisogno di chimica esogena.
Rientro da una mediocre visione cinematografica. Cielo terso. Orione fa la guardia al portone di casa. Alzo gli occhi, ficco lo sguardo dentro la parola: Orione. Non vedo l'innominabile stellare. Dico: vertigine del buio, distanza irrespirabile, disumana - ma non sento nulla. Al telefono ascolto tuo figlio che ti succhia il capezzolo. Stacca i suoi piccoli denti dal seno e prende ad esibirsi nella retorica incomprensibile di suoni inarticolati. C'è una sola voce, un unico fiato compresso attraverso bocche diverse. Questa frase ispirata e tronfia l'ho segnata su un bigliettino ieri l'altro sera, semiubriaco, dopo essermela ripetuta più volte in testa, camminando lungo le strade della città, sotto i portici che riparavano maldestramente dalla nebbia enorme.
Non abbiamo granché in tasca e non vogliamo lavorare.
Mi chiedono di raccontare storie. Perché non scrivi un romanzo? Osservo il piano della scrivania. Un volume sul pensiero anarchico, qualche copia di Amleto, Walt Whitman, i primi racconti di Conrad, vitamine A, C, E, gocce omeopatiche, ginseng, baci perugina, due ricciarelli induriti, le meditazioni scorpioniche di Sergio Solmi, un'agenda vecchia e quella del ‘99 ancora vergine, ricette appunti fatture, una bottiglia d'acqua semivuota, la stampante spenta, le porte del paradiso, tragedia dell'infanzia, scrivere bop, confezione di vaccino in bustine abbracciata da un blocchetto d'assegni (che ora sarebbero a vuoto), piccolo pistacchio infilzato da una puntina nera, la cipolla, lettere, tre cartoline di Egon Schiele, una di Francis Bacon, Ofelia che galleggia, le cuffie abbandonate sulla scrivania, la musica esce a tutto volume. Fine del romanzo.
Calcolare le asimmetrie nella vita della materia subatomica. Proiettare geometrie di forze che si attraggono e respingono senza macchia di psicologia. Ingoiare millenni d'illusione collettiva nella "o" vuota di dio. "A fine revolution": la ruota che gira. Quando dischiudi le labbra e sorridi all'infinito presuntuoso dei miei verbi, che cosa accade nella fornace del cervello?
Noi non manchiamo di comunicazione, al contrario,
Gilles Deleuze e Félix Guattari |
Comunicare fa male: per eccesso informativo e saturazione tecnologica; per trasmissione unilaterale e deresponsabilizzante di norme, decisioni e provvedimenti "democratici"; per omologazione delle occasioni pubbliche di "espressione" qualunquista e spettacolarizzata. L'attività creativa e lo studio dei processi che permettono di potenziarla sono il banco di prova per misurare l'effettiva necessità della cultura, in un'epoca che sembra concedere uno spazio sempre più ampio al cosiddetto "immateriale", salvo poi relegarlo ad innocuo décor delle logiche mercantili. Ma comunicare fa male anche se viene inteso come esigenza autentica di ascolto e capacità di accogliere l'altro da sé. Il "male", in questo caso, indica la rottura di identità rigide, di abitudini ed opinioni preconcette, e rappresenta, paradossalmente, il principio vitale che costituisce la fase più avventurosa e rimossa nella formazione del soggetto: la curiosità e il piacere del bambino nei processi conoscitivi, affettivi e relazionali. Le dinamiche sociali (famiglia, scuola, lavoro, "tempo libero"), che dovrebbero stimolare il recupero continuo di questa dimensione comunicativa originaria - lo stupore della scoperta e il lavoro giocoso della ricerca - spesso per comodità, interesse, paura ed ipocrisia la soffocano e reprimono, relegando la pulsione mimetica ad una apologia del ‘reale', giudicando ingenua o pericolosa la spontaneità espansiva e polimorfa del desiderio. Comunicare fa ridere: la complicità delle onde, la conversazione infinita di amici e amanti. |
D'ora in poi voglio scrivere in un presente senza futuro. La forchetta resta sospesa a metà strada tra il piatto e la bocca. Infiocinato e soffice un pezzo di torta di mele. Ti chiedo una penna per trascrivere la frase e me ne ricordi un'altra, frutto di una svista: dalle stelle aperte muggivano le vacche. Imperfetto. Il tempo. Il tempo è imperfetto. La vacca stellare continua a muggire. Adesso inizio. Lo prometto. Stavolta vi racconto una storia. Anzi tre. Forse addirittura quattro. Così vi distraete. Anche se preferirei dormire. Qui fa un freddo becco. Dormire tutto l'inverno. Qualcuno potrebbe almeno avere la gentilezza di avvertirmi alla sua fine. Dell'inverno, intendo. Qualcuno è sempre tanto solerte e sconsiderato da farlo: su, alzati, è tardi... E nella torpida lentezza del risveglio, scivolerei direttamente dentro la culla sospesa dell'estate. Lasciamo perdere le mezze stagioni. Favorevoli soltanto all'ulcera. E alla cervicale. Estate. Sta piovendo. Di quel palazzo che vedo alla mia destra è rimasta soltanto la facciata che dà sul fiume. Mentre t'aspetto, tengo il motore acceso. Per il riscaldamento. Non è estate. L'acqua precipita gelida fitta e sottile. Preferisco quella salata. Lungo la schiena cola sudore. Ti vedo arrivare nello specchietto. La forza del pollo, come diceva un grande pugile. Dobbiamo picchiare l'avversario prima che si accorga del pollo che è in noi. Prima che si accorga che dentro non c'è niente. Che dentro siamo vuoti.
Parli perché hai la lingua in bocca. Non mi pare poco. La lingua. La bocca. Legittimare, giustificare - tutto il giorno così, per se stessi, per gli altri. Bò bò bò - molto dico e poco fò.
Prendo tutte le parole soffiate fuori, sfiatate. Le parole solo pensate, impazzite nel cervello, scorpioni e tarantole. Le bestie mute che avvelenano il sangue come un lampo. Un lampo. Dietro alle palpebre luce di ferro rovente, non fuori, non davanti. Spupillo l'occhio e la parete assolata di calce e magnesio è dentro. Sento voci piegate, schiacciate a terra, mano che preme, braccio che spinge, colpisce, piede che spezza e frantuma. Braccato dai loro cani, morso profondo nel collo, denti senza labbra, lingua di rasoio che non conosce lo stupore del tu. Se fossi diretto, se fossi chiaro, sarei complice di quelle grinfie. Di quel caino afferrare. Non ricordo. Non c'ero. Non accordo al muscolo del cuore nessuna musica di segni, non c'è geometria ch'io riesca a tracciare - treno di storia piombato. Piombo che affonda. Mare divoratore del dire. La parola. La parola consegna figure, invece di bruciare.
Non ho voglia di fare storia: ogni genesi è un alibi.
Appaiono improvvisi sul vetro, puntiformi, silenziosi. Qualcuno si allarga, smarginando i contorni secondo linee di fuga disegnate dalla velocità, plasmate dal vento. Tranne quelli più grandi, non hanno colori differenziati: terra slavata che s'incolla alla superficie del parabrezza. Terra d'ombra. I tergicristalli possono poco contro la loro resistenza alla cancellatura definitiva. Sono arrivati i primi insetti volanti dell'anno. Te ne accorgi sull'autostrada, grazie a quella costellazione di impatti senza eco. Primavera. E' marzo. Mese d'abbandono, l'anno scorso, di spremitura degli occhi. Il girotondo dei mesi, e tu che non ci sei più, e tu che sei sempre uguale. Non torna niente. Tutto torna.
«Potrebbe darsi che Dio abbia impresso nel mio spirito un'idea così chiara di sé, da farmi dimenticare il mondo per amor suo e da farmi amare gli uomini come me stesso. Ed è evidente allora che la costituzione di un'anima siffatta è irriducibile a tutto ciò che si chiama male: ed è ovvio, perciò, che non la troverete in alcun soggetto.»
La festa del tesoro nascosto - Benedetto Spinoza secondo Elsa Morante.
Sfinitezza. Qualcosa ti fa da specchio ustorio - un dolore improvviso che azzanna la carne; un gatto schiacciato sull'asfalto notturno; l'avvicinarsi rapido dell'equinozio d'autunno, che trascolora i rami e li sfoglia: percezione della transitorietà che ferisce silenziosa, tagliente; percezione dell'incessante passaggio, che culla come una ninnananna. E s'accompagna ad uno sfinimento, la fatica immaginaria di chi, vivo, beve vastità di viaggio sapendo di non poterlo esaurire.
La vanità lotta con la vergogna. La vanità vince. A proposito della guerra. A proposito dello scrivere. Che cos'è pensare? Scire per causas? La maggior parte del nostro corpo è formato d'acqua. La maggior parte del nostro sapere è sterile.
Non c'è nessuno. Nessun nome da nominare. Adesso il guanto è senza mano, capisci? Un guanto di lattice sul tavolo operatorio. Guardalo, sforzati. Guarda. Fissalo con attenzione. Pesante e freddo come il marmo. Una pietra viva, dicono. Il pezzo staccato di un insetto, piuttosto. Prima si tendeva sottile, al limite dello spasimo, compenetrato da quell'arto forte, deciso, sicuro. Adesso è rivoltato, il dentro fuori, qualche palpito d'inerzia, poi fermo, immobile. E se il tuo sguardo si concentra a lungo capirai quant'è pesante quella cariatide. Non stringe, non carezza, non colpisce, non sfida più nessuna legge. Si adatta al piano orizzontale del suo abbandono con la smemoratezza dei mortali.
Amenofi IV, Ekhnaton. E sua moglie Nefertiti, labbra sensuali di quarzite, mandorle d'occhi cavi, ipnosi. Il sole, il sole incandescente del qui e ora, 1500 anni prima di Eliogabalo. Il sole senza necessità di violenza.
Infilo il mignolo destro nel buco dell'orecchio destro. Lo estraggo rapido, uncinando con il polpastrello l'orlo di carne del meato acustico. Schiocco secco di bottiglia stappata. E' vuota, dico. Vuota. Sussulto di risata breve tra gli spettatori. Immagino che a qualcuno rimanga un po' di schiuma bianca agli angoli della bocca. Esco. Metto in moto l'automobile. Credo di farlo. L'asfalto solletica i pneumatici. L'abitacolo cigola e sfreccia. Quanto costa un anno luce di benzina?
Federico Nobili
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