BUONANOTTE INFINITA
Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano
Questo libro è stato stampato
per la terza edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1998
Federico Nobili
BUONANOTTE INFINITA
"...agli occhi di quella bella ingrata, di cui mi
tengo il nome dentro la chiostra dei denti..."
C'è uno che ha cominciato a scrivere un diario a ventisette anni. Non lo abbandonerò mai più, dice. E io, con trenta giramenti di palle attorno al sole, che ne faccio della mia vanità?
Ritrovo qualcosa come un inizio, dal titolo Passione precisa:
"Che fare? Violenza statica di settembre afferra la carne prima delle foglie e senza colore. Nei gesti indolenza e saggezza, il tempo ritorna, mai, non ritorna, vuoto, lo chiami vuoto, questo equilibrio equinoziale, questo autunno ancora verde, questa età belva di silenzio, vuoto il chiacchiericcio delle illusioni che, prodigo, hai largito ai giorni, alle stagioni. Non si ha più musica in sé per far danzar la vita, scriveva qualcuno. E questo vuoto musicale lo riempi con parole fradice d'estate, corpi che non desideri più, stelle e notte e cielo che hai pudore a nominare. Ti nascondi nel bianco, fuori dalla città, e trovi il tuo popolo, non lo trovi più, non capisci perché lo cercavi, quale calore, quale fiato, quale complicità inseguivi, quale giardino paradiso e mare scorgevi nel paesaggio umano. Niente mare. Onda dopo onda, furibonda o calma o tenebrosa, del mare ti incantava la voce senza storia, nessun passo conservato, nessuna traccia, nessun confine. Presunzione di una solitudine senza fame e vestiti laceri e sporcizia, senza puzza di sudore e sete. Stilita ozioso di una malinconia libresca, intagliata minuziosamente nel tuo codice genetico. Mostro di un dio cane rabbioso, famelico di infelicità astronomicamente grottesche, dio traghettatore di morti soidisants viventi. Padre del deserto. Padre sterile di luce, sin dal primo giorno che luce ferì gli occhi suoi.
Voglio la carezza della tua mano, la destra, una carezza, una mano, qualunque, non voglio, deve arrivare da sola, non chiamata, allo sfinimento dell'ennesima preghiera, non deve, arriva e basta, furtiva. Mi brucia. Brucia la pelle. E non è metafora questo bruciare: avete mai provato? la sorpresa: di un gesto, di uno sguardo, di una presenza... Avete chi? Con chi parlo mentre scrivo?
Ho trent'anni. Non ancora, per la precisione anagrafica. E ancor di più, se conto l'apprendistato uterino. Trent'anni: sono loro che hanno me, che mi possiedono e consumano, in questa altalena di fare e disfare, in questo respiro faticoso e leggero. Oggi guardavo i boschi e il profilo dei monti da una panchina in fondo al paese. Da mesi non mi fermavo, travolto dall'ansia dei progetti e del sopravvivere. Ed erano almeno in due seduti sulla panchina: il bambino della camera chiara e del cinema puro, disincarnato; e l'uomo circondato d'azzurro nella pacata agitazione possente dei platani, macchia rugginosa immersa nel verde, paralisi del futuro. Al piacere dell'idiota contemplatore si sovrapponeva il panico del tempo immobile, il prima l'ora e il dopo disossati da una forse troppo brusca frenata del fare. Ascoltavo la mia voce dialogare, distante. Tenevo a bada le bufere elettriche che mi avrebbero portato a questa pagina. C'è qualcuno dentro che mi dice: non andare oltre, chiudi porte e finestre, saluta con un sorriso questa giornata serena e dai pace alla bestia. Qualcuno che mi accompagna da molti di questi trent'anni, uno dei tanti, in fin dei conti, della folla che usurpa il mio nome. Che fare? mi chiede. Che altro se non smettere di fare? Di accumulare cose idee cibo malattie parole complicità e delusioni? Che altro?
Una finestra vuota. Le prime immagini: neve che cade, una fiaba, mia nonna. E poi un incendio all'imbrunire, sulla cresta del monte, rosso, selvaggio, speculare al tramonto; che si fa ipnotico, muto e minaccioso, una volta scesa la notte. Già carico di pregiudizi e di cinema: saranno gli Indiani? Caleranno sulle nostre case durante il sonno? Che cosa vuol dire che ci faranno lo scalpo? E ancora: finestrini, parabrezza, l'immagine movimento: quattro o cinque anni, sull'autostrada per Pistoia, la faccia incollata al vetro freddo dell'automobile, all'apparenza malinconico, osservavo, tra i vapori del mio fiato, i canali che sfrecciavano davanti a me, proiettando eroico le mie gesta di Tarzan timido e minuto che salvava dalle acque e dai coccodrilli l'amata, la bambina con il piccolo ferro da stiro che abitava accanto a mia zia e che tra pochi chilometri speravo di rivedere. Le finestre dei suicidi, spalancate senza rimedio. Le finestre desiderate, che ancora inseguo, notte e giorno. L'astronomo dodicenne, stupore e infanzia rinnovati: il cielo, le nuvole, il sole. Balbettio di parole che la nostra intelligenza proterva censura per timore d'ingenuità. Visione d'infinito, infinito del desiderio di vedere. E poi la finestra di luce incorniciata nella carta, a colori, bianco e nero, oppure ustionata nei grigi: diffidenza fascinata per le foto, imago mortis medusea, irresistibile.
Ma quale nostalgia può avere un idiota?
Come in un film - pelle pellicola di piacere segmentato e sconnesso, passione geometrica precisa che scrive il tempo e il movimento - ogni riferimento a fatti o persone...".
Troppo lirico.
Ogni mio desiderio è un disordine. Ed ora anche l'ultima finestra mi ha abbandonato. Fine, finestra. Che cazzo può fregarmene di scrivere un libro? Uno scrive cazzo per sfogo, accondiscende alla scurrilità, crede di liberarsi, s'intruppa e si nasconde, dà timido bagliore ad una ben più profonda violenza. Cuore di tenebra. Universo d'insoddisfazione vertiginosa che gira intorno al molle duro del sesso. Ogni desiderio è un progetto che nasconde la sua ferocia, la sua brama di rapina. Sei troppo astratto, troppo astratto! Che ci posso fare se trent'anni di potenza dell'astrazione m'hanno reso un coglione? Oppure no, semplicemente un isolato. Beh, qui si comincia a compiacersi. Uno si difende, e tu, subito, gli dai del narciso, dell'onanista. Uno usa la logica, ingoia e assimila mezzomi-lione d'anni di ominizzazione imperfetta, e tu lo ricacci nel buon consiglio pedante del lassa perde, dell'inutilità della storia, della vacuità qualunquistica della cultura. E non dire utopia che ti caccio via... Io sono arcaico. Ridete ridete... io sono antico: non ci sono proprio qui, perché non mi va ‘sto sfilacciamento. Giovani e vecchi esangui impegnati a dissacrare, o più banalmente, ancora, a riempirsi il sacco della presunta maturità del disincanto. Stronzi. E soprattutto: stitici. Tutti sotto l'unica bandiera stracciata del realismo pragmatico, del moderno post mortem. Il guaio è che comunicare fa male, già, ed è molto più comodo ripararsi sotto l'ombra delle abitudini. Non siete uomini d'onore. E nemmeno donne. Vigliacchi. Vigliacche.
Dal fondo della sala qualcuno osa: buffone! Un altro: paranoico!
Sempre più faccia da clown, il nulla è il mio specchio, scriveva l'ultima Ofelia del ‘900. Rispondo alle voci tirando fuori la lingua. Disegnando croci nell'aria, come ai vampiri. E replicando in falsetto i goffi tentativi di offesa: buffoooni... paranoooici...
L'amore mio dolcissimo mi ha lasciato. Dice mi vuole ancora bene, ma che è tutto finito. E così sono entrato come un fulmine in una disperazione da canzonetta. Voglio morire perché... perché voglio morire e basta, senza dare più tante spiegazioni: a spiegare e capire e ascoltare l'ho presa anche troppo nel culo, e in un modo che mi fa decisamente male. Sono questa ruggine del palato, questo vomito trattenuto, questa intelligenza tagliente, impugnata con pessimo tempismo dalla parte della lama. Sono questa sfiducia accumulata: il macrocosmo, il mediocosmo e il microcosmo, a ruota, uno dopo l'altro, con rapidità implacabile, m'hanno rubato soldi, schernito progetti, prosciugato forze, attentato alla salute, carpito aspettative, tradito in ogni ordine e modo. Pirla, direte voi. E sia. Non vi darò i dettagli. Questo non è un altro tribunale. Cercherò di riguadagnare una sovrana sprezzatura. Rifiuterò l'esibizione delle prove. Ad anatomizzare cadaveri si finisce per puzzare di marcio. Preferirei alzarmi da questo letto di compiaciuta autodistruzione e smargiasso - con accompagnamento musicale di Prokofiev - afferrarvi per testicoli ridicoli e peli pubici dei vostri ventri femminili, portandovi lungo le strade come danza di mediocri pupazzi, per far ridere bambine e bambini rimasti. Preferirei di no.
Eri molto bella l'altro giorno sul terrazzo. Ti guardavo dal basso verso l'alto. Non capivo le tue parole. Forse parlavi piano. Forse ero confuso. Il tuo volto era luminoso. Poi mi è sembrato si rabbuiasse quando ti ho fatto il cenno del telefono, con la mano. Chiamami, ti dicevo. E ti ho visto scomparire quasi disturbata. Almeno questa è stata la mia impressione. Ma eri bella anche in quel cambio di luce. Non volevo dirti altro.
(Comporre il testo come raccolta di lettere a diversi destinatari, realimmaginari; dichiarando l'impossibilità e l'incapacità di costruire un'autobiografia sul modello organico e totalitario del romanzo di formazione; la maggior forza intensiva delle lettere; l'obbligo di una scrittura singolare, ad personam; frammenti di specchio che riflettono una vita di frantumi, magari per giungere alla conclusione concretamente nomade che anche il concetto e la prassi del frammento sono una vecchia malattia occidentale, una debolezza della cultura dell'identità; e che la deriva molteplice può essere al contempo dissipatrice e vitale, anarchica e rigorosa. La passione precisa consisterebbe allora nel rifiutare un compiacimento oratorio che faccia di sé tribuna, giudice e spettatore; che irrigidisca il desiderio e l'occasione di scrittura in forma convenzionalmente letteraria; ferme restando la retorica e la retorica; fermo restando il rischio del camaleontismo, con l'esibizione di eventuale talento polimorfo. Ma questo è escluso. Cercare comunque una possibile consonanza tra le diverse epistole pistole, "come il leitmotiv di un tema che dispera del proprio soggetto", come la luce bianca prima di scomporsi nel prisma inquieto delle ore, come gli echi di un concerto distante...)
Pensiero breve sgusciato da giorni infausti e convulsi, da chilometri d'asfalto (quasi dodicimila) ingoiati in poche settimane. Pensiero breve e senza contenuto alcuno. Pensiero fàtico, di pura e semplice attenzione. Pensiero di richiamo.
Seguito del pensiero. O piuttosto: sogno. O piuttosto, ancora: tentazione. Stanza con finestra sul nulla di paesaggio disumano. Alberi monti mare volatili o animali striscianti. Nessuna figura antropomorfa. Nessun suono riprodotto da macchine: automobili voci musiche o simili intrugli. Alternarsi di luce e buio, di pioggia e sole. Davanti alla finestra c'è un letto, grande, sfatto, ma accogliente. Intorno al letto, a portata di braccio, liquidi e solidi per sussistenza gustosa, per ristoro di energie. Nessun orologio. Due corpi nudi, uomo e donna (uomo e donna?), impegnati nel piacere o nel silenzio. Bandite le parole non sostenute dall'orgasmo. Ammesse quelle, cortissime, dei bisogni essenziali, della geometria minima di orientamento nello spazio e nella fisiologia comuni. L'uomo (l'uomo?) ha deciso di consumarsi così, in pochi giorni, in poche settimane, chissà. L'accordo è che lui non dovrà lasciare quella stanza prima d'essere stato spento. D'essere stato, comunque, spento. È più di un accordo, più di una complicità animale. Questa decisione conferisce luce necessaria ai corpi.
Sono nato - mi dicono - alle tre e dieci del mattino, il giorno di Ognissanti. Il giorno dopo eran tutti morti. Mi prendo sul serio, secondo voi? L'anello che ti ho regalato e che non porti più è diventato un ring. Mi ritrovo OK allo specchio... come la targa della macchina che ti incalza, vista nel retrovisore: leggi MI(lano), invece era IM(peria). Tra l'altro io mi sbaglio quasi sempre, ulteriormente, e penso: Imola. Ci sarebbe bisogno di un'AZNALUBMA...
La mia anagenda. Oggi l'ho ribattezzata così. Ogni volta che la apro è un lampo bianco nel cervello, suggerimento di taoismo involontario: wu wei, non agire. C'è stato un periodo che, fisiologicamente suggestionato da Burroughs, quella luce accecante corrispondeva agli orgasmi più intensi. Magnesio istantaneo del piacere che non avverte più neppure se stesso. Qualcosa di analogo è accaduto con l'anestesia, quando mi son fatto segare e sbranare la gola dai cani della salute, che mi hanno insinuato l'agocannula nel braccio e rapido il curaro sintetico ha bruciato come napalm la foresta delle sinapsi: uno, due, non riesco ad arrivare a tre e il mondo scompare, in una vampata sulfurea che prende solo la testa, carbonizza le narici e mi consegna al nero. Fotografia al negativo dell'atto gaudioso precedente, con identico effetto nirvanico. Ma come al solito, ultimamente, sto divagando. L'annichilatio cui mi riferivo è di altra natura anestetica, senza dubbio di nessuna valenza erotica o mistica. Dominio del lugubre burocratico, piuttosto; piegarsi impiegatizio alle compulsioni del pragma quotidiano, senza che i torni contino mai (lapsus computazionale di un allenatore di calcio dadaista). Mi blocco, ebete, sulla bocca spalancata di questo volume foderato di finta pelle verde, bocca putrida cloaca che esibisce indecorosa date giorni ore settimane, ancora vergini e vogliose d'esser deflorate dalla smania mondana; oppure nella paralisi del futuro anteriore: ah, sì, domani, alle 8.00, avrò già... questo piuttosto che quello... ohibò... sì sì... pronto? chi papera?
Agenda, le cose da fare, dal latino ‘agere'. Anagenda. Wu wei. Tradotto: an' do' vai? Statte fermo. Preferisco oziare. E mi dedico con perversione improduttiva a questa lettera, per esempio.
(Sul retro del foglio ti fotocopierò la pagina odierna dell'innominabile oggetto di cui all'oggetto, che anche grazie al presente impegno di scrittura mi son guardato bene - o male - dal rispettare: oggi son felicemente evasore, fiscale carnale demenziale, fuor di prigione sadonasochista, quella che mi fa annusare da troppe pagine la sempruguale veterotestamentaria merda progettuale. Nihil novi. Punto).
E mento, lo so, la mente mente e il corpo no. Il corpo non può. Il corpo si ostina a fare e disfare, si riprende dallo stupido stupore e comincia a fingere di orientarsi nel dedalo di figure e segni, nella geografia poco euclidea del mondo immondo. Le strategie ossidate e vane di cui scrivevi si rimettono in funzione, lubrificate dall'abitudine. E la ruggine sembra essersi succhiata tutto l'ossigeno respirabile. La poesia sarebbe un fare che spoglia oppure un contrabito, una disciplina atletica. La poesia potrebbe esserlo. Ma homo sine pecunia imago mortis (sentenzia un personaggio esangue di "Cronaca di un amore"). Così la sua "poesia", l'atletismo eventuale dello squattrinato di turno, in perenne turn over con i fantasmi del suo desiderio, si declina per lo più in fuga, poco importa se megalomane e mitomane, se silenziosa e rarefatta, se sanguigna o angelica. Voglio una poesia che mi insegni a camminare. E a cacare. E a felicemente dedicarmi a tutte le secrezioni che ho già esibito altrove di saper apprezzare. "Voglio un pensiero superficiale che renda la pelle splendida", canta Manuel Agnelli.
Il vento ha soffiato tutta la notte e continua anche stamani. Fischia, sbatte porte e finestre, gonfia i polmoni a sproposito, romba prepotente in mezzo al canalone di questa angusta valle di lacrime. Stomaco vuoto e che brucia leggermente; intestino che preme. Mi auguravo di dormire di più. L'orologio interno dell'ansia mi sveglia prima, molto prima di quello della spossatezza. Non mi fa dormire che poche ore e i sogni che mi sognano lavorano ai fianchi. Mi sveglio come un pugile rintronato, senza potermi mai convincere che l'avversario notturno e diurno sia tu. Mi sveglio e le parole che ronzano dentro sono per te. Le ripeto decine di volte per non perderle, per segnarle poi sulla carta come tracciato di passione, come pensiero devoto.
Ho intravisto, dal lucernario, la striscia bianca e compatta delle nuvole sopra il monte dei radar. Mia nonna la chiamava "il cavallo". Ogni volta che si forma, ogni volta che arriva, il vento è destinato a durare tre giorni. Mia Dulcinea maledetta, vorrei divaricare le gambe fino agli Appennini e, Don Chisciotte smodato, cavalcare il gelido destriero. Aprire le braccia come ali di rapace spennato e farmi trascinare verso di te. Bussare piano alla tua finestra col becco, aggrappato ai ganci delle persiane. Preferirei un volo dolce di amanti avvinghiati, come i corpi nel cielo di qualche quadro di Chagall; o come la folgorante "Visione fantastica" di Goya, che ha dipinto con le mani sulle pareti della sua casa, ormai invaso dal rumore sordo della testa...
Sterminiamo i polli dentro.
Prosegue con implacabile deriva cupa la settimana più statica da un anno almeno. Ping pong di chiappe sforellate e duroni di culone e dolore sintetico, ma di male che fa male, perché s'accompagna ad inverno esterno ed interno. La tua lettera arriva oggi, nel tardo pomeriggio. Mia madre la porta sfidando le scale della mansarda in orario desueto per la posta. Tanto maggiore è il piacere di aprirla e leggerla, accompagnato dalla sorpresa e non guastato dall'abitudine o dall'attesa. Quella tua luminosa lacrimuccia salata, se con una cagnaccia leccata non l'avessi già bevuta, avrebbe per qualche ora riempito il mio mar morto prosciugato. Son così tonto e cretino che scrivo come una campana, facendo un suono pappagallo che si richiama. Chiedo venia. Ma preferisco lasciarlo, come tracciato semipiatto e circolare del mio encefalogramma attuale.
Intorpidito da liquidi che si aggirano nelle vene, ma ancor di più da pianeti e satelliti di giorno e di notte, freddi, umanoidi. Di ventiquattr'ore in ventiquattr'ore, sembra si stia attuando nelle ultime settimane un accanimento abrasivo nei confronti di tutti i disegni passati futuri e presenti. E mi ritrovo imprigionato in un clima di testa e d'aria che non riconosco e che respingo. Ma che ti sto dicendo? Che sto cercando di dire? Che il sogno di una cosa, da lungo tempo sopito, si è da qualche mese prepotentemente risvegliato. E al contempo, con micidiale puntualità, tutto e tutti sembrano (er solito paranoico, ‘o so) congiurare per annichilire in via definitiva questo imprevisto ritorno di passione e allegria, quasi che le vestigia di maturità debbano coincidere con un risoluto adattamento alla brutalità mediocre dei limiti imposti, dei limiti accettati. Realpolitik economico-affettiva.
Il piacere e l'utopia creativa - quasi defunti; la fascinazione del femminile - a distanza, congelata, incredibilmente estranea; la parola politica - impronunziabile, perché triste e trista si fa la reazione mimico-facciale; la parola fuga - pronunciata, ma subito disdetta dall'attesa, dalla perplessità, dalla vigliaccheria. Mi son tornate voglie dissipatrici. Il demone della perversità ha ripreso a salterellare tra gli anfratti spaventosamente vuoti del mio cerebroleso craniocavo.
Spiegavo a qualcuno, a proposito di tabula rosa (sic), che per quanto mi riguarda mai, mai ho sentito di ricominciare da zero, dopo tempeste, delusioni, fatiche, amarezze e via e via. Sempre da valori numerici negativi: meno uno, meno dieci, meno trenta. E a forzare l'immagine nell'ambito termico, si può dire che il rischio sia quello di giungere impercettibilmente, involontariamente, al vero zero, lo zero kelvin, il punto di totale stasi della materia. Nessun movimento, nessuna energia. Nessun desiderio di nuovi ponti neuronali, di nuovi slanci, di fiducia. Il punto fermo e fisso e fesso è il kafkismo più deleterio che abbiamo inciso sulla e sotto la pelle, questo cazzo di giudizio che ci insegue, e quando non c'è, il giudizio, noi goderecci dell'infinito caprone ce lo costruiamo apposta, pur di tormentare quel che ci resta. Fankulo, come scrivi tu.
Ho anche voglie adolescenziali di altra natura - oltre a quelle cupe delle ultime ore. Uscire per la strada e piegare i lampioni, di notte, in modo che illuminino mutande e coglioni di cittadini e casigliani; imbrattare di rosso e giallo e azzurro porte e vetrine; crepare gli occhi e squartare gomme a qualche macchina di villano, lasciando sul tergicristallo biglietti gentili. E poi bere vino rosso a più non posso (sto sfiorando la deprecabile condizione d'astemio, sai?); e far colazione di nulla, al mattino, osservando il giorno che ritorna, quieto, distante, senza parole... Vabbuó.
(Frammento del film Il sistema solare): Autostrada. Area di servizio. Una figura maschile beve una birra a un tavolo. Si alza. Esce di campo. Voce over: "Quello che avete visto non sono io". Stacco. Inquadratura dall'alto di un bambino (cinque anni) sdraiato su un prato: "Quello che invece vedete adesso avrei potuto essere io, circa 25 rivoluzioni fa. Osservo attento la vita delle formiche tra i fili d'erba. Li mastico anche, i fili d'erba. I miei coetanei mi chiamano: dottor mucca. Io li ignoro. La mia comunità è quella delle formiche". Stacco. Il bambino, ripreso dalla cintola in su, è in piedi e cammina, lo sguardo fisso a terra: "Faccio di tutto per non calpestarle. Quando un adulto le schiaccia soffro, ma non dico nulla. Loro mi guardano dall'alto, gli adulti, e a volte scuotono la testa". Stacco. Primo piano del bambino che sorridendo e guardando in macchina ripete velocemente: "Dio cane dio cane dio cane dio cane...". Ceffone. Il bambino smette e china gli occhi. Voce over: "Quell'estate avevo trascorso un mese dai miei nonni. Avevano un bar nel paese. La sera giovani e adulti venivano a bere e a giocare a biliardo. Ero affascinato dal biliardo. Il panno verde, le boccette bianco latte e quelle rosso amaranto, il pallino blu. E poi le traiettorie precise, lo schiocco secco dei colpi, i birilli che cadevano, le palle che finivano in buca. Uno dei giocatori mi aveva insegnato a bestemmiare. Quando lo facevo, tutti ridevano nella sala". A questo punto il bambino risolleva il volto e dice una sola volta: "Dio cane".
Affogo. Fuori la pioggia si è stabilizzata in una pisciatina indecorosa, che non ha nulla di liberatorio, nulla di drastico e definitivo, come auspicavo...
Con le scarpe di gomma prendo la scossa, arco voltaico che si sprigiona dalla portiera dell'automobile alla punta della chiave e mi fa bestemmiare. Per il dolore breve di puntura e per il senso dell'esistenza maldestra. Sarebbe comica, non fossi esasperato. Anche infilare le mie vane lettere mi fa prendere la scossa, contro la latta della tua cassetta.
Il paese è deserto. Attraverso la piazza. Mi sembra sempre più piccola, sempre più detestabile. Ogni luogo conosciuto è ostile. Ogni luogo nuovo è già consumato da vecchie parole, da vecchi gesti.
Ho indosso la giacca a quadri, l'altra era spiegazzata e impolverata. Ho indosso il mio odore di giorni e per stanotte non me lo tolgo.
Gli occhi non riescono più a mettere a fuoco le lettere sullo schermo. Pulsano. Stanchi. Bruciano. Ossigeno.
Ora sono solo, sono solo confusione. Il lavoro che devo, non lo voglio. Manca la terra sotto alle zampe, manca il gusto nella bocca, manca l'aria nei polmoni. E il mare è lontano. Il mare è sempre più lontano. Apro la bocca e già mi disdico, mi balbetto addosso. Se parlo sono morto, adesso, perché mi ripeto e non serve a nulla, serve solo a farmi servo, serve solo a farmi solo, servo e solo. Mi ripeto e questa giostra non m'incanta. Mi sfianca mi sfianca mi sfianca.
Svuotato sgusciato, sguantato gualcito, da mesi e mesi, tagliato e dimagrito, ingrassato e cresciuto, ridimagrito e infiacchito, allegro e demente, voglio tutto e non mi danno niente, non mi lamento e mi punisco-no, mi lamento e mi punisco-no, gioco con la lingua quando la vorrei ingoiare: le mie lacrime sono parole dolci e amare che non riesco più a dire, che non voglio più urlare, la violenza fa paura, la mia verità non cale nessuno, neppure me stesso, scomparire non è un grand'affare, a trattarmi male ti fa dolere, forse, ma ti conferisce anche potere, vero? Vero?
Dormire mangiare, sono tornato a farli male, dormire e mangiare.
Silenzio.
Spassionato è il mondo che mi fa orrore. E la passione che si contorce e deforma è peggiore del male.
Voglio un tappo alle orecchie alla bocca agli occhi. Invece di tenerezza e complicità e pornografia, mi obblighi a tutto quello che è furibonda malattia, la parola, la parola... la parola che non ascolti, la parola di lava, la parola che fa rumore, la parola che ripete, sfiduciata, eppure ripete, eppure prova e riprova, ostinata.
L'attenzione la concentrazione l'ossessione la determinazione l'allegria la leggerezza la spensierata amorevolezza: tutto questo me lo getti, inutile e vano, accartocciato e disprezzato, umiliato e umiliato. Tutte le parole d'amore e tutti i silenzi d'amore, tutto il buio e il calore e la luce e il calore, tutto il fiato e la lingua senza pedanti consunte parole, tutti questi animali vivi e questi gesti vivi di cui ora mi privi, di cui ti privi, non ce li restituisce nessuno. E se non ti riguarda, dico soltanto: non me li restituisce nessuno. Questo rifiuto, questo rifugio, questa ambiguità di distanza e tenerezze, questo cercare e non cercare, questo cacciare e consolare, questo aggredire e tollerare, questi buonanotte di tristezza mortale.
Ogni secondo l'ultimo. E invece ovunque la logica del capitale, del difendere e accumulare. Dello stitico non cacare e non amare. Del beota non pensare. Del confuso fare. Del confuso disfare. Del mangiare per far male, del mangiare che è sbranare.
Aiuto lo scrivo a me stesso, adesso. Ho creduto mi ascoltassi, mesi fa, seppur amareggiato dall'opaca reazione. Aiuto, scrivevo. Non lo voglio più. Non posso aspettarlo più. Gli ultimi anni della mia vita son stati palestra pratica di sfiducia. Credevo di riuscire a organizzarla questa sfiducia, come scrive Marcos. Ma qui non c'è un popolo, non c'è urgenza di vita sopravvissuta, non c'è lotta per il minimo indispensabile. C'è similvita, spesso indegna, flaccida, esangue. C'è l'ammorbarsi del sangue nelle volgarità quotidiane, nel promiscuo parlare e cercare. C'è il collasso imperdonabile dello sguardo, che perde quell'intensità seducente che chiamiamo luce. Se lo dico, mi lamento. Se non lo dico, sembra che mi adatto.
Ho fatto testacoda. Mi son trovato col buco del culo dalla parte del futuro.
(Secondo frammento del film): Interno di locale pubblico. Musica jazz in sala. L'autista è seduto al tavolo, inquadrato di tre quarti. Mangia un panino. Poi un dolce. Di fronte a lui, non visto, il narratore. Voce fuori campo: "Leggevo libri sull'origine dell'universo e sulla fisica delle particelle: i primi tre secondi dopo il big bang, il rumore di fondo, i neutrini, i buchi neri, le pulsar... Il mio dispiacere era che con il cannocchiale non riuscivo a vedere galassie o nebulose colorate". Pausa. "Ho smesso di credere in dio quando mi ha ucciso un amico. Aveva undici anni. Un piccolo vulcano di intelligenza e vitalità". Pausa. L'autista dice: "Di cosa è morto?". Voce fuori campo: "Leucemia". Stacco. Niente musica. Bambino di circa undici anni, a letto. Si agita sotto le coperte. Voce over: "Fino ad allora avevo sempre lasciato nel letto un po' di spazio per l'angelo custode".
Prepara tu cuerpo para resistir, ripete una delle canzoni rivoluzionarie che amo di più. Che canto a squarciagola, rabbioso e felice, nella mia scatoletta metallica ed automobile. Ma la violenza liberatoria richiederebbe la presenza almeno potenziale di volti e nomi con cui dividere la gioia stupita d'essere ancora vivo. Da soli si diventa padri del deserto, nella meno isterica delle ipotesi. Chissà.
Ti potessi regalare qualcosa di più che queste parole in croce. Queste parole dementi. Queste parole sentite. Queste parole caute. Mi piacerebbe parlare parole del corpo. Ma anche lui sembra voler imparare a tacere.
E ti vorrei complice nelle mie agognate e censurate scorribande di ludica guerriglia, a gettar zavattiniane bombe merda negli uffici, tagliando giacche cravatte pantaloni e gonne, scompigliando capelli e delibere, profferendo scurrili amenità ad impiegati ed impiegate, terrorizzando tutti con sorrisi insensati e lingua incomprensibile. Ripetendo impeccabili e testuali le parole di funzionari e funzionarie, senza bisogno di commento alcuno; svuotando le loro voci con la loro stessa eco. Proponendo ad assessori e presidenti progetti tipo: l'ostinazione delle tartarughe, cento milioni; la teleferica da casa tua a casa mia, per incrementare l'afflusso turistico; le danze della pioggia multietniche, per una sicura ricaduta sul territorio; il premio internazionale faccia da zerbino, al più inclito artistitico globale; la multimerdialità interattiva con idromassaggio a Equi Terme; un monumento a me - e uno anche a te, che se no t'offendi.
L'occhio è l'evoluzione biologica di una lacrima, ama ripetere Alberto Grifi. E ama ripetere, con Majakovskij e compagni, che la rivoluzione ripiega nell'arte quando ha fallito nella vita. Io... Niente io. Ciao.
(Dedicato all'acume neghittoso di Alocin): abbandonato è colui che si squalifica, agli occhi del mondo, con voce di lingua che balbetta idiota. Abbandonato è il tempo senza ore e minuti che pulsa nel sole e nel vino, ogni istante come l'ultimo, ogni istante pensato e dimenticato come l'ultimo, senza inganno di ritorno.
Sai che sei più bella in fotografia che dal vero?
Come un'altra mano che accarezza dentro il cervello, che placa ogni ansia, ogni dolore; come una mano di grazia, che si muove lenta, che respira nel tempo con la pazienza delle foreste; come una mano sensuale e delicata: per me non c'è niente di più toccante che sentire la tua lingua nella mia bocca.
Sto ripensando alla tua vecchia idea del guardiano del faro. O del custode di case invernali. Qualche mese, tanto per cominciare a prendere le distanze. Fare ginnastica tutti i giorni per ubriacare il corpo di nulla. E sottrarlo alle paludi, alle fiacchezze degli ultimi due anni. Poi tornare ad essere uno "splendido solista", come mi ripete affettuoso e sollecito Maraboshi. Solista di che cosa? dirai. E che importa? Addio. Alla madonna. A tutti i santi in colonna. E al tuo sorriso.
Ripeness is all, ti ricordi? Lo pronuncia il personaggio meno isterico di King Kong Lear; lo trascrive Cesare Pavese a epigrafe de "La luna e i falò". La maturità è tutto. Qualcuno traduce: essere pronti è tutto.
Dopo anni di cieca fiducia nella potenza vitale e liberatoria dell'infanzia, nel rifiuto bambino della compunzione adulta e della presunta disinvoltura sociale, ho capito sulla pelle (nel legno duro della testa e del corpo) che per essere o diventare Pinocchio bisogna rifiutare qualsiasi legame, aspettativa, progetto, comunicazione razionale: smodati, insomma; smisurati, ma non a metà; capaci di una solitudine non cartacea; irrispettosi, ma con crudezza irrevocabile; non intellettuali del bicchiere pieno e vuoto, riparati da tetti paterni; non artisti "irrequieti", in agone perenne con "simili" improbabili; non amanti insaziabili, "feriti e catturati" dall'effimero incantevole della bellezza e al contempo poppanti di consolazione stabile, di protezione sicura.
Il semipinocchismo essendo la regola vigente, ho cominciato ad annoiarmi di me stesso e del mondo. Quante cose si fanno per noia, dice Lenz... E quelli che chiami abissi, a rivederli, non sono che vizi di forma, abbrutimenti e tentazioni della noia.
Ora i desideri schiumano spesso lontani, piuttosto contemplati come onde in un mare che non mi appartiene, che subiti o agiti come rapina travolgente del tempo, come turgore dell'identità. E finalmente, a proposito del tempo, sto verificando che l'ambizione all'idiozia, una volta dimenticato l'assunto letterario e
...interruzione dell'energia elettrica, piuttosto lunga. Mi cancella due capoversi densi e ritmicamente ben riusciti. La voce era impostata su un registro grave e profondo, dal respiro lungo, sicuro, nondimeno cordiale. Rinuncio a riscriverli o ad appuntarli al buio. L'assenza di luce mi porta all'abbaino dove, sorridendo invidioso, vedo che una parte di paese è privilegiata: la tua finestra accesa. Sopra la tua casa, enorme, il carro dell'orsa maggiore. Appoggio la faccia al vetro, rivolta verso l'alto, e godo il silenzio. Una sgangherata via lattea attraversa diagonalmente il campo visivo. Anche il vento, placandosi, condivide il mio piacere muto. Mi tappo momentaneamente le orecchie per non ascoltare le futilità digrignanti degli inquilini di sotto: sono così geniali, a volte, che riescono anche a rimproverarsi a vicenda gli incidenti dell'Enel, con disarmante incoerenza logico-causale: - Sei tu che lasci sempre le finestre aperte, anche di notte! - E che c'entra con la luce? - Non mi contraddire!! ...e così via, fino a che, tastoni, recuperano posizioni abituali e rigorosamente opposte nella topografia casalinga. Dopo un'altra bevuta di firmamento, guadagno la poltrona e mi sdraio. Il flusso disordinato dei pensieri mi riconduce dalla pace contemplativa alla solita bieca monnezza dei disastri di sussistenza, al che una voce mi scivola dalle labbra, sussurrata ma imperiosa, a rimprovero: "mi sto riabbrutendo, lascia perdere...", e con miracolosa, comica tempestività il tungsteno della lampadina si rieccita tutto per orientarmi di nuovo nella stanza. Provo a riprendere la marcia interrupta...
Scrivevo: l'ambizione all'idiozia. Ormai si è trasformata in seconda natura di tutte le fibre, consapevolezza non più di testa, ma sanguigna polmonare stomaco e ossa e occhilacrime asciutti, che ogni secondo è l'ultimo, pieno e irripetibile come l'ultimo, disperante come l'ultimo, effimero come l'ultimo. Polvere senza soluzione di continuità dall'organico all'inorganico, senza isteria di perdita o d'abbandono: Ik ‘otik, somos viento... Più difficile è riuscire a condividere questo vitalissimo senso tragico con un'epoca impaludata nei meccanismi dell'economia ristretta e nelle avvilenti dinamiche della psicologia relazionale. Vergogna di quest'epoca (genitivo soggettivo e oggettivo), che sento vicina alla mia personale vergogna, alle menzogne violenze e mediocrità che ho condiviso, miope, narciso, con la presunzione prometeica di sfuggire alla ripetizione, alla forma comune che plasma i nostri comportamenti, le nostre più recondite e risibili interiorità. Vergogna che non è più però colpa opprimente, verme putrido e mortifero che morde e rimorde; la penso piuttosto come il privilegio di un passato la cui eredità principale consiste nell'opportunità di non ripeterlo, per evitare l'infamia di sconfinate zone grigie.
Da più di un anno m'accompagna il seguente passo di Simone Weil: "Le disposizioni d'animo che inclinano ad amare un certo fine sono diverse dalle disposizioni che permettono d'impiegare i mezzi necessari per realizzarlo; e molto spesso le une sono del tutto incompatibili con le altre. Così, per natura, quelli che sono o sono diventati capaci di servire una causa non sono o non sono più uguali a quelli che sono capaci di amarla. Di conseguenza, quelli che la servono servono sotto questo nome qualcosa d'altro". O ancora, con la folgorante icasticità di Carlo Michelstaedter: "abituarsi a una parola è come prendere un vizio". Abituarsi all'arte della guerra significa non averla assimilata, perdendone i pregi, con il rischio di trovarsi sfigurati alla fine del cammino o, come nel mio caso, nella sua cronica, dantesca metà. Questo, forse, è quanto mi resta: non essere del tutto risucchiato da nessuna macchina sociale, neppure da quella che, progettista improvvisato ma caparbio, io stesso avevo ideato e messo in moto. Non essere risucchiato, soprattutto, dai suoi ingranaggi devastanti - indurimento cinico, brutalità machiavellica, prepotenza. E men che mai, per virtù celeste o per coglioneria innata, dalla girandola di reattività connesse: antagonismo - traduci: disdicevole guerra tra i poveri; e poi ancora: gelosia, soprattutto dei mai abbastanza deprecabili addetti ai lavori (vietato l'ingresso, vietato l'ingresso!); arrivismo provinciale o esibizionismo internazionale; ripiegamento in consorterie e clan pateticamente mafiosi, esclusivisti alla lunga anche nei confronti di se stessi. Vabbè, basta, me sto ‘ncartando, nonché annoiando, a scavare dint' ‘a mierda, tanto hai capito, vero?
Grazie per l'intellettuale del cazzo di cui mi avresti più volte onorato. Ci leggo più verità filologica che irrisione risentita. In fondo, quanto ho scritto con piglio severo nella prima parte di questa lettera, si potrebbe correttamente tradurre con la sintesi lirica della tua espressione. I travagli del parto di questo nuovo mostro sono stati anche un paziente, razionale, fisico, patologico e umoristico cammino di intelligenza del cazzo; un'auscultazione stupita (e alla lunga, spesso, irritata) di esigenze, richiami, pretese, protagonismi, sdegnosi silenzi, ascetismi inusitati e minacciose sorprese del presuntuosetto sopra(ec)citato. E, che ti devo dire, sarà la vecchiaia incipiente, ma quest'opera di vera e propria secret intelligence del mollusco con ambizioni di cozza (e del suo secretum con velleità di nettare degli dèi) ne ha in qualche modo ridotto il ruolo smodatamente teatrale, e dopo una fase "amletica" mi (lo?) sento adesso nella parte più anonima del soldatino di piombo. Non abbiamo più lunghe conversazioni o corpo a corpo battaglieri, anche se, ricordando una delle illuminazioni di Ennio Flaiano, "a volte mi guardo il cazzo come se mi aspettassi da lui una risposta". Ma lui sa, ormai, che non lo prendo più sul serio. Va bene Eliogabalo, ma fino a diciott'anni. La mia adolescenza è iniziata tardi e finita ieri l'altro. Bugia. Tant'è. Arrivedòrci...
Compañero, non cogito né coagito. Vegeto e digito. Veloce. Velocissimo.
Sprofondato in una specie di intercapedine di me stesso: quello che accade, quando mi muovo zingaro e inquieto, oppure quando costringo le forze a contenersi in casa - e il pensiero fisso di te, come un sole continuo che brucia e ronza, come se questo vento, che adesso, fuori, si è placato, non si arrestasse mai. E quindi, al meglio della "presenza di spirito", fingo d'esserci e partecipare, altrimenti il pesciforme sentimento mi invade incontrollabile: balbetto bubbole, e quasi mi stupisco, nei frangenti di minor lucidità, del fatto che gli eventuali malcapitati interlocutori ignorino la legge fisica che impedisce di parlare sott'acqua: non vedete che sono in apnea? Che non posso prender fiato? Che quel fiato, ormai, non m'interessa, non mi riguarda? Poi mi riprendo e allora emetto queste bolle, questi gargarismi d'abitudine comunicativa, d'inerzia progettuale.
Accanto all'intestino, proprio accanto, ci stava il belino, inquieto. Mi ritrovo da parecchie mattine, al risveglio, con le mani infreddolite e serenodisperate che si ficcano tra le gambe, afferrandolo molle, semiduro o duro. Sembra un'indicazione di cottura di un ristorante di lusso, vero? E con rabbia, con violenza meccanica, nei giorni scorsi, quando era ingombrante e ostinatamente rigido, l'ho scaricato. Pareva mi guardasse, attonito e leggermente escoriato, come a dirmi: e io che chèzz c'èntr?
Questo carattere è nuovo. Lo (volevo scrivere: l'ho) scelto per il nome: Tahoma. Campeggia nella seconda finestrella orizzontale, in alto, alla sinistra dello schermo del compiutèr. Tahoma. Quadro di Gauguin. Feroce urlo taurino di piedi neri amerindi alla vista dei visi pallidi. Pornostar velleitaria di Gallarate. Struggente e crudele film neozelandese. Fuoristrada nipponico che ribalta in curva a 52 km/h. Sussurro all'orecchio di una squaw dai lunghi capelli neri sotto la tenda erotica del firmamento. Area di servizio sperduta sull'Appennino tosco-emiliano (e qui ti volevo! questa è l'ipotesi più verosimile: conosci Tugo Ovest? Non si tratta né di Dakota, né di Wyoming, bensì della nostrana Autostrada della Cisa, giusto prima di arrivare al passo e iniziare la discesa per Pontremoli e dintorni. Di ritorno da Milano, ci fui bloccato per mezz'ora dalla Polizia, di notte, l'inverno scorso. Oltre alla mia, le facce dei due compagni di viaggio incitavano i sonnolenti uomini dell'ordine all'indagine. Una carta di identità che mancava, effluvi di canapa dai vestiti. Poi con gentilezza ci congedarono). La mia geografia di riferimento, oggi, è situabile nell'asse immaginario tra Tugo Ovest e Tahoma.
Rileggo queste scempiaggini. Sospiro di disappunto. Le lascio.
Il tuo naso schiacciato contro il finestrino sporco dell'automobile. Il tuo sorriso era più dolce, negli occhi.
Caro Quark, finto mattone dell'universo, suono di papera della materia elementare: in margine al tuo biglietto e a proposito di frammenti e fucking deflagrations: la disposizione rapsodica ed incoerrante - principio vitalissimo delle più ludiche avanguardie novecentesche, di scienziati intrisi di passione poltronesca per l'alea, di scemi del villaggio globale locale e letale (femmine dodecaedro incluse) - è ossessione e malattia di totalità, cui effetto patente (- dogumèndi! - all'apparire della parola "patente", il brigadiere che è in me esige con immediata e irrevocabile solerzia l'esibizione di idonei e aggiornati documenti che attestino l'identità di lettore e/o scrivente. Che fare? Lenin, per non rispondere al quesito, ha scatenato la rivoluzione d'ottobre. Io, in ritardo già di qualche giorno, dissipo il tempo attuale digitando queste letterine, come un bambino con l'abaco ritrovato. Poco importa la combine dei significanti. È il lettore la luce, non chi scrive), scrivevo: cui effetto patente e onnipervasivo si può ravvedere nel cinismo di seconda mano, di facile accesso e di ancor più facile traduzione quotidiana da parte degli "intelligenti". A Diogene - per altro grandissimo comico asociale ("Perché interroghi per ore una statua? - Mi abituo a chiedere invano...") - si dovrebbe, più che contrapporre, accostare, mitigandone il moralismo risentito, Cratete: ricco di famiglia, durante una rappresentazione tragica suscita l'ilarità generale degli astanti annunciando che avrebbe abbandonato e distribuito i suoi averi. "I Tebani si misero a ridere e si accalcarono davanti a casa sua; e lui rideva più di loro". E piuttosto che mordere come i cani, viveva come i cani. Al sapienziale oracolo di Delfi, che come uno specchio ebete continuava a ripetere a filosofi, viandanti, eroi drammatici e sacerdoti: "conosci te stesso"; lui replicava: "vivi te stesso". Quest'apologo non ha senso, forse. A proposito di frantumi... E a proposito di mattoni, edilizia esistenziale, etica: no hay camino, hay que caminar... va bene, siamo in disarmonico accordo. La rivoluzione in fondo è questo, girare sempre intorno al sole, sapendo che non è il centro. Sono due i fuochi dell'ellisse terrestre intorno alla palla di idrogeno ed elio: uno è occupato proprio dal nostro lampione cosmico; l'altro è vuoto, sconsideratamente vuoto.
Starei a terra come un mussulmano per mesi, pur di averti. A culo alto, sì, verso il sole che brucia e rumoreggia, come la mia testa.
Cara Malachite, rosaviolacea e ramata, dunque verdastra, nel passaggio irrefutabile del tempo: Cogito Argon Sum. Eh sì, è quasi tutto lì il malanno dell'occidente (occidente a lui!) coltivato e colto, ma poco campestre e campesino, perché la Terra è pesante, la terra da coltivare. È quell'intrigo di "presunzione di presenza" (Sum - senti come suona, pare il mistico muggito di un vaccone sacro!) e di autoerotismo sconnesso e nevrotico ante litteram (Cogito, Coagito, Coito); il tutto legato culinariamente dalla spezia esclusivista dell'individuo che afferma la presunta nobiltà (gassosa) del proprio rifiuto a combinarsi con chicche- e checche-ssia; e rivendica, comunque, l'inerzia da destino, insormontabile, taoista (Wu wei, che tradotto suona: ma ‘n do vai? ma che fai?). Argon. Inconiugabile. Immobile. Come un'insegna delle sette sorelle petrolifere del dopoguerra. Quelle piantate nei distributori in mezzo al deserto, tetragone al nulla arido e alla notte nera. Se acconsenti alla dislessia liberatoria, Argon può scivolare impercettibilmente in Ergon, che è Lavoro (la fatica, l'usura, l'attrito, il desiderio fuori dalle secche o dalle paludi della psicologia), il quale ripiegandosi dentro (En) il soggetto in questione (qualunque Esso - a proposito di benzine - sia) diventa la tua amata clavis universalis: Energia. E non per farti sbavare di rabbia (a proposito della domanda che ti ponevi: perché non sono nata nera?), anagramma di Ergon è Negro. Nel 1967, quando è morto, John Coltrane ha provato a passarmi la sua staffetta direttamente dall'Africa: attenzione, ritmo, preghiera. Anche lui osservava il cielo notturno con un telescopio.
Tarda mattina, corsia d'ospedale. Aspetto. Neon bianchi e caldo di scirocco invernale. Altri aspettano. Sembriamo tutti agitati o malinconici o rassegnati. Massaggio prostatico. Spremitura. Tutto il corpo e il fare e il creare, nient'altro segreto che secrezione: cacare pisciare eiaculare spirare aria parola starnutire sputare sudare. Imbocco l'autostrada, veloce, acceleratore schiacciato, fretta, volgare dire cazzo ‘fanculo ai lenti che ostacolano la corsa, lo studio che mi chiude, ma forse m'aspetta... e me la rido, vedendo la faccia tesa nello specchietto, rido automobile e già distante, studio ospedale dove si affanna il mio desiderio apparente, sotto asfalto bagnato e cielo grigio sopra... mi affretto verso dove mi hanno preparato la cassetta, i video, quelli che porto a Bologna, mi affretto e rallento, poi rallento e rallento, mi fermo, ingrano la retromarcia, e finalmente vado avanti, piano, piano...
"Naturalmente, ogni vita è un processo di demolizione" (Scott Fitzgerald). Dopo averti visto, stamattina, ripensavo sull'autostrada a queste parole, urlando le solite canzoni, e dicendomi: la tua (nel senso: la mia) distruzione dovrà essere nella luce. Non so bene che significhi, ma non voglio farmi ammorbare dall'ineluttabilità di una fine grigiotopo. Sono ancora in mezzo alla nebbia terribile della scorsa notte, a passo d'omo sulla Cisa fredda e umida. Lacrime copiose, a eliminare ogni possibile sicurezza residua, ogni appiglio alla realtà abituale. La visibilità del mondo esterno si interrompeva al limite del parabrezza. E l'abitacolo, con la tua presenza di ghiaccio, era una prigione. Forse è meglio stare completamente immobili, in certe circostanze? L'impotenza che mi fai sentire, che aggiungi a quelle più mondane che mi perseguitano, consiste proprio nel non poter agire, nel non sapere chi o che cosa colpire, dove e come aspettare.
Moio. Da piccolo, quando dicevo o commettevo scempiaggini, mia nonna mi riprendeva così: o balùba! Moio: era il tipico saluto tra gli adepti della religione della canapa, nella tribù africana dei Baluba. Non portavano armi, erano molto ospitali. Moio significa: vita. E anche se non fumo, quando sono triste o allegro mi ripeto: moio.
"La serietà è per i giorni di silenzio", scrivi. Ma non è la serietà dei "realisti", mi auguro, quella di cui parli; gli adattati, quelli che sì, loro lo sanno come vanno le cose, ma che vuoi, mica il sangue marcio mi faccio, io, lo faccio fare agli altri, io, che sono furbo, mica scemo, ma soprattutto intelligente, ma soprattutto furbo, ma soprattutto esangue esangue esangue. E se metti accanto a questo il piagnisteo insopportabile dell'io - di tutti gli "io" che incontri, di tutti questi "pidocchi del pensiero", incapaci di luce, fosse pure una timida lampadina, pila scarica, ma non muffita, niente, niente - il quadro è completo. Allora, seppur sguantato dagli anni e dai mesi e dai giorni, nel rivoltarsi di pensiero corpo e parola, ti ritrovi disponibile alla vita, avido di nuovo d'ascoltare l'altrui presenza, di gustare il silenzio e la complicità. Ma se non esci dal brago, sempre ghiande devi mangiare. E le intenzioni, la disciplina, la destrezza di mano e di mente riescono a plasmare una ben misera parte di quello che costruisce e distrugge il cibo quotidiano. Il coraggio adesso è qui. A portata di zampe. Soprattutto di quelle cosiddette inferiori, che potrebbero accompagnare la scatola cranio fuori da case e paesaggi e antropologie consunte, senza tanti manifesti programmatici, senza giustificazioni ideali. E pure senza una lira. Di questo basta. Amor fati. E tanti saluti.
Le mie parole si incidono da sempre nella carne. Per chi legge non è che inchiostro su carta. Infinita stupidità della semiologia.
Giornata tersa. Il sole proietta un faro accecante sulla tua casa. Non vedo nulla per due o tre secondi. Non ti montare subito la testa, bagliore di Dio... Penso: adesso le scriverò. Penso: la luce così gloriosa di questo mattino è solo fisica.
"È qui che lo si vede impallidire, che lo si vede tremare, alla ricerca di uno splendore, di una sporgenza alla quale si aggrappa, davanti alla fuga spaventosa di tutto". È qui che si incastra Zohar, il Libro dello Splendore. Non mi interessano i libri, voglio il tuo corpo. Per anni Zohar è stato il tuo secondo nome. Lo è ancora, per me.
Ho acceso la musica. Oggi vorrei lasciare questo stupido schermo, questa scrivania e camminare per ore sotto quello che resta del sole. Mi piacerebbe farlo con te, con ampi vuoti di silenzio. In fondo basta camminare e il pensiero torna a scoreggiare - risate caca mama papa del corpo che se ne impippa di se stesso e del mondo tondo (magari) come un culo. Sono il Re Spiro. Morto porco animale mattutino, secrezione la lingua come tutto il resto che esce da buchi di pelle faccia corpo, secrezione fluida o densa, tutto qui, quello che tu dici energia, vento che trascina o culla, bonaccia per niente bòna, che immobilizza sul mare lago vaschetta (da cesso) in cui ti compiaci e dispiaci di permanere. E non tirar fuori scuse come: lavare. Crederei nella serietà e nella rivoluzione se avessi qualcuno con cui addentare il tempo e stringerlo, correndo e dormendo. Niente cuscini, tranne la terra. Niente soffitti, tranne il cielo. Guazza e pioggia compresi nel prezzo. Chlébnikov non è la marca di un mitragliatore...
Tutte queste parole che escono dalla mia bocca oscema, digitate dalle mie dita marionette, fili appesi chi sa dove, non me ne cale, proprio niente me cale, e questo mi fa male, proprio questo mi fa male, ancora, a volte, nel pasto nudo, sì, quando si blocca la forchetta e tu la miri e ti miri e rimiri; quando s'incaglia un peto a vista di mondo dalla finestra del culo, un peto poeto trattenuto per non disturbare - che vergogna, non si fa, ma non impari mai nulla, sei un piccolo porcellino! - per non disturbare, dicevo scrivevo, la conversazione adulta, adulterata e stanca; nei blocchi di memoria in cui scordo l'inerzia del fare tanto per fare, e con altrui conciliare e non aggredire; e quando invece ricordo che nell'immatura violenza e infanzia, a lungo protratta e adesso contraddetta, c'era comunque fuoco caldo caldissimo di vita, fuoco fatuo ma di vita, di esuberante ed anarchico piacere; quando ascolto e aspetto ma il corpo mi trascinerebbe altrove, non lì dove opportunità e mala educazione mi trattengono, con smorfia di sorriso accondiscendente - e la mia faccia, poi, non ne capisce niente, di questa ginnastica sociale, di questo sforzo di adeguarsi demente.
Quando inizio un discorso, sovente mi capita di perdermi, di divagare. La concentrazione è una bolla di sapone. Tu sei il vento leggero che la trascina dove vuole. Sei diventata il mio fuori campo assoluto. La macchina da presa dello sguardo ti cerca senza tregua, veloce, vorace. Rapidi spostamenti degli occhi per tentare d'ingannare l'impossibilità di vedere tutto. E poi viaggiare, per sognare di trovarti, ovunque tu sia.
Voglio solo rubare e godere e riposare.
Lettera a C. sull'impossibilità di redigere un articolo dedicato ad Antonin Artaud
(testoline e testolone che si annoiano e non capiscono, la saltino pure; scopriranno lo stesso, alla fine, l'assassino/a...)
La scorsa settimana mi ha fatto visita il camion per lo spurgo della fossa biologica. Gli scarichi s'erano intasati, la casa rischiava di diventare una monade con porte e finestre, ma privata del più necessario sfintere secretorio. L'operazione di svuotamento del pozzo nero è stata quasi inodore e rapida, tranne un iniziale panico dovuto alla difficoltà nel localizzare il tombino. Durante i lavori di riparazione di un marciapiede, un anno fa, gli operai l'avevano spostato nel giardino e, con pudore, interrato senza segnale alcuno. Qualcuno mi ricordava che ogni volta che ci ritiriamo al cesso per defecare, sotto al nostro culo passa e trascorre Dioniso, fiume travolgente ai margini della civiltà, che irrompe discreto nelle case. Cul: in alcuni dei suoi ultimi testi Artaud omette la elle finale, che conferisce morbidezza e "volo" alla parola, per inchiodarla invece nel perentorio "cu". Bu-co, bu-io. Senza eufonie rassicuranti. La tortora di Khayyâm ripete kû kû, dove? dove?, sopra le macerie di un antico castello. E una cartolina sanguinetiana ricorda agli eterni subsuperometti sempre in Krisis: ‘tute le vene pervengono ad un medemo culo'. All life is a process of breaking down...
Immagino Eliogabalo che si mira allo specchio. Fissa le pupille nelle pupille riflesse. La soddisfazione compiaciuta dell'onnipotenza imperiale e adolescente si congela in quello sguardo che ritorna su stesso. In quella materia attonita che nel contemplarsi vacilla. A fior di labbra gli si potrebbe sentir dire, quasi intimare alla geometria effimera dei suoi atomi: ogni mio desiderio è un disordine. È un ordine che si disdice. È una meta che si perde. Piacere perverso contro godimento conservatore, nella più classica tradizione nosografica. Di vertigine in vertigine, si smette di mirare il cielo (è questo l'etimo rimosso di "desiderio") e la luce vitale viene siderata, sepolta come pianta che si coltiva appositamente per arricchire il terreno di materia organica. Ma il capitale accumulato per lo più marcisce. Non si ha mai il tempo di reinvestirlo, di farlo fruttare. Il tempo stesso non è altro che questa impossibilità. Così Eliogabalo - di orgia in orgia, di veste in veste, di rito in rito, di metamorfosi in metamorfosi - si ritrova dissolto nelle fogne dell'Urbe, fatto a pezzi dalle sue stesse guardie; si perde frantumato nel balbettio umano e disumano, prefigurazione a ritroso della lingua del corpo, superficie crocifissa e squartata, convulsiva e demente, scatologia senza escatologia, impraticabili e futili il pensiero e la parola della salvezza.
Il balbettio è infanzia incisa nella lingua adulta: ca-ca, ma-ma, pa-pa, prime fonazioni possibili e necessarie, unico orizzonte ominide universale, idiozia della molteplicità di idiomi, cosmogenesi apocalisse esplosione escremento, piacere primario della fortezza vuota del soggetto ancora non strutturato nell'identità sociale e simbolica, ma attraversato come vento impetuoso dall'immaginario in perenne movimento, senza distinzione di interno ed esterno, di proprio e improprio, di puro e impuro, di adatto ed incapace. Parola peste e parola pulita. Eliogabalo non riesce più a pensare un pensiero individuale. Non c'era mai riuscito. Ma prima non lo sapeva. E ora il suo glorioso sapere è il sapore di merda che non può neppure gustare. Se per lo spettatore la violenza del barbaro è morbosa o mostruosa, per il barbaro è la sua vita. Per il barbarico Eliogabalo è la sua vita e la sua morte. Et dans son corps il sentit un peuple invisible et discord, avide de se séparer: riferita a Lucrezio e alla sua scoperta poetico-razionale del materialismo epicureo, questa frase di Marcel Schwob scatena un evidente corto circuito con la figura elagabalica, disegnata da Artaud come crogiolo teorico e immagine concreta della sua idea di anarchia. E ad essa verrebbe spontaneo avvicinare l'anomalia selvaggia del pensiero di Spinoza, con il corpo al centro della sua etica, come paradigma politico dell'arte degli incontri e come stupore per quello che di esso ancora non conosciamo; la volontà di potenza nietzscheana, liberata dai sotterfugi dello spirito - il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice "io", ma fa "io" -; e, infine, il piano di immanenza deleuziano, in cui i processi di soggettivazione molteplice si ritagliano a partire dal caos e ad esso con schizofrenica linea di fuga ambiscono, in una possibile genealogia del materialismo della differenza e del divenire, contrapposto ad ogni ontologia del negativo, ad ogni ontologia dell'essere (se mi si passa l'apparente pleonasmo).
Ma qui potrebbe iniziare il tutto organico e sorvegliato di un articolo, come previsto e come da te sollecitato. Abituarsi ad una parola è come prendere un vizio. Abituarsi alla scrittura-porcheria è prendere il vizio circolare della ripetizione, intesa come ottusa compulsione al pragma. Che è porcheria in sragione dello specchio mai abbastanza ustorio del narcisismo mort-orale, contemplazione attonita - e compiaciuta - del secretum riversato sulla falsa tabula rasa del foglio. Falsa, perché da sempre il deserto è saturo di immagini parassitarie, di stereotipi sociali. La cosa più difficile è cancellare i clichés già presenti sulla tela bianca, ricordava Francis Bacon. Bianco è anche il rumore che in sé racchiude tutte le frequenze e da cui desumiano i "nostri" suoni in base ad una coazione mimetica che solo l'ipocrisia (un tempo si sarebbe detta: borghese) e la balordaggine (oggi il cretino è specializzato) presumono libera, autonoma e autorale.
Etica della scrittura è l'occasione, quella che fa l'uomo ladro del proprio tempo, sottraendolo alla logica ristretta dell'economia. E per quanto mi abbia frequentato per anni come basso continuo il pensiero artaudiano dell'anarchia - o forse proprio per questo habitus - mi ritrovo adesso depauperato dell'urgenza di scrittura, di una scrittura da consegnare ad una comunità "intelligente", al commento-monumento. Queste parole non mi appartengono più. Questa lingua non mi appare più necessaria. Mi è rimasto il piacere dell'occasione epistolare, unica a raccogliere la passione precisa, che in altri contesti andrebbe dissipata nei convenevoli mondani, nelle conventicole culturali, nell'oblio di altra carta riciclata. Passione precisa perché al contempo libera e costretta: libera dai formalismi pubblici, dalla retorica dei registri, dalle convenzioni "accademiche", dal professionismo "comunicativo"; e felicemente costretta dal rispetto e dall'ascolto della singolarità del destinatario. Pensare è chiamare, scrive Antonio Pizzuto. Pensare è chi-amare, lo chiosa la mia bambina.
La poesia e la politica sono troppo per un uomo solo, afferma il protagonista morente di "Terra in trance" di Glauber Rocha. Il film uscì nel 1967, l'anno in cui ho cominciato a fare involontarie rivoluzioni attorno al sole. Dopo trenta di questi capogiri cosmici, parole cultura immagini che mi hanno formato e deformato non mi appartengono più che in maniera marginale. Come vesti di cui ti svesti, quando hai l'amore in corpo. Un nuovo ospite, dopo quelli del nichilismo e dell'esuberanza creativa, si è insinuato: l'ospite inattuale del "sogno di una cosa", concime di possibile vita collettiva sprecato in un terreno storico arido, spassionato e deprecabilmente anarchico - l'aggettivo, questa volta, va inteso nell'accezione volgare e giornalistica di confusione mercantile e realpolitiker. Confusione che lo stesso Artaud ravvisa nel cinico politeismo dell'impero romano e che Eliogabalo, con la sua insurrezione solare, fa gloriosamente, vanamente, inculare in se stesso, in una sorta di demoralizzazione sistematica e gioiosa della coscienza latina. Viene difficile pensare che un simile leopardiano contrabito all'ovvio, alla brutalità dell'ovvio, sia in qualche modo praticabile, oggi, senza prometeica e velleitaria illusione, senza estetismo esibito o rischio di risentimento. C'è una resistenza, forse, soltanto "fuori dai modi" (per usare un'espressione di Juan de la Cruz), nell'autolimitarsi. Nel ricordare il precetto paternodesertico: comunicare fa male. Nello sviluppare una complicità tra cuspidi, silenziosa, umile. Oppure, più chirurgicamente, abbandonando del tutto il campo di battaglia social-spettacolare.
Ma se Eliogabalo passa di moglie in moglie come passa di cocchiere in cocchiere, passa anche di pietra in pietra, di veste in veste, di festa in festa e di ornamento in ornamento. Attraverso il colore e il senso delle pietre, la forma delle vesti, la disposizione delle feste, dei gioielli che battono sulla sua pelle, il suo spirito fa strani viaggi. È qui che lo si vede impallidire, che lo si vede tremare, alla ricerca di uno splendore, di una sporgenza alla quale si aggrappa, davanti alla fuga spaventosa di tutto. È qui che si manifesta una sorta di anarchia superiore in cui la sua profonda inquietudine prende fuoco; e corre di pietra in pietra, di splendore in splendore, di forma in forma, e di fuoco in fuoco, come se corresse d'anima in anima, in una misteriosa odissea interiore che nessuno dopo di lui ha più rifatto.
Ma se la scrittura si storna dalla vertigine ipnotica del caos e si appropria del terreno comune della lingua dei milioni di senza nome, sotterrati dalla storia per nutrire il benessere e la rapina di pochi; se la scrittura rifiuta la monomania ombelicale; se rifiuta di elargire il proprio obolo al décor patetico e querulo della cultura e dell'arte, sempre più svenevoli e flaccide nel nostro secolo...
Il periodo non si chiude, perché non saprei proprio come farlo. Non lo reggo. Passerà, questa impasse, questa balbuzie.
Passione precisa: politica poesia polvere parola. Questa teoria di consonanti esplosive e al contempo imbelli configura i contorni astratti del gioco di vedere e sentire che mi impedisce di redigere un articolo su Artaud. Car la mollesse, ici, n'est que l'écume de la force: une crête qui tremble au vent. Ik 'otik. Alcuni degli zapatisti che hanno partecipato alla marcia del 13 settembre 1997 dal Chiapas alla capitale messicana avevano questa iscrizione maya sui loro cinturoni gialli: Ik 'otik, somos viento...
Non è vero, ma prova a pensare il "frutto dell'atto" di quanto precede come se fosse stato secreto dal mio ventre molle su una comoda e civile seggetta, il ReCesso della scrittura. Ogni serietà sarà sfumata in un sorriso di imbarazzo o di infanzia complice.
Ik' è il più nero e il più brutto degli dèi, l'unico che ha il coraggio di portare in alto il fuoco appena inventato, per rischiarare il buio della notte e per combattere il freddo della solitudine. "Disse che sarebbe stato lui a portare su il fuoco, e così lo afferrò e si bruciò, e divenne nero, e poi grigio, e bianco, e giallo, e arancione, e infine rosso, e si fece fuoco, e salì al cielo urlando, e rimase lì rotondo, a volte giallo, a volte arancione, rosso, grigio, bianco e nero, e gli dèi lo chiamarono ‘sole', e giunse più luce per vedere più lontano nel cammino, e ci fu più terra, e l'acqua-notte rimase in un angolo, e ci fu la montagna", scrive Marcos.
Preme per uscire: dal sesso dal culo dalla bocca con le parole.
(Racconto del cane che attende il fischio):
Io cane si risveglia nel panico. E se mi avesse fischiato durante il sonno? Il mio pur brevissimo sonno? Scosse elettriche insensate fanno della corteccia cerebrale una cuffia di dolore. Poi l'idea che balena come promessa di quiete: divento buddista. Il primo cane buddista. Mi han detto che la parola significa: risvegliato. Così potrei sentire il fischio, in qualunque momento decidesse di arrivare. Ma come farò con la morsa della stanchezza? Imparare le tecniche di insonnia vuol dire impegnarsi, studiare, ed io mi posso occupare soltanto del fischio, ora.
È un bel dilemma. Se mi si passa l'espressione, non si sevizia così un paperino. Men che mai un cane paperino. C'è un fiume di pensieri che scorre dentro le mie vene. Mi sembrano bianchi e lontani, come quella via lattea, lassù, ripulita dal vento e che non riesce a dissetarmi. Io ci ficco il muso, la notte, e al mattino lo ritrovo gonfio e ottuso. Forse aspetto il fischio dal cielo?
Sapete come scrive un cane? In piedi, a quattro zampe, tracciando segni con il naso umido sulla sabbia del deserto. Qualunque incidente può cancellare le mie lettere. Ma che importa. Io scrivo soltanto in attesa del fischio. Del resto, chi volete che legga i miei geroglifici, qui, nel deserto? Qualche archeologo un po' svitato, ma non prima della mia morte. E questa credo sia ancora da venire. Certo, non è una gran vita, qui, nella desolazione arida e spopolata, a fare timidi solchi sulla polvere spazzata dal vento, a farsi leggere la notte dalle stelle e a farsi redarguire il giorno dal sole. Ma lo dite voi, che non è una gran vita. Lo dite soltanto perché non avete mai sentito il fischio. Quando arriva è come se la terra sorridesse. Allora mi potrò stendere, sulla terra, e riposare.
Vi par poco?
P.S. Mentre finivo la lettera e cominciavo a stamparla, ha preso a piovere a dirotto. Almeno il cielo si libera del suo turgore e sciacqua via l'inferno tossico dell'aria. Il segreto sta tutto qui: rendere respirabile il veleno. Molte volte ho desiderato camminare senza meta, di notte, sotto la pioggia. Qualche volta l'ho fatto, ricordi? E il mio ombrello-protezione eri tu, la pioggia acida e malvagia eri tu, il mio abbraccio di nuvola eri tu. Ti bacerei.
Oggi la luce è limpidissima e all'ora di pranzo disegnava i profili delle montagne con precisione mozzafiato, ma il blu del cielo, malgrado la temperatura rigida, non era il tipico turchese intenso e preinvernale di queste parti, piuttosto un azzurro velato di zucchero, con il tappeto dei prati restituito a terra e gli alberi che si stanno spogliando dei colori caldi e morbidi. Verdi rugginosi che nella distanza si stemperano in un ventaglio quasi monocromo di marroni.
...bisogna avere un bel maglione per non essere un coglione, un maglione pesante per l'inverno equidistante, dico parole sceme perché il maglione mi preme, la prima cosa è il mio nome la seconda il maglione...
Ti scrivo questo biglietto insensato perché il tuo pensiero mi ha accompagnato con tenera insistenza negli ultimi giorni. Sto ascoltando in sordina, per non inquietare il riposo familiare, il primo movimento del terzo concerto brandeburghese di Bach. L'indicazione del tempo recita: allegro. È un'ostinazione intensa e delicata, quella che mi suggerisce. Dispongo lo stereo in modo da ripetere il brano. Mi accompagnerà discreto per la durata di queste poche righe.
Che cos'è la distanza? Inizia con la "d", come desiderio. Che sia un residuo di quella potenza dell'astrazione di cui ti accennavo nella lettera precedente? E che sia per questo motivo che il mio corpo si trova ad essere più incline ad avvertire la vita in una dimensione ottica - mediata, allontanata, distrutta e ricostruita? Salvo poi collassare felicemente, però, nella presenza animale effimera... Un po' come l'aura di Walter Benjamin: prossimità di una lontananza. Nella geometrica eppur fisica astrattezza della musica ritrovo questa contraddizione di cui vivo mi nutro e consumo. Sono settimane e mesi - le settimane e i mesi del motivo sconsideratamente allegro che mi abita - che la musica ha ripreso ad accompagnarmi, con la sua compresenza di corpo demente - trascinato dal ritmo, pervaso dal rumore, beato nella contemplazione - e di cervello lucidissimo, diabolicamente architettonico.
Avrebbe dovuto essere un billet doux, lo ammetto. E lo è, seppur sotto mentite spoglie di considerazioni frammentarie e apparentemente generiche. On n'a plus beaucoup de musique en soi pour faire danser la vie, voilà: questa frase di Louis-Ferdinand Céline dal "Viaggio al temine della notte" mi fa da basso continuo sin dall'età di quattordici anni. Il guaio è che mi sento di nuovo invaso, invece, da un incontenibile torrente musicale, fatto sorprendente, soprattutto considerate le ultime stagioni di programmatico e strumentale raffreddamento degli umori animali. E soltanto a causa della diffidenza accumulata tengo imbrigliata la bestia. Che è la matrice della complicità teppistica di cui ti ho brevemente detto. Sentivo il bisogno di ripeterlo, con variazione. Non sono un grande strumentista, forse, ma con la pratica... Bando alle facezie, comunque. Vagabondo ellittico e barocco lungo una linea rivoluzionaria - così continuo a chiamarla, sin dall'infanzia, con affetto astronomico - per indecisione tra la natura di pianeta errante e quella di sole dissipatore (la cui eventuale generosità lucifera travalica ogni intenzione o capacità, beninteso). Anche adesso, nelle rapide volute di questo foglio, un po' per umoristica disciplina tantrica, un po' per pudore "classico", sorvolo il fiore dell'affermazione senza toccarlo. Lo sfioro appena, lo annuso, dicendoti che l'essenziale di questa lettera - essenziale come il bicchiere di vino rosso che la mia parola non riesce ad eguagliare - è il non scritto del tempo che ho ritagliato dallo scorrere quotidiano. Tempo dedicato ad un pensiero non verbale che ti riguarda. E proprio per non lasciare troppo sospeso il periodo (è la vecchiaia, forse, questa tentazione di equilibrio? questo horror vacui - per quanto orientale sia il vuoto in oggetto?), recupero un vestito parziale e rassicurante (una vestaglia?) al non detto del corpo, chiamandolo, di nuovo, complicità.
Un esercito di bottiglie vuote e di bicchieri servili.
C'è un merlo nero e canterino appollaiato sul ramo più alto dell'albero, alla sinistra della mia finestra. La sua primavera è piena, incontenibile. La sua voce è diamante in mezzo al frullo degli altri volatili, al loro cinguettare petulante. Gorgheggia, fischia, richiama e si fa conoscere. Dopo vari fraseggi ritorna sempre allo stesso ritornello, quattro note in scala crescente, con l'ultima dilatata e squillante, quasi compiaciuta. Ora si è spostato, ma lo posso sempre sentire. E ora è tornato, veloce, come un piccolo re, proprio sull'esile punta verticale del ramo, in trono, nel suo equilibrio perfetto. Aprile è il più crudele dei mesi...
Ti vorrei qui a succhiarmi il cazzo e morderlo, sto impazzendo, anzi, incazzendo, non incazzando, no, non serve a nulla, sono così stanco di rabbie canine, di serietà... l'abitudine è ‘na brutta troia, i suoi porci servigi li accetti e implori anche a costo di abbrutirti... E gli abiti son belli soltanto perché li cambi e ti svesti.
Poi cercherò di non scriverti più. Niente francobolli, niente buste. Anche la passione precisa che è la scrittura, la scrittura epistolare, soprattutto, rischia di sentirsi incatenata all'incubo dello specchio, al ritorno dell'immagine che si rivolge esclusivamente a se stessa. Tutto questo non appartiene più all'ordine e alla musica delle mie fibre carnali, del mio corpo cerebrale, delle mie ossa bianche, dei miei fantasmi astrali. Scrivo e penso e vivo e progetto perché mi sento inguainato nel tuo corpo, protetto dai tuoi umori, carezzato dal tuo piacere, avvinto dai tuoi occhi e dalle tue mani, inondato dal tuo odore. La logica della mia vita è semplice e immutabile, ormai.
Ho vagulato come anìmula blandula per la Firenze turistica, senza meta, con passo più lento del solito. Ho sostato parecchi minuti su un cippo di pietra davanti al porticato degli Uffizi, semioscuro e paradossalmente vuoto. Poi di nuovo alla ricerca di un luogo più accogliente. Nel tragitto l'immagine più surreale è quella di un macellaio in Via dei Neri (già Via del Leone), assiso in un sontuoso negozio di marmo bianco, dirimpetto all'entrata il bancone michelangiolesco rialzato a dismisura, quasi il nostro celebrasse un arcaico rituale della carne dietro al suo altare, con il suo candido camice. Sotto, piccolissimi, immobili, due vecchi clienti vestiti di scuro.
E adesso, dopo la visione misterica e grottesca, mi ritrovo in un piccolo "Eat and go" accanto a Piazza della Signoria, appena svuotato dalle uniche due presenze, silenziose ragazze giapponesi. Anche la cameriera mi lascia solo. Con una birra piccola (pessima) e una fetta di torta al cioccolato (eccellente). Faccio pausa per soddisfare quella parte di me che non scrive.
Sono ancora sotto vetro, tra tavolini di legno lucidi e deserti. Sotto vetro. A volte ho il terrore di ritrovare ridotti a questo distacco asettico anche i rapporti che mi eran sembrati nascere nel segno della complicità. E non sotto quello ingannevole e trasparente del vetro, appunto, che lascia passare una rappresentazione di sé, ma senza permettere il contatto. Le icone di noi stessi si affannano a farci da messaggeri, angelici, deformanti e disincarnati. Non ci accorgiamo di quello che accade e, tristi o ancor peggio irrigiditi nell'orgoglio, reclamiamo una paranoica incomprensione da parte del mondo. Solipsisti e distruttivi, affondiamo sempre di più nel buio delle nostre fortezze.
Ho appena mollato una bella scurreggia puzzolente. Che stia tornando la salute? Sono un mistico zen: lo Pseudo-Dionigi l'Aerofagita.
"Life begins with pussy. And for the lucky man it ends with pussy"
Ai giardini del Lussemburgo. Notte. Avevamo scavalcato? No, era il prato dirimpetto all'Osservatorio. Ti infilai le mani tra le cosce. Il tuo sguardo era duro. Reclinasti il capo, ansimando come una bestia. Il n'y a que ça, dicesti. Sembrava un rimprovero. Sembrava.
E allora ho deciso: ci vado da solo a passeggiare.
Non sarò pedante nell'illustrarti l'eroica deambulazione da città a valle (direzione Ortolano e Posara), con relativo rientro. Basti il silenzio di voci mondane, a cui si opponeva soltanto l'inestinguibile vocìo interno, la parola continua parzialmente sedata - nelle sue associazioni ottuse, ossessivamente impegnate a rimuginare il medesimo - da una tecnica blanda, ma a tratti efficace: osservazione e descrizione. Che cosa me ne faccio degli umani se ci sono gli alberi? E via a compiacermi, a guardarli, a nominarli.
Ripenso il pensiero banale che di tanto in tanto, come un'onda involontaria, mi visita: la felicità di vedere come felicità della distanza; il mondo reale, concreto, tangibile, ma che non è lì, perché gli occhi-desiderio lo rendono immagine, lontano, inabitabile. Il mondo che si allontana come l'orizzonte, e tu che resti sempre un passo indietro rispetto all'ombra dello sguardo. La felicità, in certi giorni, è un punto di fuga, uno scorcio, un'illusione di prospettiva.
Io aspetto. E mi infetto. È un gioco di parole per prendermi per il culo? Forse.
(Ad un picciotto agonista): come imparare il gusto del pudore, l'eleganza virile e aristocratica del non interferire? Come disimparare, piuttosto, succubi di secoli d'incallimento sociale familiare laico laido cattolico educativo? Il fradiciccio cadaverico di sembianza giovanile non riuscirà mai a guadagnare vette o abissi, né adulti né infanti, rimanendo inchiodato, senza neppure il riflesso di un gesto patetico, all'ibrido ittiomorfismo esangue (con rispetto per simboli sacri e ghiozzi) di bigia mediocritas in secolo isterico e pavido, imperdonabile per spassionata e nient'affatto mistica miopia di fronte e retro: nessuna memoria arcaica, nessun ludico siderale abbandono, parimenti sordi a horror vacui di futuro vostro e presente squallore. Quanto letame si tollera per ridursi al dialogo, vero? E quanto ancora per votarsi alla poubellication. Se sa, ar monno semo usciti fori impastati de merda e de monnezza. Nel conto dei miei giorni figura anche questo lusso demotico e barocco, el mundo al revez arabescato dalle mani di un crap artist. Dove si dà crogiolo di duende, ogni felice alchimia è possibile.
Ho la testa in fiamme. La pazienza è la virtù dei morti.
Scrivere lettere senza più spedirle. Evitare la parola polemica, la parola seduttrice, la parola che persuade. Non affannarsi più per dissipare i malintesi. Accondiscendere alla riduzione del teatro, alla retorica sterile del monologo monomaniaco, con paziente attesa del suo stemperarsi in molteplicità anonima. Fanculo a te. E anche a me. E se qualcuno mi dice che la vita continua, lo ammazzo!
Filosofia. Se il sapere è sapore, l'amore del sapere è amore dell'amore.
Il labirinto - quello dell'orecchio, intendo - forse non è nient'altro che la colata lavica di un ritmo. Roccia vulcanica e metamorfica di una torre di Babele intarsiata di linee vocali che si inseguono, come un'arte della fuga senza Maestro né Dio.
(Terza parte - la prima è andata perduta - della storia del cane, tarantolata dall'ascolto di "The Mercy Seat"):
Ora si avvicina un frastuono, da lontano, da molto lontano, non so se dentro o fuori. C'è il mio fischio, forse, in mezzo a quel rombo di naufragio? Qualcuno canta, nella mia zucca vuota di cane che aspetta: in ogni caso ho detto la verità e non ho paura di morire, la mia testa sta bruciando e non vedo l'ora di sottopormi a questa prova, la mia sedia sta bruciando e credo la mia testa sia incandescente e in un certo senso sto sperando di farla finita con questo esame della verità, di farla finita con tutti questi sguardi increduli, di farla finita con questa prova della prova...
È una bella canzone. Bella come si direbbe di una divinità terribile che si mostra, che appare nel suo abbagliante fulgore, come una farfalla che cerca la luce e viene ustionata; è un ballo tondo e io lo seguo, qui, alla catena del mio deserto, girando dietro la mia coda, i violini che si infilano nel cranio, tagliano e tagliano e tagliano, il sangue che bolle e ribolle, il rumore che si avvicina, il rumore che sale dalla terra e non c'è niente da fare, non c'è niente da fare.
Quando sarò caduto di vertigine, quando lo squilibrio della danza avrà scompaginato mare monti e firmamento, quando il deserto non sarà più sotto alle mie zampe, ma ovunque, sopra e intorno e dentro, nel fiato ansimante, nel ronzio delle orecchie, nello stupore allucinato degli occhi, in tutti i colori e nel buio, allora sarò di nuovo pronto per accogliere il fischio. E se non verrà, riderò lo stesso, finalmente idiota. Il mio sorriso bianco, a tutte zanne, inonderà il sistema solare. Fata morgana con cui mi sposerò, senza neppure saperlo.
Il sorriso del bambino con la madre, increspatura d'onda sulla superficie della pelle, hilaritas spinoziana che mette in risonanza gli ambienti, sensualità affettiva dei corpi. La dialettica non è che confusione. Schiuma astratta senza sorriso. Per i pitagorici l'occhio emetteva raggi e tentacoli con cui sondava il mondo esterno. Natura aptica dell'ottica, orientamento tattile nel visibile. Lo sguardo, una carezza.
Mi ti miri ti. Ti mi rimiri, mi?
Insomma, "tu sei bella senza ghirigori", e questo lo sento ancora, nel vibrato delle tue incertezze, nella sismografia della voce, per quanto ti affanni - e capisco fin troppo la sragione semiseria di sussistenza - ad incalzare ogni vuoto, a distrarre qualsiasi ponderata gravità. Adesso è l'una. Io vado a letto, tu tra poco ti alzerai.
Stornare il fascismo del senso comune. Esempio: fidarsi è male, non fidarsi è peggio.
Gli scheletri invernali degli alberi sulla collina sono affondati nel buio. Il tetto e il lucernario tamburellati dalla pioggia. Che sembra intenzionata ad aumentare. Se non prevedessi il ricovero immediato per broncopolmonite (e in caso di scampato pericolo, immediatamente a seguire, per insania) uscirei a camminare, intriso d'acqua e silenzio. Ho bisogno di sentirmi invaso da tutto, adesso, in queste ore. Non razionalità, né orologi e neppure tristezze limitate al destino di un nome, alle vicende della fortuna sociale, alla perenne labilità delle parole. Sentire tutto. Sentire la voce che ti attraversa e che non dice più io. Gocce di pioggia, ad una ad una, sull'asfalto, sui capelli, sulla pelle, dentro ai vestiti, nelle scarpe. Aprire la bocca e sbattere le palpebre colpite bagnate accarezzate. E le automobili che tagliano la caduta del rumore verticale con lo sciacquio dei pneumatici. La terra che ruota, sentirla sotto ai piedi. Il sole annerito, sentirlo sotto ai piedi. E proseguire fino alla fine della stanchezza. Sedersi su una pietra. Aspettare. Un altro motivo salirà dal corpo. Un altro motivo per camminare di nuovo. Un'altra musica lenta, implacabile, che costringerà al rifugio, alla protezione, al riposo. Un'altra occasione per illudersi. E invece resto qui. Scrivo.
Quando mi chiedevano come va, soprattutto al telefono, rispondevo: passa alla seconda domanda. Adesso mi verrebbe da dire: qual è il soggetto?
Pensiero veloce delle 18.45. Scuole elementari, bricolage, disegni, carte colorate. Ero proprio negato, nel disegno. Che le mie ossessioni future fossero già inscritte in questa frustrazione, in questa consapevolezza del mio limite? Cinema e video come compensazione? Io mi sforzavo; e lo vedevo che le figure umane "vere" non avevano contorni rigidi, teste quadrate, busto rettangolare, gambe-tronco divaricate a forbici, mani paletta e braccia ingessate. Niente da fare. I monti, per esempio: sempre all'orizzonte, a metà tra la terra e il cielo. Ma perché così regolarmente squadrati e aggressivi come una sega boscaiola? Gnosticismo precoce? Demonismo sadiano? No - mi dicevano -; ‘n t' sen bón a disegnar e basta. Per anni, con malcelato orgoglio di adolescente, ho profferito il mio disprezzo per questa attività "secondaria" dello "spirito", coltivando con felicità di mente le virtù dell'astrazione. La curiosità scientifica e filosofica e psicologica. Poi le forme son tornate nell'inseguimento dei corpi, nella fascinazione per simmetrie e asimmetrie di volti, per rotondità e spigolosità di volumi, per consistenza e morbidezza di fibre. E la mano ha trovato una sua linea di fuga nell'eros e un'altra nella protesi tecnologica - video cinema grafica -, che permette di plasmare immagini aggirando i limiti congeniti dell'abilità pittorica.
Li vedi intorno al tavolo, in piedi, stringersi mani e scambiarsi suoni tipo: piacere. Nomi propri subito dimenticati. E allora ti penso mentre strizzi gli occhi guardando tuo figlio, e lui ti fa specchio, sorridendo con tutto il corpo, ed entrambi lanciate gridolini di intesa.
Là dove c'è la macchina c'è sempre l'abisso e il nulla. C'è sempre una mediazione tecnica che deforma e annienta ciò che si è fatto, grida Antonin Artaud. Mentre lavoro al computer per correggere alcuni passaggi di questo libro, per un insondabile incidente elettronico, il documento rischia di andare smarrito. Sic transit gloria mundi, mi dice Lorenzo beffardo. Ansia per i mesi trascorsi nell'unica attività (produttiva?) della scrittura, forse ingoiati nei labirinti ciechi del silicio. Orrore all'idea di dover riscrivere. Provo a riaprire il file con strategie di recupero che mi vengono suggerite al telefono. Invano. Nei reiterati tentativi il nome si trasforma da "BUONANOTTE INFINITA" a "...ONAN...". Mi sento giudicato. Ne nasce un grottesco western, in cui vinco la sfida grazie ad un empirismo eretico che, per incompetenza, ignora le regole del gioco e si appropria nuovamente del testo dato per spacciato. Tutto ciò che è razionale è irreale. Velocità di mano mi permette di superare, con il mouse, i tempi di reazione della macchina. I'm too fast, mi dico, orgoglioso. Poi ripenso a "velocità di mano" e al sarcasmo involontario di Onan. La scrittura è un esercizio solitario, già. Un'ascesi. E rimbalzo a Piazza Campo dei Fiori dove Camille, tra rifiuti del mercato e bronzo torrido del sole di giugno, mi dice: fottere fottere fottere, basta con il simbolico! Ed essere fottuto, naturalmente...
Squilibrato come un bambino: la testa pesa più di tutto il resto. È questo il guaio.
Da ieri è iniziata di nuovo la giostra. L'allegria sbruffona è rimasta tutto il giorno, solo parzialmente attenuata dall'ormai incallito (?) savoir faire. A un certo punto mi son stupito io stesso della mia facondia ritrovata. Dall'automutismo all'automatismo il passo è stato così breve e rapido che stavo per fermarmi e, in mezzo a tutti i convenuti, poco ci è mancato che mi facessi i complimenti per la tenuta retorica (pazienza, precisione, affabilità). Mi è venuta alla memoria, come deterrente, una recente battuta filmica: non facciamoci i pompini da soli! Ho avuto un solo segno di quasi impercettibile cedimento: all'entrata del figliolo della nostra ospite - la dott.ssa doppia Kappa, con il suo vespaio crinito in testa e l'improbabile vestito nero a pizzi very sexy - che, totalmente alienato dalla riunione "adulta", si è messo in un angolo del grande studio bianco stringendo tra le zampe (superiori?) un panino di proporzioni enormi e di contenuto debordante, tanto da doversi aiutare con la prominenza dell'epa per sorreggerlo e infine, avido, sicuro, buddisticamente indifferente ai dolori dell'universo, azzannarlo a morte. Ho piegato lo scoppio incontenibile di risa che mi saliva dal gargarozzo in un rictus ammiccante alla prima malcapitata figura femminile (se fa pe' di') accortasi della mia distrazione. Che ha ricambiato con una smorfia analoga, imbarazzata e lievemente sostenuta. James Ensor non avrebbe dipinto di peggio.
(Pare confuso e senza costrutto tutto questo, vero? Segui il ritmo. Mark the music)
Currens per anni circulum. Questo libro è un trattato di musica barocca e aleatoria; un breviario che celebra lo scorrere effimero e sconnesso delle ore; una vecchia pellicola montata da una scimmia in calore; una canzone d'amore cantata su un palco vuoto ad un pubblico assente, senza amplificazione e con le telecamere spente di una televisione di provincia; è un video sgranato e mosso girato da un incauto turista dell'essere; una tecnologia del sé che si perde e si raccoglie e al contempo una tecnica inconsapevole della separazione; è la bottiglia di un naufrago e il naufrago non la vorrebbe mai congedare, perché se perde anche quella, che gli rimane? Non ha alcuna ragionevole speranza che possa raggiungere squadre di salvataggio, e poi non sopporta la speranza perché induce ansia e vane aspettative, e nemmeno le squadre perché preferisce giocare da solo o al massimo con te che adesso non vuoi, e poi non vuole esser salvato perché la salvezza è consolatoria, e poi si ricorda, però, che a volte, forse, un po' di consolazione non ci sta male, e allora, dice, me la tengo, la bottiglia, anche se è vuota, anche se è piena di carta tra poco illeggibile per la ferocia del sole e per l'umidità salata del mare. Musica concreta, cinema muto, pop song, video senza art, un racconto di Conrad che si vorrebbe essere, e non leggere, senza mai uscirne. Sono vicino ai trentun anni. Eh sì, mentre mi distraevo scrivendo, s'è compiuto un intero giro intorno al sole. Come in ogni liturgia, anche in quella solitaria e forse involontaria della scrittura, il movimento del corpo, i suoi gesti più delicati mimano la circolarità del cosmo. Trentun anni e non ho i soldi per continuare a fare il bambino (quasi una petizione...).
Ogni cittadino toscano produce in media un chilo e mezzo di merda al giorno. È poco? Oggi il telegiornale ha dato questa notizia.
Martedì, Sant'Albina Vergine. Anche il cielo è biancalbino. E gelido. Pomeriggio, quattro meno venti. Tramontana. Di ritorno da vagabondaggi toscani e rifugi vari. Da ennesimi tentativi di forzare il forziere della pubblica vacuità.
Qualche sera fa, anzi era notte fonda e mattina piatta, Firenze schiacciata dall'alta pressione polare, mi sono incrociato in uno specchio a muro (no, era dietro una porta), tanto lungo quanto io stanco. Luce giallastra di corridoio. Ricordo subito le parole candidamente autocompiaciute che ti scrissi sull'epifania delle mie labbra nello specchietto retrovisore. Questa volta la sensazione è opposta. Mi son sorpreso asimmetrico, scoordinato, pesante nei tratti del volto e goffo. Un sacchetto svuotato di luce, un po' di merda e piscio e sangue, più o meno circolanti. Un po' di sperma che urge. Qualche balbuzie di parola per fingere contatti col mondo (e scroccare piatti di minestra, birre e letti caldi). Il giaciglio che mi accolse, poi, era un triste materasso molle piazzato sul pavimento. Stanza freddissima e angusta. Avrei voluto indossare il passamontagna nero, ma per tema di terrorizzare il mio ospite in caso di suo risveglio improvviso, ho lasciato i sogni irrigidirsi nel frigorifero del cranio. Tra una convulsione onirica e l'altra, palombaro di me stesso, mi son tuffato per intero sotto le coperte. E son scappato presto, la mattina.
Il passamontagna però è servito, dopo. Sabato notte, a Fivizzano. Con Francesco e Lorenzo. Nell'augusta, deserta e fredda piazza medicea le nostre tre marmotte, momentaneamente non rassegnate ad un presente futuribile, hanno fatto tesoro di un pallone nerazzurro timidamente nascosto dietro una siepe. E si sono improvvisati calciatori fino alle due, svegliando casigliani, stupendo passanti automobilizzati e avventori tardivi in uscita da bar e paninoteche. Il sottoscritto era il centro d'attrazione stupita sussiegosa divertita e che altro dei vari malcapitati (rigorosamente beffeggiati a qualsiasi tentativo di comunicazione), in ragione dell'anonimato garantito dal fascia-capo nero: Digos? Marcos? Terror? Idiota?
Sudato fradicio e felice (mi son prodigato come portiere, gettandomi sui lastroni di pietra - n.b.: la porta era lo scheletro denudato della struttura metallica che regge il tendone della pizzeria Medicea ex Fontana ex Virus; e ho fatto anche il goleador, indugiando in preziosistici colpi di tacco e tiri mancini), sudato e felice, dicevo, son tornato a casa, e con l'adrenalina a mille la stanchezza dei precedenti giorni insonni si era dispersa dai pori umidicci. Cerco di convincere i compañeros alla visione di "Sonatine", cantando loro una serenata ipnotico-demenziale a base di: Ki-ta-no (ripetendolo per 52 volte, come il ritornello della geniale "Ti amo" di Umberto Tozzi). Niente. A nanna. Prima di imbucarmi sotto le coperte, però, squilla il telefono e una voce mi canta e sussurra: "kì taa no, ki-ta-no-kì taa no...". Gli era il Francesco, in vena di tenerezze.
Per favore, non servite il brodo. Mi fa schifo sentirvi risucchiare.
Pasqua. Annuncio televisivo del passaggio della "Bibbia", il più grande colossal di tutti i tempi... Peter O' Toole fa la parte dei tre angeli. E poi dite che sono io il megalomane! Vorrei essere Lawrence d'Arabia: "quelli che sognano di notte, nei ripostigli polverosi della mente, scoprono, al risveglio, la vacuità di quelle immagini; ma quelli che sono abituati a sognare di giorno sono soggetti pericolosi, perché può accadere che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu quanto io feci". Se lo dice lui, va bene. Se lo ripeto, non è che scrittura. E la scrittura, in certi casi, fa schifo. Tutte seghe.
LASCIO IL SEGNO ERGO SUM: dal finestrino di un treno, come lampo semiotico mi appare, patetica e ironica, pittata su muro di periferia urbana, questa frase graffito, sguantata caverna dell'immutabile antropico.
La tua lettera è disperata, tenera e divertita. Sintassi jazz. Stavo per scrivere: mi ha lasciato senza fiato, ma l'espressione va censurata subito. Perché è un cliché obbrobrioso e i clichés son tollerabili soltanto per stampare moneta (vera o falsa). Il senza fiato era riferito piuttosto all'apnea del sassofonista, che ad occhi e orecchi ammirati sembra disegnare le sue acrobazie sonore e polmonari come il filo unico di un'intuizione precisa, per quanto frastagliata e irrequieta nelle sue parti. È quello che amo in John Coltrane. Non formalismi, non musica, non arte, ma un pensiero del corpo limpido e felice, dolorosamente quieto. Come la conclusione di "Serenity", nella prima versione di "Meditations". Un cristallo di fiato, scriverebbe Paul Celan.
Mi ha lasciato senza immagini, la tua lettera, con un gusto nella bocca che non riesco e non voglio definire; e il desiderio di riscriverti. L'ho letta la prima volta velocemente, in un passaggio casalingo che non mi permetteva pausa e attenzione. Eppure è rimasta una piccola musica, un ronzio delicato e impertinente, che mi ha accompagnato in questi ultimi giorni. Mi scopro delicatamente invaso dal suo ritmo in frangenti dell'automatismo quotidiano - macchina risvegli vesti e svesti. E non mi turba, strano, la malinconia. Vorrei carezzarla via, questo sì.
Nolo te tangere, volo me piangere. Eppur mi vien da ridere. E da ridire e dire e ridire, forse perché le parole mi si son tutte consunte e quindi scivolano facili. Logorrea gonorrea piorrea diarrea... panta rei, riassumeva (apocrifo) Eraclito l'oscuro: tutto scorre. Ci ho camminato sopra (alle parole). Pensavo fossero scarpe. Ho comprato anche anfibi da guerriglia tropicale: un male! I miei stinchi non sono abituati. Ho preso ‘sti carrarmati, pensando di proteggermi meglio dall'acqua invernale e di piantare più a terra le mie piante sbandate, dislocate e sradicate. Risultato: hai presente Frankenstin con residui di velleità dandy? La grazia, signore e signori, la grazia prima di tutto! E io che continuo a dire e scrivere: sono un idiota... Non ci credono. Pensano a modestia. Magari anche a falsa modestia. Vaglielo a spiegare che mi fa soffrire (non) essere preso sul serio. E che mi fa ancora più soffrire spiegare. Finis. Finis terrae.
Fuga incessante delle cose. Quando l'informe ti assale, il ritmo diventa l'utopia del tempo.
Campo dei Fiori, 8 ottobre 1996, ubriaco fradicio. Pensarti mi fa scrivere questa scemenza, questo banale enigma presocratico, questo afrosisma (come direbbe Gianluca): quando il mare sa che dipende dai fiumi, significa che si sta prosciugando. E il rumore delle mie onde è spreco di spreco, vaneggiare delle voci che mi attraversano, senza più la gioia del passaggio, con l'infelicità dell'effrazione. L'immutabile che ripete la sua stanca storia. - Sembri un uomo intelligente - disse Don Chisciotte. - I know not seem, Madame! - risponderebbe Amleto. Sono soltanto sciagurato, desdichado. E tra i fumi del Frascati sbevazzato ad ogni angolo della piazza, l'ombra della statua di Giordano Bruno mi ricorda l'incanto della stanza di Circe, la materia che tutto trasforma e travolge. La sera sono a teatro a vedere ciò che resta di Carmelo. Il suo demone e la sua eleganza sono scomparsi da almeno dieci anni. La masturbazione parallela di Macbeth e Lady Macbeth è l'unico guizzo irriverente, di parodistica disperazione. Sto invecchiando. La decadenza, anche quella altrui, mi fa soffrire.
Ti miao e ti rimiao, finché non arriva la croce verde rossa o blu a trascinarmi fuori dalla casa paterna materna e sororale per innegabile impudica improduttività sociale (va' a lavorar, barbùn!). Dopo il tetro inferno tetraebdomadario (che non è uno strano dromedario, ma comunque un animale sì, l'animale che divento nel deserto in cui mi lasci) in cui (vedi, vedi, mi ripeto anche: in cui, in cui, in cui...) m'hai (ahi!) ficcato, fichina fichetta adoratissima e maledetta; dopo l'inferno caliente, me trovo in un paradiso artificiale, drogato di endorfine (poi te spiego) autogenerate per soffocamento autistico; un paradiso come quello sonettato dal Belli, dove non ci sono minchioni, ma "le sante ce se gratteno la fica e li santi l'ucello e li cojoni". M'hai (ahi ahi!) appiccicato le mie mani prensili all'ombelico (eufemismo per metonimia discreta) e invece di guidare scrivere telefonare pensare (fatica', ‘nzomma), me le devo distrarre dal porno dio abbandonato. E così - bello "e così", vero? sembra la svolta sintattica di una fiaba, l'aprirsi di un nuovo insospettato orizzonte - e così, oggi, giorno del Signore martedì 17 febbraio 1998, ancora non del tutto reintegrato nelle grazie della salute che iddio mi deve (se me l'ha data, perché me la toglie? come te, no?), dedico e profondo e impiego e dispiego le mie energie residue, invece che per impegni imminenti e quotidiani, per il massacro di me medesimo meco, povero tricheco, con la vertigine pittografica (scrittura di luce del pito ch'a son) delle tue foto trattate al computer. Ore ore ore a ritoccarti i contorni e cambiarti i colori e il contrasto e ritagliare e spostare e annusare. Le ore gli era un giornale porno che girava tra i banchi alle scuole medie. Pornina pornona, mentre te scrivo te miro, e anche se ho già provato a placarlo, a placarmi, ecco qui, di nuovo, che mi tiro. La preghiera dura. Nel senso che è dura, come sasso e legno e metallo. Nel senso che è faticosa, difficile e spaventosa. Nel senso che continua, insiste e persiste. Ma la mano non resiste. Ho più erezioni che capelli. Non ci credi? Vieni a vederli, vieni a contarli! L'ho fatto piagne dieci minuti fa, e già ce riprova. Come devo comportarmi? Lo meno? E lui frigna. Poi s'azzittisce per quarche seconno, fa finta de gnente, e quanno che me distraggo, aritònfa, è lì tutto ‘mpettito, fiero, marziale, così tanto che me fa male, e par quasi me provochi, come dire: mename, che te faccio vede' se so piagne o no... Occhi e uccello: hai deciso che devo spurgare tutti i liquidi vitali. Lo so che sono il mare, ma sotto il mare c'è il deserto, e lo sento, lo sento, che preme e asciuga e succhia e prosciuga. E poi ce sta n'antro pericolo: 'a glaciazzione. Te servirà pure a quarcosa studià ‘a giografia, no? E agiografia è disciplina che occupasi (davvero!?) de me, ovverossia: er santo. Amare è conoscere e conoscere è amare, il mare amaro, conoscere è sapere, sapore è il mare e bere e amare e bere bere bere... mi sto facendo troppe pere. E l'eroina sei tu. T'amo e bramo sempre più; dio bau bau, m'hai buttato proprio giù.
"Nous avons besoin d'une éthique ou d'une foi, ce qui fait rire les idiots; ce n'est pas un besoin de croire à autre chose, mais un besoin de croire à ce monde-ci, dont les idiots font partie"
Don Chisciotte tradito si sveglia e i mulini son veramente mulini. Don Chisciotte cerca un punto di sé ancora vivo per non morire da morto. Per non morire con questo gusto inaudito in bocca, che è l'amaro del disamore. Dulcinea è una vecchia baldracca o il sogno di una bambina. Don Chisciotte tradito è ridotto alla banalità dei luoghi comuni, la sua passione infangata - tu l'hai detto, non io - e la vita intera un pianoro squallido, dove regnano la sfiducia e il disincanto. Ogni volta che si tradisce Don Chisciotte si uccide il sogno. Si uccide l'infanzia e la maturità. E chi lo fa, di solito, non prova vergogna. Così ci si abitua, e si finisce per accettare tristemente l'ineluttabile: che nulla sia unico e insostituibile, che nulla meriti devozione assoluta.
Un sogno. E continuo a ripetermi, per timore di dimenticarlo e con l'intenzione di scrivertelo: brulicante d'insospettabile vita...
Spraiata sui muri di tutte le metropoli del pianeta, da lei all'eternità, da lei all'eternità; dipinta sulle case nei métro sui treni nelle stazioni sulle strade negli aeroporti dentro i cessi; incisa sulle porte sugli alberi sulle statue sui monumenti sui banchi di scuola nelle corsie d'ospedale dentro i cimiteri; segnata sulla carta rinchiusa nei libri battuta su un monitor imbustata e spedita; urlata al microfono nelle stanze nelle piazze nei boschi dentro le macchine sulle autostrade; lacrimata sussurrata detta e disdetta; violentata e dimenticata; promessa e ritirata; scambiata e volatilizzata; lenta e veloce: la parola polvere, la parola pietra, la parola politica, la parola passione, la parola pesante, la parola poesia, la parola paralitica, la parola pratica, la parola peste, la parola purga, la parola pirla, la parola palla, la parola palude, la parola piaga...
Scendo a far colazione e dalla porta della sala, come in un'entrata di scena, si affaccia mio nonno, seguito da mia madre. Silenziosi. Quando rimaniamo soli, seduti sulle poltrone, mi parla della vecchiaia, dove non c'è più nulla, si vegeta, sì, si continua a parlare, a vedere il sole, ma non ti voglio spaventare, vorrei che tu arrivassi anche più in là di me, certo. Dicono - continua - che quando si è vecchi ci si attacca di più alla vita, ma per me non è così, ci credi? Con una risata in sordina gli faccio capire che non mi convince. Non dico niente perché sono ancora gonfio di tutte le botte della notte, visibili e invisibili. Fa lo spazientito, ma sorride anche lui. Poi insiste: io non riesco a dire una cosa e a pensarne un'altra. Neanch'io.
...la parola perduta, la parola pace, la parola perdente, la parola parlata, la parola pittura, la parola potere, la parola pagare, la parola pancia, la parola pappa, la parola patetica, la parola pausa, la parola pece, la parola pelo, la parola pernacchia, la parola pensiero...
Sento ancora le tue costole sui polpastrelli della mia mano destra. Sento l'odore del tuo collo che inalavo tra le lacrime. E ti vedo in piedi sulla seggiola, alla finestra della cucina, che mi saluti mentre vado, sorridente.
...la parola pantera, la parola pene, la parola pucchiacca, la parola papavero, la parola pupilla, la parola potenza, la parola puttana, la parola pacata, la parola paese, la parola padre, la parola paradiso, la parola porco, la parola paradosso, la parola parete, la parola parodia, la parola posticcia...
Quod turget urget. Qui il turgore non è più il privilegio dionisiaco dell'entusiasmo poetico e giovanile. E l'urgenza consiste sempre di immateriale e immaginario, sì, ma soltanto se visto con l'occhio disumano degli dèi: danaro. In questa trascrizione desueta assume un suono più feroce, avido, nevvero? L'acqua, per penetrare ovunque, e plasmare spazi e paesaggi, deve per lo meno accettare il contatto. Se la permanenza in suolo italiota con velleità creative e dignità di resistenza vuol protrarsi, ha da passa' 'a nuttata di questo scarso mese e mezzo che ci separa da alcune delle date limite per avviare la macchina organizzativa di Comunicare fa male, del film - La Crociata dei bambini, intendo - e di altre follie ancora. Macchina bellica che non è affatto automobile, dotata di motore risibilmente povero di ronzini, se si considera la massa da trainare (parlo di velocità geologiche, non di felici e astratti vettori deleuziani). Ogni idea, ipotesi o complice possibile sono manna nel deserto. Da ghermire con rapidità di mano e concisione pragmatica. Vale.
...la parola preparata, la parola protesta, la parola psicotica, la parola pulsante, la parola parossistica, la parola padrone, la parola picchiata, la parola puzza, la parola penuria, la parola percussione, la parola pioggia, la parola pitone, la parola pasticcio, la parola ponte...
Adesso ho stanco e sono sonno. Mi hai fatto fare tardi. Buonanotte.
...la parola precisa, la parola predata, la parola parabola, la parola parto, la parola pianto, la parola pussy, la parola passera, la parola pasqua, la parola passaggio, la parola pericolo, la parola paura, la parola punto, la parola pus, la parola paf, la parola ola...
Un bambino, il più silenzioso del gruppo, si avvicina all'insegnante di arti marziali, stringendosi le tempie con le mani: - maestro, ho le idee che mi tempestano la testa - .
Perché ci sono i cretini che hanno visto la Madonnina e ci sono i cretini che non hanno visto la Madonnina... Sancire con un taglio biologico il fallimento: dell'amore, della parola, di quanto di più sacro (sic sic sic) si possa dare. Una dignità sicuramente incomprensibile: non siamo in tempi particolarmente dediti al rispetto e alla tutela della coerenza. Questa dignità sarà sicuramente da tutti fraintesa e vilipesa, come atto di debolezza e di fuga. Malinteso per malinteso, ci si può anche concedere il lusso di un punto. Nessuno capirà la forza di affermazione del gesto. Si penserà soltanto a stanchezza o lamento o banale collasso di psicologia sentimentale. No. Se arriverò a questo passo, in qualunque forma voglia esprimersi, sarà un modo - il più inutile, lo ammetto - per dir di sì all'identità di vita e parola svilita dalla mediocrità imperante. Ripiegare sul concetto di maturità e sulle prove che l'indefinito gioco dell'esperienza ti propone, sarebbe arrendersi una volta per tutte. Una piccola astuzia che pagheresti giorno per giorno con il ghigno di disprezzo che verrebbe a disegnarsi sul volto. No. Il fatto che non si dia speranza deve essere concepito e praticato come un sollievo, primo fra tutti quello che ti permette di sollevarti dal tuo stesso peso biologico, dall'attaccamento inerziale all'esistenza.
(Nota del curatore. Da questo passaggio si evince chiaramente il travaglio emotivo del nostro. A differenza di altri luoghi, qui l'autore non ha inteso porre schermo all'invadenza dolorosa dell'esterno e al collasso interiore tramite un linguaggio reattivo e scurrile, ma piuttosto con il recupero di una virilità classica, decisamente inattuale. In che sembra consistere il timore da cui è afferrato il Nobili? Nel passaggio, secondo lui pressoché inevitabile, dalla tragedia, considerata come territorio ludico di gioia intensa e continuamente riaffermata, alla commedia, vista come abbrutimento senza scampo e rassegnazione cinica. "Qualcosa di essenzialmente sinistro e malvagio si prepara: Incipit parodia", come ebbe a dire uno degli anticipatori della po-etica nobiliana, il quasi omonimo Friedrich Nietzsche. Si sottolinea altresì come il registro del plagio, sotterraneamente in opera già in alcuni momenti di questo breve testo, denoti al contempo lo humour e l'imbarazzo per il processo di decomposizione dell'invocata sacertà, enfatizzata addirittura con un triplo sic "mortale". Quasi fosse l'irruzione di un balbettio grafico. Quasi fosse l'iscrizione dell'instabile materia fonica nell'ambito ancora sorvegliato della pagina scritta. Infine, ci pare opportuno riferire una chiosa di pugno dell'autore stesso, presente nel manoscritto e di difficile leggibilità, a causa dei segni di imperiosa cancellazione. Lectio facilior vorrebbe: "vita del soggetto asessuale priva di pulci?". Lectio difficilior: "viva l'oggetto transizionale, viva il peluche!")
Mi sono cacato (con la bocca) addosso.
Trasformare sé in altro per non essere deformato dalle immagini degli altri. Non dare appigli. Altalena di comico e silenzio, fuga del buffone e fuga dell'eremita. Quando l'attenzione si scioglie dalla stretta dell'arte della guerra, allora l'obbedienza al rigore può farsi grazia. Può può puah. Se faire de la mousse: farsi cattivo sangue. Mousse mousse au chocolat. Capirete dopo. Non capirete mai.
Attaccata al soffitto obliquo della mansarda, accanto ad altri trofei cartacei, c'è una vignetta di Altan. Un bambino col naso da porco si punta una pistola alla tempia e fissa sgomento il padre che legge il giornale in poltrona, con lo stesso naso suino. Il bambino dice: mi suicido, babbo. Il padre, impassibile, replica: non fare il moralista: spara agli altri.
Stanotte ho fatto un sogno di merda, mi dici. In senso letterale. Pensieri sparsi per terra.
Non so perché continuo ad abbaiare. Forse è disperazione. Ma la censuro, questa parola. La disperazione è altrove. Ci costruiamo troppe inferriate mentali. Un alibi per non confessare a noi stessi che non siamo all'altezza del nostro lusso, delle nostre libertà. Che non sappiamo mai individuare nel male un occasione. Che preferiamo ripiegarci nella fotografia sbiadita della nostra identità. La disperazione è altrove. Noi siamo degli stronzi privilegiati che non sappiamo godere dei nostri privilegi. E i miei rischiano di svanire nella svolta di pochi mesi. I privilegi, intendo, non gli stronzi.
Rosa, lavanda, meliloto, artemisia, abrotano: Giovanni mi fa il regalo più illuminato, anzi più ricco d'ombra e di odore, che potessi ricevere in questi mesi, il cuscinetto ‘sonnobeato'. Mi vuoi anestetizzare del tutto, gli dico. Le erbe son contenute in un sacchetto di tela azzurra a motivi floreali. Lo appoggi sul comodino, prima di spegnere la luce. I nomi risuonano come un invito a dimenticare le gabbie quotidiane del simbolico, soprattutto quelle che ti costringono all'insonnia. I nomi, a volte, sono un talismano, che ti proteggono dalla frane di tutte le altre parole.
Pensiero lampo sul vedere. Sulla mancanza. Sul desiderio infinito di vedere. Sulla necessità di nascondere, di fare il giro del mondo per ritrovarsi, magari come un ballerino che ruota su se stesso. Di fare il giro del mondo per perdersi, e così non smarrirsi. Pensiero improvviso sulla banalità di questo occultare e disvelare. Sulla magia bruta di Salomè. Ora che ci penso non ne ho di pensieri. Avevo solo la voglia di averne, per dartene, per sentirti ascoltare. La voglia della voglia è forse la pornografia? Non ho proprio voglia di pensare. E avrei anche voglia di smettere di scrivere che ho voglia. La mia voglia estrema sarebbe stare sulla tua battigia a prendermi la carezza delle onde, nude svestite vestite o che altro. Affogare. Fingere di farlo, per giocare. Non avere orologi, tranne quello della spossatezza. Non avere una parola per la cosa che chiamiamo noia. Pensiero lampo sul vedere. Non vedo proprio niente. Forse mi son distratto. Non penso proprio niente. E il lampo dev'esser saettato dietro di me, all'orizzonte, silenzioso come una perfida beffa. Era qualche cosa come un sorriso? Il tuo? Ti lusingo? Tu credi? Per favore, la smetti di farmi fare tutto da solo: affermazioni, domande e colazioni dimagranti, con scrematura di me stesso? Un lampo sulla vista. Cieco. Luce bianca. E poi buio, forse. Ci accorgiamo soltanto di quello che non abbiamo. E pensiamo sempre con altro dal pensiero: col corpo, col desiderio, con la paura. Ho capito. Un'illuminazione. Il pensiero ci serve per godere. Per sbarazzarcene, del pensiero. Per tracciare la mappa che non ci fa mai arrivare - al tesoro; che ci fa continuamente venire, svenire, sciogliere, balbettare, biascicare, ridere e ubriacare. E non sorridere, tu, perché altrimenti non penso più. Un lampo sul vedere. Non penso più. Se mi fermo ricomincio a pensare. Se non mi fermo, non ti potrò mai toccare. Ma tanto stasera son qui, e mi tocca - chi mi tocca? Nessuno. Mi tocca star qui. Mi tocca finger di pensare. Mi tocca giocare al delirio, che è il mio modo di danzare. Mi tocca la mia mano, anche se ora non è vero. Mi tocca non esser sorpreso dalla tua. Ti lusingo? Credi? Seduzione? Io non spero niente. E me ne fotto dei malintesi. Anche tu, credo. In questo dovremmo aver raggiunto la stessa velocità, quella che ci legherà sempre. Il bagliore del lampo. Il suo silenzio scoppiettante di risa. La sua distanza, all'orizzonte. La sua ambizione verticale, che scarica la terra nel cielo, che fa crollare il cielo a terra. Pensiero lampo sul vedere. Più che un lampo, è un temporale elettrico, a ripetizione. Non riesco a fermarmi. Ho il fiatone. Ho il fiato, quindi sono ricco. Te lo dedico, quindi sono felice. Effimero, ricco, felice. Un pensiero sul non vedere. Un suono. Queste settimane, questi mesi, questi giorni di voci e ascolti, di telefoni senza vedere. Eppure è un lampo, quando l'orecchio si fa occhio. Quando il buio incornicia i respiri. Un lampo senza pensiero, vederti senza parlare. Altri sensi che si fanno acuminati. Odore, toccare. E il mare tra terra e cielo è tutto un leccare. Faccio la rima perché sono una bambina. Ci son lucciole, fuori. Son sotto la finestra, nel giardino pieno di olivi. Sono intermittenze fosforiche, anche loro senza pensiero. Ma che cos'è tutta questa luce, tutto questo presunto pensare? Mi sto perdendo. Magari lo facessi. La lucciola è la margherita del cielo notturno: ci sei, non ci sei, ci sei, non ci sei... E se rimango solo, a scalare la vertigine delle parole colate fuori dal corpo, il perdersi che cosa sarà? E se mi perdo bevendo in compagnia? Perché non sono anch'io, come suol dirsi, di bocca buona? Perché sono di bocca troppo buona, forse. Perché assaggiare certi sapori ti mette dentro il demone della perfezione, il demone dell'insoddisfazione. Sono un motore d'amore e un rumore d'ansia. Se faccio queste rime, è per non prendermi sul serio. Se parlo di me, è perché parlo da solo. Pensiero veloce sul vedere. Se quando parlo e scrivo tu mi vedi, tu sai che parlo sempre di altro da me. Tu sai che parlo il mio desiderio di te. Tu sai che in mezzo, tra te e me, c'è un gioco di lingua che dà voce al mondo, che fa risuonare corde sospese nell'aria, sepolte sottoterra, pulsanti nel mare, confuse alla polvere, accecate nel deserto, intrise di pioggia, funestate dai venti, congelate nei poli, consumate dall'ossigeno e dal tempo, impigliate ai capelli di tutte le donne che non conosco. Tu sai, forse, o lo intuisci, o lo senti, che io vorrei tacere godere grugnire ansimare gemere e dormire, ma che la lingua riverbera tutto quello che la eccede, lo ingabbia dentro paure astratte e addomesticate, come morte dolore solitudine, e lo fa saltare, in questa allegria, in questa demenza, in questi abbracci a distanza. Io non sono niente. Io son soltanto la cassa di risonanza di tutto questo enorme niente. E adesso vorrei scriverti parole dolci e tenere, ma le trattengo per il momento in cui te le potrò sussurrare, dopo il silenzio o il piacere. Per il momento che potrebbe non venire mai. Mi dà vertigine questo futuro, ché averlo pensato è già passato.
Caro carnis Tapirolenzo, me tocca pure de famme ride da solo. Me tocca. Chi me tocca? Me. Pugilato allo specchio. Mi son fatto nero. Magari. Miles gloriosus te salutat.
Il copione dell'insonnia parziale si è svolto con implacabile e geometrica regolarità. Quel po' di vino non ha minimamente intaccato l'ossessione del pensiero dominante. Mi sveglio al buio, le due, le tre, solo sotto le coperte, freddo, e cerco di contrapporre al torrente continuo e indefettibile di parole e immagini che scorrono e si macerano nella testa l'immobilità esteriore del corpo, quasi soldato cadaverico della mia fede, augurandomi che lo stratagemma possa richiamare la grazia del sonno. E le ore passano, viene l'alba, si alza il vento, soffia sibili di tramontana che avvolgono la casa, gelo siberiano, e ti vorrei qui con me, per trasformare l'ostilità del tempo - quello atmosferico e quello cronologico - in occasione d'abbraccio, in difesa carnale da quanto di esterno ci minaccia. Tutto quello che non è romantico è cretino. E poi mi alzo e trovo questa neve che cade copiosa, anche se non riesce ad attecchire. E ti amo tante volte quanti sono i fiocchi bianchi che scendono in lenta sospensione o trascinati dal vento. E mi sento sciogliere da te ogni volta che tocco terra, ogni volta che mi si vuol convincere che il volo è stato vuoto, fiducia mal riposta, passione malintesa.
...il liquido amniotico che ci culla e ci riveste, filtrando le pulsazioni meccaniche del battito del cuore e i movimenti articolari di chi ci ospita e ci nutre, traducendo in fiaba di lontananze il rombo sonoro del mondo.
Mercoledì 29 aprile '98. Quattordicenne s'impicca col fil di ferro perché gli avevano sgonfiato la ruota della bicicletta.
Di nuovo a proposito dell'anno del Signore (vostro) 1967. Muore Ernesto Guevara. Il testimone che lascia: fare la rivoluzione senza perdere la tenerezza. Abbiamo il dovere di essere felici, scrive da qualche parte. E mi ricorda - come ulteriore complemento politico - un'affermazione di Gilles Deleuze a proposito dell'immoralità di salire sul métro con la faccia triste. Di far pesare agli altri la propria infelicità.
Odore di sperma che mi porto dentro i pantaloni e sulle dita delle mani; puzzo di piscio di gatto che mi assale in questi vicoli laterali della città immensa; ondate calde di grano dai forni notturni; vertigine del glicine in questo maggio appena esploso d'estate; acre sudore d'ascelle che incontro nei corridoi dei treni, malgrado i finestrini spalancati; vampate di benzina che salgono al cervello mentre rifornisco la mia fuga circolare lungo le autostrade del nord; velluto rosso inebriante di vino nobile di Montepulciano, in questi ultimi scampoli di lusso; sniffate rapide dentro le pasticcerie, la mattina, per compensare l'ipoglicemia risparmiando soldi; memoria di tutti i tuoi profumi che fatico a ricostruire, tra il tanfo del gasolio, l'ossido di carbonio, il piombo e la distrazione del mio naso, impegnato ad anticiparmi ovunque. Ho un profilo greco, mi dice qualcuno, che se lo metti di profilo è una geometria perentoria in dissidio con questo perplesso vagabondare. Se non stai attento, pinocchio d'un lettore, sbuco dalla pagina e t'infilzo un occhio. Voglio mille fatine dai capelli turchini, come fette di pane imburrate da leccare e annusare di sopra e di sotto...
Che cosa hai fatto nella vita? Niente. Ma con grande accanimento.
Mi viene in mente (mi viene in mente? che cosa vuol dire? ma soprattutto: chi? e come?) una crittografia mnemonica da Settimana Santa Enigmistica che mi pose Lorenzo: piangere per ragionamento. La soluzione è: commozione cerebrale.
1967, "La fortezza vuota". Scrive Bruno Bettelheim: ‘i nostri bambini si sono così profondamente alienati dall'esperienza del tempo, che per loro rimangono solo lo spazio e il vuoto'.
Sto piangendo perché hai reso la mia vita un inferno, e perché mi vergogno di permettere che tu lo faccia, e perché mio nonno ha paura di diventare cieco, e perché certi sguardi sono torvi e ottusi e questo mi fa male, e perché è aprile e continua a piovere, e perché il corpo ha trasformato in debolezza quella che era energia, e perché non ho più protezioni e son diventato una mucosa esposta all'esterno, e perché non mi decido ad andarmene via, e perché sto qui a scrivere invece di morire, ma soprattutto perché sto qui invece di vivere; sto piangendo perché mi sentivo felice di essere finalmente libero, libero da tutte le immagini di me stesso tranne quella che mi univa a te, e perché non me ne frega un cazzo di diventare saggio, e perché le mie passioni non sono mai diventate ambizioni sociali, e adesso non ho orgoglio di identità cui aggrapparmi, e perché non riesco a sopportare di sentirmi spassionato, e perché cammino e l'orizzonte si restringe, e perché l'estraneità del mondo cresce, e perché conosco la genesi di tutti questi processi, e perché ne conosco l'epilogo, e perché mi vedo fare e pensare tutte queste cose, e sono due volte presente e sono due volte assente, e perché sono stanco di comprendere e capire, e perché mi vergogno d'essere stanco, e perché sono fatto quasi tutto d'acqua che non riesco più a trattenere, e perché mi trovo marionetta in questo dolore, e perché vedo qualcosa di bello e mi fa piangere non poterlo più vedere. Stavo piangendo perché non tollero l'autocommiserazione, e questa consapevolezza faceva scendere altre lacrime ancora. Mentre scrivevo ho smesso di piangere. E con gli occhi asciutti quello che vedo non è migliore.
Per un anno ho guidato ambulanze. Chilometri e ospedali. Ho visto morire e soffrire. La routine del dolore. L'impercettibile grandezza di chi non lo fa pesare.
Lei mi dice al telefono: ho avuto un ingorgo di latte. Non mi potevo neanche toccare. Il telefono brucia, puzza e morde. Suona bene. La frase, non il telefono. Poi ricordo un film giapponese in cui un uomo e una donna, per parecchi minuti, si dicono soltanto: muss muss... pronto... pronto... Sensuale sussurrato. Sì... sì... come Molly Bloom. Non c'è altro da dire: muss muss...
L'elastico verde che teneva i piedi di mia nonna, all'obitorio.
Era sera d'inverno. Mite. Ti ho sollevata, hai messo le gambe sulle mie spalle, sotto la gonna le mutandine non c'erano più. Ho preso a leccarti e succhiarti tra gli ombrelloni infilzati e le sdraio vuote, umide. Ti aggrappavi con forza ai mie capelli. Guardavi verso l'acqua nera, calma. Chiudevi gli occhi e poi guardavi, lo so. Ho perduto dopo molti minuti il senso della distinzione tra la tua carne calda e quella delle mie labbra, della mia lingua. Mi chiedevi di smettere e continuare. Mi sono messo a girare su noi stessi. Poi ti ho fatto scendere e ti sei seduta, la gonna ancora semialzata. Mi hai domandato perché mi piacesse così tanto leccarla. Ti ho guardato breve. Mi son tuffato di nuovo. Hai allargato le gambe a compasso. Masticavo sabbia e piacere. E la tua voce non si sapeva trattenere. Sullo sfondo il traffico incessante della Versilia. Di nuovo le tue dita tra i miei capelli. Ma senza la stretta dell'equilibrio incerto, adesso. E le mie mani sentivano anche i tuoi seni. Coprimi tutto con la gonna.
Don Chisciotte ha letto troppi libri? L'importante è non essere tiepidi, forse.
Nel campo davanti a casa sono esplosi i papaveri. Macchie rosse che barcollano alla brezza come un ubriaco. Ne ho fatto incetta. Ho pestato i petali con le mani e con i piedi, dentro un secchio. Mi sono rasato i capelli. Ho frizionato la testa con quella poltiglia. L'ho spalmata su tutte le tue foto.
Difficile stare sotto al vulcano. Difficile esserlo. Perché senti una volta per tutte che no se puede vivir sin amar. Ripenso al momento centrale dell'Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio. L'attore è seduto sul bordo della rete del letto, completamente immobile, senza neppure deglutire, per un tempo insostenibile, sei sette minuti, occhi e bocca spalancati ad o, buco di stupore e vuoto. Imbarazzo degli spettatori. Disagio e noia degli spettatori. Il nada del theatrum mundi scagliato contro se stesso. Amleto, bambino autistico, increspa la maschera del volto in espressioni grottesche, "orientali". Poi comincia a ripetere: love me, love me, love me... in un crescendo dal sussurro all'urlo, sollevando e sbattendo a terra la rete metallica con violenza meccanica e parossistica. "Saver de no' esser gnente xe scominziar a amar".
"If I could die before I wake like Marylin Monroe", cantava.
Nel 1967, per chi non se ne fosse ancora accorto, sono stato scoperto. Ci son voluti strumenti molto rapidi per estrarre il mio profilo dalla confusione generale. La mia voce ha cominciato allora a stagliarsi sul rumore di fondo. Il mio venire alla luce, in questo secolo, è stato un collasso. Un collasso gravitazionale. Prima ero stella gigante, enorme fornace di gas combusti fusi ed esplosi. Ho contratto la malattia di nascere alla parola. La emetto con sconcertante regolarità, ruotando su me stesso come la trance di un idiota, come un mistico derviscio, come il dio incantato di Nijinsky. Sono un faro, al centro di niente, e non servo a nessun navigante. Onde radio, impulsi ad alta frequenza: è tutto quello che posso darvi della mia compressa arcaica energia. Il mio diametro s'è ridotto ad una ventina di chilometri, giusto la distanza casa tua casa mia e ritorno. Quand'è che potrò danzare di nuovo intorno al buco nero, alla mia compagna invisibile, magari inghiottito dentro il suo orizzonte degli eventi, con lo spazio e il tempo che si chiudon su se stessi, per non uscirne mai più? Quando? Si è dovuto aspettare il '68 per togliere ogni dubbio sulla mia natura. Mi hanno battezzato con un nome che suona femminile, gli astronomi di Cambridge, quell'anno lì: pulsar. All'inizio pensarono che i miei impulsi, così metronimici nell'emissione, fossero segnali di vita extraterrestre, una specie di sonar intergalattico gettato a scandagliare la vasta ragnatela del cosmo. Hanno preso un Granchio. Così si chiama la mia nebulosa. Ci son rimasti quasi male, che ero io, una semplice palla oscura e vorticante, quasi tutta di neutroni in rapido raffreddamento, senza più esuberanza di reazioni termonucleari. Bella accoglienza, eh? Ma io me ne infischio. Io sono ancora quel pensiero di luce apparso nella costellazione del Toro l'anno 1054 a. C. Sono quella supernova così abbagliante da esser visibile nel cielo anche con la presenza del sole. Lo racconta il mio primo biografo, un estatico e impeccabile astronomo cinese che ha avuto la fortuna di assistere al mio primo bagliore. Io me ne infischio della presunzione della vostra vita, della vostra ansia di intelligenza. Io sono il mio ballo tondo.
Portami con te nella tua corsa, e io ti canterò il nostro cantico dei cantici: per ogni stella che riesco a vedere, trovare un motivo del mio maniacale dolcissimo amore.
Ti amo per come mi hai guardato quando sei entrata in casa, nella mia vita, la prima volta. Per come ti sei voltata e mi hai fissato, per come hai abbassato gli occhi, che ho cominciato a rivedere soltanto tra i fumi del locale, la bocca addolcita dal vino rosso. Ti amo per tutti i posti in cui siamo stati e per tutti quelli in cui ancora dobbiamo andare, per quelli in cui abbiamo fatto e per quelli in cui faremo l'amore. Ti amo per le lacrime che ti ho fatto e per quelle che mi hai fatto versare. Ti amo per tutti i chilometri percorsi di giorno e soprattutto di notte per venire a cercare il mio amore. Ti amo quando canti stonata (poco), e tutto il tuo corpo è un felice cantare. Ti amo perché ami passeggiare. Ti amo perché mi dai i boschi e il mare. Ti amo perché sei la luna, il fiume e le stelle. Ti amo per tutte le fogge dei tuoi capelli, quelle che ho potuto carezzare, quelle che vedo nelle foto, quelle che riesco soltanto ad immaginare. Ti amo per la tua pelle che è seta e velluto, profumo e odore, spigolo d'ossa e morbidezza di carne. Ti amo seduta sdraiata addormentata. Ti amo per la tua bocca che mi parla, per la tua bocca che mi bacia, per la tua bocca che mi succhia, per la tua bocca che mi gusta, per la tua bocca che mi morde, per la tua bocca che mi bocca. E per la tua lingua che mi slingua e mi spernacchia e mi sberleffa. Ti amo per il tuo naso piccolino e perché lo schiacci a porcellino. Ti amo per gli occhi che a dire qualcosa su di essi si fa solo la parte dei fessi. Ti amo per gli occhi che mi svegliano vivi e dolci e amorevoli. Ti amo per gli occhi che si addormentano, mentre i miei ti inseguono e ti braccano. Ti amo quando mi fai gli occhi storti e mi dici: sce-ma... e sei la mia meravigliosa bambina. Ti amo per le mani che muovi e che posi. Ti amo per le dita affusolate e leggere. Ti amo perché un dito tiene il mio anello, ed è di gran lunga il dito più bello. Ti amo per le mani quando mi tocchi, quando mi carezzi, quando ti sposti i capelli, quando ti scivolano oggetti, quando mi spogli e mi stringi. Ti amo per le labbra sbavine e delicate. Ti amo per il sorriso che incorniciano. Ti amo per il sorriso degli occhi e per quello della bocca. Ti amo se sghignazzi e se schiamazzi. Ti amo per il silenzio. Ti amo per la voce quando è calda e sicura, quando è fiducia e premura. Ti amo per i tuoi piccoli dolci seni, perché mi riempiono le mani. Ti amo per le tue costole che a toccarle son brividi e a vederle son brividi. Ti amo per le tue gambe che son diventate la mia stretta. Ti amo per le gambe che sono colonne, ed è un tempio quando le vesti e le svesti. Ti amo per la tua schiena, che è pianura e deserto. Ti amo per le tue anche, perché le afferro quando spingi. Ti amo per i tuoi orgasmi, che son terremoto e abbandono. Ti amo per il fondo schiena, per la curva in cui mi perdo. Ti amo per il tuo culo, che è tondo come il mondo, e se non gira lui, sono io che ci giro intorno. Ti amo per il suo buco, che inguaina il mio dito, che inguaina il mio cazzo, che resiste e si abbandona, che risucchia la mia lingua. Ti amo per la tua pussy per la tua passera per la tua fica fichetta, che quando non è scontrosa fottuta e legnosa, è il guanto del mio sesso, la casa della mia carne, le labbra vere della mia lingua, l'umidore del mio amore, il colore che mi fa svenire, la forma che non mi sazio di toccare, la scoperta delle mie mani, la coppa del mio sperma, l'amante della mia saliva. Ti amo per le tue orecchie anche se fuggono il mio fiato. Ti amo per il tuo collo. Ti amo per le tue spalle. Ti amo per i tuoi piedini paperini, che sono i mie bambini. Ti amo per la pianta dei tuoi piedi, perché combacia con la guancia del mio viso. Ti amo per l'ombelico e per il polso, per la caviglia e per il mento. Ti amo per le tue mosse e i tuoi scatti. Ti amo quando sei lenta e quando sei sguaiata, se sei dolce e non esagerata. Ti amo per le tue foto, quelle che fai e quelle che sei. Ti amo quando leggi. Ti amo quando guardi e cammini. Ti amo quando ti distrai. Ti amo quando parli con gli altri, se so che mi ami. Ti amo quando mi cerchi. Ti amo quando mi riempi il bicchiere. Ti amo quando sei imbronciata e un mio scherzo ti compra il sorriso. Ti amo quando fai il buffone per togliermi la maschera seria dal viso. Ti amo perché sono capòtico, che non vuol dire dispotico, che non vuol dire nevrotico, ma cocciuto cornuto caprino ostinato attaccato ruvido aspro dolce delicato. Ti amo perché me lo hai insegnato tu.
"E come vermi e insetti girano dalla mattina alla sera in cerca di cibo, così noi corriamo sempre dietro alla forma"
Da piccoli ci capita di ripetere una parola o una frase fino a smarrirne il senso. La voce diventa un suono che non suggerisce più alcuna immagine, che non rinvia a nessun oggetto conosciuto, a nessuna sensazione abituale. Uno gnomo, dentro l'utero materno, deve aver ripetuto al nostro orecchio infante: vita vita vita... amore amore amore... morte morte morte... e molte altre simili assurdità. È per questo che, una volta nati, malgrado lo sforzo comune di insegnarcele, non riusciamo a capirle. E quanto più ci impegniamo, tanto meno le afferriamo. I momenti di grazia sono quelli in cui siamo semplicemente cullati da un suono. Dalla sua necessità. Di fronte ad un'enigmatica decisione difficile (der schwer gefasste Entschluß), che dà il titolo al movimento finale del suo ultimo quartetto d'archi, Beethoven si risponde, "allegro" e conciso: Es muß sein! Deve essere! Quello che è grave viene pizzicato e nella chiusa danza, lieve. Muss muss...
Sono le tre e venti, devo ancora uscire, gli occhi bruciano, freddo ai piedi, lo stomaco protesta. Domani sarà un altro sasso in bocca? Non capisco più le parole. Mi si stanno tutte ritorcendo contro. È un ammutinamento bello e buono. Per niente bello. Per niente buono. Dico parole pugnali e parole preghiere. Nick Cave allo stereo: acque fangose della sua voce, bassa, profonda, che canta l'irrimediabile: it's hard to say just what I'm losin', ain't never felt so wholly lone...
Incontro Maurizio all'ospedale, sulla sua sedia a rotelle. Mi domanda dei miei progetti. Mi sprona col solito tono vitale e combattivo. Poi dice che rischia di non farcela, stavolta, perché il suo intestino è completamente costipato. Tutti gli altri problemi accumulati rendono qualsiasi intervento improbabile. Alla responsabile della lavanderia, che lo saluta e gli chiede come va, risponde sorridendo: me tocca mori' e nun ce so' abbituato.
Rod Steiger, ad un certo punto di "Giù la testa", dice del nemico che incalza: tanto non c'è pericolo! Basta controllarlo da lontano... È una parola. A me mi pare vicino pure col binocolo alla rovescia! Degna di Sancio Panza. Rimbalzo fuori dalla terra e guardo. Senza binocolo. Non dovrebbe diminuire la dipendenza? Non dovrebbe esser risolto tutto quanto in un mare anonimo e quieto?
...scemo come la bottiglia che non ho ancora bevuto, come quella che sto bevendo. Non ciò una lira in testa e un cervello in tasca...
Aiuto aiuto. Ho pisciato sulla spiaggia ed era forte, il libeccio. Il sonnifero è un toporifero e risveglia il ratto nel mio cranio. È ancor più violento, lo scirocco. Non importa aumentar la dose, dieci quindici venti gocce, esser tentati dal lago dulcamaro. Per adesso, poco prima dell'alba, qualunque fosse stata l'ora d'inizio del simulacro di sonno, le pupille si spalancano all'unisono. E le orecchie computano, di mezz'ora in mezz'ora, l'avanzare del niente rintoccato dal campanile. Come fai ad essere così calmo? - mi chiede un bambino. Perché son matto. Ho perso la tramontana. L'unica rosa che mi resta è quella dei venti. È un topo ballerino, quello che gira nella gabbia. Chi si ferma è perduto. Chi non si ferma è perduto. Giro giro tondo, chi (non) si ferma è il re del mondo.
Uomo donna, donna uomo, uomo bambino - primavera-estate, autunno-inverno: uno stilita per tutte le stagioni. La forza e l'autonomia della solitudine sono importanti, ma è l'abito di cui mi svesti che fa il monaco Fiufi.
E mentre rileggo, cerco di amputare quanto posso. Non so come finire. Ci penserà qualcun altro o qualcos'altro a farmi finire. La scrittura, anche la più auratica, anche la più inconsapevole (è possibile?) non è che parodia della vita. Tu, piccola, riesci a mettermi nel panico. Fuori da questo esercizio di parola non ci sei più, sembra. Fuori da questa ascesi non mi sento più. Faccio gli addominali per non farmi addominare. Dalla fragilità, dalla paura. Adolescente? Nel senso che mi nutro. Dopo sarò morto. È per questo che non riesco a finire. Bravi, bravi... voi della parola concisa, dei gesti sicuri. Se ti penso m'inciampo. E finché mi fa ridere, ti penso, donna dei pensieri. Faccio le flessioni, per non esser troppo rigido, nella mia caparbietà. Cammina coi piedi per terra, mi dicono, e lascia perdere. Sollevo anche pesi, per sollevarmi. Scusa, hai da accendere? - Non lo vedi! - gli replico con sorriso aggressivo, e il passante passa oltre, guardando preoccupato i miei occhi verde e brace. Ma la sigaretta era già consumata per metà, ve lo assicuro. Dove sto andando? Dove mi pare, dove posso. Nessuno è obbligato a seguirmi. Pane e circo altrove. Qui, tutt'al più, un po' di vino. E un po' d'acqua per me. Corpus clamans in deserto. Ecco il latino! Tanto per tentare un'altra corazza. Per ricordare che non ho le tue carezze. Perché è venuto e quello che viene è bene lasciarlo andare, ché se lo trattieni vuole restare, e poi alla fine sei tu che vuoi restare, e allora lui o lei se ne vuole andare, e tu che ci puoi fare? Volevate creazioni e progetti geniali? Li ho profusi a piene mani. Ed eran tutti banali. Volevate pensieri profondi? Per trovare quale tesoro? Nella profondità c'è poca luce, non si vede niente. Sì, pronto? Tesoro?
Homo d'insipienza cammina lungo il fiume. Ad alta voce, solo, ripete: pazzo patetico pazienza patologia passione: la stessa parola. È un problema di giudizio. E se la facessimo finita, una buona volta, col giudizio? "Sempre in movimento, come un dio..."
Si apre la bocca del sonno e parole come azzurocielo che è nero sfondato, vuoto quanto più è turchese, spazzata l'aria dal vento dopo una bufera di pioggia, non vedi stelle né sole, ma è precipitare nel buio questa cortina di colore che sovrasta la testa, sei capovolto nel piacere e ti ritrovi sopra, esce a fiotti il lattesperma sul suo volto, lei chiude gli occhi come una carezza ed è un sorriso il bianco del lenzuolo, che non vedi più perché precipiti dentro le braccia, come è possibile farlo? e poi sveglio, neppure bagnato, solo sotto un tetto che non conosci, senti un rumore e non capisci, sembra regolare, è quasi un deserto il silenzio del mattino, forse è l'alba, sì, e il rumore che senti è quello del tuo respiro.
In piena notte, bambina, svegli tuo padre chiedendogli: come si fa il cinque?
Questo libro avrebbe dovuto intitolarsi: SOLI MALE ACCOMPAGNATI. Questo libro è una porcheria. Mi faccio del male e basta. Mi aggrappo all'immaginario mentre il tempo mi consuma come una clessidra. E invece no. Questo libro è una favola. Tutto quello che mi resta da dire. Tutto quello che ti posso dedicare. Sono le quartine perdute di Omar Khayyâm. C'è ossessione, alla superficie. Ma è solo schiuma di rabbia, effimera. Ho scritto un volume di poesie che si intitola "Stanza dell'idiota". Svanito l'idiota, rimarrà forse la piccola musica che lo attraversava, il muro di suoni e gesti che si contrapponeva, invano, alla radiazione della parola continua. Rimarrà la stanza, che adesso non riesco più a trovare. E un suono arabo che ricorda il ritornello di tutte le lettere che t'ho scritto: Tamám. Se lo traduci è quello che vuoi tu: fine. Se non lo traduci lo ascolti e basta. Come le voci degli amanti, che non hanno nulla, davvero, da dirsi. La parola è buio. LA PAROLA È BUIO. Muss muss...
Prendo un tiramisù e una Bud. Il gusto di bere di nuovo, malgrado lo stomaco recalcitrante. Il gusto di farlo da solo, sotto queste lampade opache, rosse e perla. Motivi da discoteca passano dagli amplificatori a un volume ancora timido. Poca è la gente da stordire. E io scrivo. È il panico del tempo senza azione efficace o la felicità di questo vuoto inatteso? Da mesi non porto più l'orologio al polso. So che la cosa vi colpisce. Mi fermo per mangiare. E per bere un sorso di birra. Sono tentato di rileggere per recuperare il filo. Ma quale? E quindi avanzo. Prosa. Sempre avanti. La poesia mi disturba, ultimamente, perché ritorna. Perché presume di tornare. E culla e dondola, con questa promessa di girotondo, con l'incanto di suoni che si richiamano. Avanti. Prosa. È la morte che fa il suo lavoro. Non si illude. Cammina. Penso alla mia bambina che tra poco vedrò. Che abbraccerò. Dormiremo insieme. Ma potrebbe anche non essere.
Il temporale si è placato. Lascia le sue tracce sonore nel passaggio delle automobili. L'asfalto parla d'inverno incipiente, di cammino solitario. Fare i conti con giorni e notti a venire, senza gesti e pensieri strutturati dai progetti. Fare i conti col desiderio-disordine e la paura. Mio padre. Mia madre. Mio nonno. Quest'estate è caduto spesso, nel suo bar e nell'orto. Il campo visivo si è notevolmente ridotto, ma è anche la testa che gira e fa scherzi, mi dice. Non mi fare scherzi, gli dico. Non dovete preoccuparvi della mia salute. Non dovete preoccuparvi di me. Sono vecchio ormai. Quest'ultima frase la pronuncio io, anticipandolo, ridendo. E scorgendo la mia faccia ridere nello specchio alle sue spalle.
Interrompo la scrittura. Una coppia, silenziosa, all'altro angolo del locale. Lui segue il ritmo della musica con leggeri movimenti sussultori del capo. Lei mangia lenta e ipnotica un gelato dentro una coppa di vetro. Appena li penso come macchine autonome e parallele, si mettono a parlare e scherzare. Ci sono momenti in cui tutto sembra contraddirmi. Mangio e bevo. Mi rimetto a scrivere e i ragazzi all'angolo non ci sono più. Guardi fuori, distratto, e il tempo è già passato.
Piccolo pazzo pieno di parole: che cosa mi rimarrà di te quando non ci sarò più?
Era un momento di silenzio, in macchina, senza imbarazzo. Attraversa la strada una giovane donna dal passo elegante. Magra, lisci capelli biondi. La fai passare. Dopo pochi secondi dici: hai visto com'era bella? O forse te l'ho chiesto io. Senza guardarci l'un l'altra, ci rispondiamo di sì. È stata una complicità veloce. Un segnale intenso e delicato per un futuro che abbiamo escluso. Avrei dovuto afferrare lei o te per i capelli? Ho solo carezzato, non visto, la tua chioma zingara. Ero già in un'altra rete. Quella in cui sono ancora.
Autostrada. Supero un camion. Sul portellone posteriore del rimorchio, a grandi lettere, sta scritto: TANTI PROBLEMI. NESSUNA PAURA. Qualche settimana dopo, sempre all'altezza dell'uscita di Viareggio, come per un appuntamento paranoico, un altro T.I.R., un altro messaggio: DIO TI RADDOPPI QUELLO CHE TU AUGURI.
(Da "L'ombra sonora del sole - Appunti per un dialogo diabolico sul ritmo"):
Che ritmo può avere la morte del mio piccolo amico, a undici anni, sbiancato dentro dalla leucemia? E il cancro che ha devastato a lungo il seno e la gola di mia zia, che ritmo conferiva all'orologio del suo cuore? E alla sua parola che usciva dal buco della laringe? E che ritmo avevano le mie lacrime perché ci ha lasciato, si è lasciata, non ha potuto fare altro che lasciarsi andare? E anche tu mi vuoi lasciare e piango e c'è ritmo in questo pianto, nelle rughe che solcano l'epidermide attorno agli occhi. Che ritmo hanno le mie parole quando non ascolto quello che dico? Che ritmo afferra il mio sangue quando arriva l'avvoltoio? Che ritmo ha il mio vedere quando guardo dalla finestra verso l'alto? E quando guardo verso il basso? Che ritmo ha il mio sperma quando non entra in nessun orifizio, ma si perde tra le dita e per terra? E il mio fiato, quando le scale mi fanno ansimare, quando le scale non mi fanno pensare? E le mie risate, quando metto la mano in tasca e non trovo un soldo? E i miei succhi gastrici, quando il giorno ridiventa giorno? E il mio passo, quando inciampo, perché distratto pensavo al ritmo? Zen è un quartiere di Palermo. Una cosa seria. E queste parole sono troppe ormai. Davvero.
Die Sonn erreget alls, macht alle Sterne tanzen:
Wirst du nicht auch bewegt, so ghörst du nicht zum ganzen
Il sole provoca ogni cosa, ogni stella fa danzare:
se anche tu non sei mosso, non appartieni al tutto
Angelus Silesius
Parafrasi dell'intera filastrocca: la voce del sole richiama alla danza e se tu non sei commosso, di te il ritmo farà senza. Finisco con Angelus Silesius, come ho iniziato. Per fingere il lusso di una conclusione. Per rassicurare chi legge, forse. Per rassicurare chi scrive. Perché è un angelo che tace e i suoi messaggi, in fondo, non dicono nulla. E neppure in cima. E neppure alla superficie. Perché due è un numero diabolico. Perché entre-deux è l'intervallo del ritmo. E perché, come aveva capito Kafka, Don Chisciotte è proiezione di Sancio Panza, suo demone errante, split-brain sotto mentite spoglie: scisso scisso tondo - come danza il mondo - come danza il mio corpo - che non è rotondo. Ho una farfalla in testa che non mi fa pensare. Sbatte le ali sbatte le ali e il suo sbattere non è mai uguale. E il suo sbattere è il mio volare. Il mio finire.
Il culo di Brigitte Bardot nel "Disprezzo" di Godard. O Pierrot le fou incoronato di dinamite. E nei titoli di coda della mia vita, vorrei essere il best boy o il boom man. Paolo, al telefono: normale che tu stia male. Rischi di fare la fine di Bianca Trao, che il letto se la divorava. Poi continua: ma cazzo, ma ciò il cane che mi mangia le scarpe! Avrei voluto vedere "Il cuore fantasma". Avrei voluto vedere il tuo cuore fantasma. In compenso ho recitato "La commedia di Dio". Non ci capisco niente nemmeno io, perché dovreste capire voi?
"Oggi parto", così inizia la tua lettera. Per me è un buon epitaffio.
Cammina nelle strade di una grande città. Siede al tavolino di un bar. Ordina un porto. Rosso. Guarda uomini e donne passare sui marciapiedi. Li guarda parlare, bere, mangiare. Niente sonoro. È uno spettatore ai bordi del mare. È soltanto uno spettatore, adesso. Ricorda una scritta murale di qualche anno fa, a Pisa: VESTITI AMMODINO CHE DIO TI GUARDA.
Hai ragione, Mimì. Bisogna prendere una direzione. Un'uscita qualsiasi.
Non mi viene nulla, non ho più voglia di scrivere e pensare nulla. Fanculo. Mi hai tolto... mi son fatto togliere l'equilibrio, per camminare e pensare. E adesso dovrei tracciare sobriamente lo schizzo del progetto estivo, di questo film che non farò o farò controvoglia, per la vigliacca strategia del temporeggiare. E se schizzassi il mio sangue? Tutti increduli, eh? Schizzo saliva e sperma, niente più. Amore. Ancora. A more. A more blissful world. A more idiot word. A.M. ore 5, sveglia dall'insonnia. Piovess' d'la merda! diceva mia nonna. Allora: nel film ci saranno trenta comparse femminili. E un caprone che vuol perdere la faccia. L'ha già persa, ma non in quel senso. "Mostrami la faccia che avevi prima di venire al mondo". Ora vorrei metter su una canzone che si intitola "Black coffe", farti smettere di leggere e ballare con me. Io non ballo di solito. Ma ballerei, te lo assicuro. I'm talkin' to the shadows one o'clock to four... Ripetizione, basso, batteria, piano ossessivo. Un breve vuoto di fiati. E di nuovo baccante. Derviscio derviscio, sulla mia tristezza ci piscio. Balla con me.
Primavera del '95. Mio nonno è seduto su una pietra, nell'orto. Ha un fazzoletto in testa per ripararsi dal sole. Quasi tra sé e sé dice: mi dispiace morire perché non vedo più i fiori del ciliegio.
Ci siamo sentiti da poco al telefono. Sei di nuovo qui. Ma c'è il muro. La tua voce è dolcezza, liscia parete. Scivolo. E filo spinato, lassù, in alto. Non si può valicare. Esco. Il corpo è compresso dentro a se stesso come una pistola carica nella fondina. Trasudo a forza tossine in questa notte di fine maggio, cerco di contrastare le ondate telluriche che mi spingono alla fuga, a sciogliere il mio nome nelle miriadi di sensazioni quotidiane, ormai privo dell'architettura dinamica dei progetti, senza il basso continuo dell'identità che le raccoglieva e le filtrava. Patxi mi ricorda, senza neppure dirlo, che sono anch'io "vittima di una calda e copiosa pisciata introspettiva" e cerca di coinvolgermi nella corsa leggera verso gli infiniti punti g della madre terra, con tutte le sue figlie meravigliose piene di sangue e umori e saliva, con occhi gambe e capelli da guardare e toccare, con vuoti da condividere e riempire. Sono vecchio, sono antico, in parte annoiato dal ripetersi della monotona danza, in parte incantato dal caso effimero che porta il tuo nome. Lui insiste, in mezzo alla strada, e dopo aver respinto il tentativo di conversazione da parte d'un terzo incomodo, mimiamo una scazzottata affettuosa. Riprendo a camminare con passo sostenuto. Dice, ormai lontano, che domani verrà a prendermi. I primi calori quasi estivi hanno stanato i ragazzi del paese dalle case dai bar e dalle discoteche. Sono protetti dai giganteschi platani della Porta di Sotto, dove cicalano vacui luminosi e vivi. E adesso mi ritrovo tra le quattro mura, di nuovo, sudato. La guaina della pelle sempre più stretta attorno alla carne che pulsa e prega con la sua lingua di violenza muta. Non vorrei scrivere. Mi infilo le cuffie dello stereo. A volume altissimo "Female mechanic now on duty", terzo brano dell'ultimo disco dei Sonic Youth, comprato oggi in barba ai conti che calano alla stessa velocità della mia voglia di parlare e di fare. È lei che canta, Kim Gordon. Ipnotica e sensuale come sempre. Riff ossessivo e potente, avvitato nei riverberi che lo dilatano nello spazio interno del cranio. L'altra chitarra fischia e sbriciola rumori. La batteria è un tam tam che inchioda il tappeto di questo volo in un ritmo circolare. I wanna shake you down. Mi agito come uno scimmione in gabbia. Mi piego rapido sulle gambe e giro e ancheggio e vortico le braccia che pulsano verso il basso e verso l'alto, epilettiche. I wanna waste your time. Colpisco con forza, ripetutamente, il ventre, pugni chiusi e rapidi che fanno tendere gli addominali. Il dolore mi fa sentire che ci sono. Argina parzialmente l'onda che mi attraversa. I wanna dig my face. Tutti i gesti e tutti i pensieri a brandelli non sono che la citazione di migliaia di altri che ho compiuto e che ho subito. Modern women cry... modern women don't cry. Sono io la mia donna, la mia orgia, il mio tempio mistico, la comunicazione che mi mastica, il teatro e il mondo. Non sono niente, niente. Suoni dentro la testa, vibrazioni profonde nella carne. I'm your desire machine. Comico, mi vedo. Solo e comico. Non sono niente. Penso al manifesto di "Comunicare fa male" di quest'anno e so che sarà l'ultimo. Mentre scrivo vedo che è mezzanotte precisa. Anzi: 0.00, come segnala il monitor. Il manifesto: fotografia in bianco e nero di un cane di Cuba, emaciato, in equilibrio precario sulle zampe, sguardo incollato in macchina, intorno strada sterrata come deserto implacabile, polvere di morte immediata negli occhi. Mi ritrovo con le cuffie che incorniciano ancora la mia testa. Digito lettere seguendo la cadenza della sua voce. El llanto es un perro inmenso. Finale in crescendo, come una sinfonia di Glenn Branca. Nella pattumiera attuale soltanto qualche canzone si salva con sguardo di medusa o con leggerezza idiota. Fingo di crederci. Tu dormi già, lontana. Maialina, perché non vieni qui di corsa e con la tua coda a ricciolo stappiamo un'immensa bottiglia di vino rosso? Ti butterei giù dal letto e ti farei ballare in tondo fino a svenire.
Sdraiati sul pavimento, di notte, mi carezzi la nuca con un piede, mentre blatero confuse parole d'amore.
"Lost Highway" di David Lynch, dopo due anni di attesa, visto ieri sera in un cinema alla periferia di Firenze, di ritorno da Roma, dopo aver attraversato ad alta velocità - sempre troppo lenta, lentissima - il deserto dell'autostrada del sole, macchie gialle di ginestra che ti corrono incontro. Il soggetto se ne va a puttane, dice Andrea. E noi stiamo proprio percorrendo viali battuti da prostitute di cui non si riescono a intravedere i volti. Il soggetto che parte per il suo viaggio senza ritorno, viaggio esiziatico di chi non si riconosce più, di chi si perde nel buio dello specchio, nel mistero del buio che ti ingoia, nell'infanzia che non sa aggrapparsi alla finzione assoluta della parola, nella pornografia dell'immagine che ti eccede e trascina, nel trasalimento del vedersi visto, nel desiderio prigione che ti inchioda a ripetere. E a non ricordare. E a ridere di te stesso che maldestro ti domandi: chi sono io che vedo e scrivo tutto questo? Come mi chiamo? Mi son chiamato a casa. E non era un sogno. La voce registrata nella segreteria dice: Io noi siamo tutti sparpagliati. Sto cercando di convocare una riunione. Quando ci saremo, risponderò. Se potete fare qualcosa... astenetevi. In sottofondo un tango di Astor Piazzolla. It takes two to tango - così mi dicono. Lascio un messaggio. Sono proprio cretino, ché mi parlo da solo. Anche le lettere d'amore suonano sempre cretine, altrimenti non sarebbero lettere d'amore. Che cosa sarà la mia voce quando la ascolterò, con le sciabolate del traffico di questa notte torrida di inizio giugno? Dove sarò, io, quando la ascolterò? Nel suono che parla inciso nel nastro magnetico o nell'orecchio che pulsa? Rumore. C'è sangue, ancora, nella mia testa. Rumore del sangue che scorre. Esci fuori dal cinema e tutto è nitido, tagliente, iperreale. Esci fuori dal cinema ed è la vita ad essere una parodia. Nel film uno dei poliziotti che sorvegliano il ragazzo (sempre impegnato a scopare) dice: quel verme! Vede più fighe della tazza del cesso! Nella mi' vita ho visto più comete che fie - sta scritto su un muro di Livorno. Siamo veramente sovrani quando ridiamo? Vorrei pettinare anch'io la cometa. Quale astronomia vortica dentro di me? I'm deranged, canta David Bowie sul nastro d'asfalto che avanza sconnesso e veloce nella notte. Non si arriva mai a capo della fuga. Mai. C'è sempre del nero, ancora. I fanali non fanno altro che spostarlo. L'illuminismo non è che la cornice dell'idiozia: dentro al quadro un'immagine fugace; e fuori? Un cane abbaia. Di chi cazzo sarà quel cane? Muss muss, anche qui. Lei (chi?) telefona a Lui (chi?) e dice: I miss you. C'è sempre del nero, intorno. La pellicola corre spalmata sul telo bianco e io, pronome asinino, vedo soltanto te su quella strada senza ritorno.
La maturità è tutto - sghignazzò il pomo caduto per terra.
(Canzone del monaco Fiufi):
Non voglio parlarvi della ragazza. Vive in una casa isolata, umida e ombrosa. Al ciglio della strada. Che proprio davanti a lei disegna una lunga esse d'asfalto, come l'iniziale del suo nome, che si perde tra gli alberi dei boschi circostanti. C'è un fiume, sottostrada, e lo senti quasi sempre, se tendi l'orecchio. E passa anche il treno, lungo il fiume. Un piccolo treno che attraversa le colline di queste parti. Una linea destinata a scomparire. E accanto alla casa scende un torrente, che s'ingrossa con le piogge. E sotto la strada, per far passare il torrente, c'è un ponte, che sembra antico e romano, che sembra un posto dove i bambini nascondono un tesoro. Sopra la casa è il folto dei castagni, che incombono e proteggono. Dal tetto sbuca il fumo della stufa e quello del camino, talvolta. Quasi sempre, d'inverno. E le finestre stanno chiuse o aperte. E la sua finestra, l'occhio di sinistra, in alto, sta chiusa o aperta. E il mio stupido cuore batte in un modo o nell'altro, a seconda della posizione delle persiane. E batte in un modo o nell'altro, a seconda del buio o della luce, quando passo di notte. Già, perché mi capita di passare, lì davanti. O anche per la strada maestra, molto più lontana, ma che non impedisce la visuale. Mi capita di passare perché son diventato postino. Non mi pagano ancora, purtroppo. A dire il vero, neppure lo sanno, che son diventato postino. Forse si arrabbierebbero. Forse mi denuncerebbero, non so.
Io conosco il suo nome, ma ho pudore a dirlo. Vorrei essere l'unico a saperlo. E ripeterlo a me stesso, di notte, quando dormo solo. E soprattutto quando non dormo affatto. La mia testa mi duole, adesso, quando la pensa. Mi dà le vertigini, allo stesso modo che da piccolo, quando ritto in piedi conficcavo lo sguardo nel firmamento. Forse lo chiamano così perché il mento si ferma e si fissa, per cercare di bere tutte quelle luci tremule, tutto quell'infinito silenzioso. Poi ti accorgi che è in atto una gigantesca fuga, e solo osservando attentamente, volta dopo volta, capisci che è qualcosa come una rotazione, perché le figure ritornano, seguendo traiettorie lievemente cangianti. Il cielo sereno mi avvolge di silenzio, mi sospende, mentre lei è come un ronzio, come l'impercettibile tensione elettrica di una voce che non dice parole. La sospensione c'è, identica, ed è quella del mio fiato che non vuole distrarsi dall'ascolto, dalla visione.
Io l'ho vista, incorniciata dalla sua finestra. E mi ha sorriso, molte volte. Non sto inventando tutto, è vero. È l'infinita vanità del vero. Il suo sorriso illumina il vuoto che si apre nella parete, quando i vetri si dischiudono; e il soffitto della stanza che si vede da basso; e il mio corpo tutto. Non lo illumina come un sole esterno, ma come una mano che si infila dentro un guanto, e gli conferisce la sua forma piena, la sua elasticità viva e animale, la sua tensione liscia e sensuale. Il suo sorriso è la bocca e gli occhi. Il suo sorriso sono i capelli lisci e scuri, il loro moto leggero, suscitato dalle correnti d'aria o dal suo semplice camminare.
Mi ha anche parlato. Lo giuro. Parole che a ripeterle ancora piango o rido. Canzoni che mi cantavo tutto il giorno, che mi canto pure adesso, quando sono stanco e solo. Sempre. Mi ha parlato con voce gentile e poi ho capito che la voce gentile era anche voce d'amore. È una parola che mi fa paura, adesso, amore. Perché, come mi riferiscono secoli e secoli, la sua eco più banale è dolore. Io non ci ho voluto credere. Semplicemente, cercavo altre parole non masticate da tutti, da tutti questi cadaveri della diffidenza. Non muffite dentro libri polverosi. Parole che evitassero il malinteso. Quale malinteso? - lei diceva. E così l'incanto diventava abbraccio. E tutti i gesti e le parole un nuovo mondo, antico, antichissimo, da gustare.
Sono venuti i giorni e le notti del piacere. Ore in cui ascolto e visione si confondevano felici con gli altri sensi, ed era tutto un toccare annusare leccare parlare e tacere. E il triviale e lo scurrile diventava gioco intimo e puro: venire venire venire, bocca su sesso e lingua nei buchi, gambe bagnate e sperma che schizza e che cola, spingere e infilare, culo mani e seni delicati, succhiare pompino carezza abbandono, il fare e il dire era il nostro inestinguibile mare. Fuori il mondo continuava la sua giostra ed era felice questo tempo che andava. Ma adesso mi devo fermare, perché quello che era fuoco e calore è di nuovo paralisi e panico. Il corpo sciolto dalla danza si dimena da solo. E piange. Poi l'ombra si blocca, si osserva distorta nello specchio del muro. Allora si spegne come macchina inutile. E il postino porta lettere d'amore che sono emorragia di luce.
Lingua d'uomini e donne lo invita ad un più profondo tacere. Ad interrompere il flusso di tutte le parole. Lingua sacra di alberi che abita le sue fibre replica muta lo stesso consiglio. E lui non ne vuole sapere, si agita e strepita e urla e bisbiglia: testa testa testa, non sopporto più la mia testa, c'è dentro tutto il sangue che mi pompa il cuore, c'è dentro tutto il veleno di quel malinteso rumore. E allora, per adesso, lo lasceremo qui, a scaccolarsi perplesso di fronte a parole che non può altro che ripetere, come bambino incartato in un problema che non riesce a risolvere. Neanche lei capiva niente di matematica. Neanche lei.
Non volevo parlarvi della ragazza. Ma è lei che violenta la mia carne e tormenta i miei polmoni, che abita i coglioni e manda in corto i neuroni, che è tempesta di ormoni, che strizza la mia linfa, che è una rima di bambina, una fessura di paura, un inciampo di distanza, una bestia che mi sopravanza, una donna che m'indonna, un animale che fa male, una meretrice che fa felice, una stella indù che adoro sempre più. Non volevo parlarvi della ragazza, del suo corpo e delle sue promesse, del suono del suo fiato, del futuro e del passato. Non volevo proprio parlarvi, perché lei è l'unico attore e spettatore, perché lei è il teatro e il mondo.
Quando passo davanti alla casa si spalanca un sorriso, dentro, che fa male. La vedo seduta, davanti al fuoco, che divarica le gambe. E il sorriso è una ferita, che è romantico e cretino dire che non si può rimarginare. Allora provo a pensare a qualcosa che mi fa ridere, a qualcosa che la fa ridere. Sono parole che solo noi sappiamo, e sarebbe inutile vergarle su questa carta. Sono segni sonori che fanno eco nella mia testa, che una volta era il nostro circo, la nostra festa. Sono lampi bianchi di denti storti che beffano la serietà adulta. Sono sorsi profondi di un vino di un'uva che il nostro sole ha maturato. Sono musiche distrutte che soltanto due corpi sanno eseguire. Quando passo davanti alla casa mi inoltro nel bosco. E vorrei inoltrarmi fino a un punto in cui non mi riconosco, fino all'eco che mi sparpaglia, fino al silenzio che mi cancella. Vorrei inoltrarmi al di là della dipendenza e del possesso, diventare un animale e uno sciamano, non lo scemo e il mentecatto che sono. Allora scrivo e scrivo e scrivo e non ricordo più perché. Balbetto il suo nome e la gravità mi schiaccia. Ogni sillaba è volare, e l'intero nome son lacrime a terra. Ogni sillaba è un'onda, e l'intero nome ghiaccio. E l'altalena cigola: è grave, è lieve, è grave, è lieve.
Suite n. 1 per violoncello di Johann Sebastian Bach, registrata dal vivo. Alla conclusione del brano, applausi. In dissolvenza incrociata si confondono con la pioggia di aprile che scroscia sul tetto e sul vetro del lucernario. La pioggia ha il sopravvento. Poi inizia il brano successivo. La mòsica, la mòsica... diceva Totò.
Il tuo anello è un ring. E così il cerchio si chiude. La macchina del corpo non sa continuare senza amore. Come un film di Fassbinder. Come un film di Cassavetes. Esser così veloci da sfuggire anche a se stessi. Soprattutto a se stessi. Muhammad Alì prima dell'incontro con George Foreman: danzerò, stasera, danzerò, così lui non saprà più dove sono. E poi, invece, per la prima volta nella sua carriera, resta quasi immobile, catturato dal panico e sovrastato dall'altrui potenza. Incassa i pugni come un elefante addormentato, ma continua a provocare l'avversario con la parola, mentre sembra subire la sconfitta, e una volta sfiancatolo, colpisce rapido, elegante, micidiale. Devo danzare danzare danzare. Lui è un colosso, ma io sono un artista, lo batterò scientificamente, lo batterò perché sono più veloce, lo batterò perché non lotto soltanto per me stesso.
Oggi ho imparato una parola nuova: glene, cavità articolare. Ma l'etimo potrebbe suggerire questa immagine: pupilla incavata nelle ossa. Entro in un cinema e mi sento espropriato del mio umore acqueo; la caverna stilla, concrezioni d'immagini, scosse elettriche, sono fuori dell'orbita, non articolo più con la bocca, lingua è pellicola che lecco e mi lecca, esco umido, parto, nel senso che vengo al mondo, quando vorrei soltanto venire senza andare, parto che mi schiude, sboccio, sbocco sangue che non si vede, trattengo dal naso, non capisco, felicemente non capisco, chiudo gli occhi come si chiude un libro di meraviglia e di piacere, per riuscire a trattenere qualcosa, per gustare questo vuoto che ti sovrasta.
Se anche tu chiudi il libro e lo lasci risuonare dentro di te, le sue frasi diventeranno pertugio, finestra, faglia, squarcio di buio e di luce sullo smalto liscio impenetrabile della chiacchiera quotidiana, soprattutto di quella ‘intelligente'. Se chiudi il libro e ascolti, i trascurabili eventi di un singolo destino diventeranno tuoi. Che queste pagine possano essere il tuo specchio, non il mio. Altrimenti, non avrai fatto altro che contemplare, da straniero inconsapevole, il profilo frastagliato di una geografia qualunque, con velleità di storia e di pensiero. Che queste parole siano la tua eco: ti senti scritto, ti vedi descritto - irriconoscibile. Svieni a te stesso, senza poter far fronte al mancamento con volontà o sapere. Riprenditi, ma non troppo. Bisogna esser molto stupidi per stupirsi di tutto. E si è completamente stupidi quando non si ha margine d'inciampo, di stupore, quando non si è sorpresi dall'autonomia sconvolgente della propria ombra proiettata sul muro. Ti volti, e lei è dietro, che ti fissa le spalle. L'ombra non lo sa, ma tu lo sai. Non ti puoi ingannare a lungo. E in questa frattura cominci a scrivere, a balbettare amore, a ridere in assoluta solitudine.
Mi appunto queste considerazioni sulle pagine ingiallite di "Cervelli" di Gottfried Benn, mentre l'ampio catino del terrazzo è solida cornice al mio corpo che si sta abbronzando. Qualcosa nell'aria, forse lo stormire delle foglie della betulla sottostrada, forse un brivido nella quercia secolare dietro di me, forse il frullo improvviso di quel passero, da destra, rapido e oscuro tanto era vicino, mi ricorda che siamo in territorio sismico. Ma il terremoto, per adesso, rimane un'incrinatura silenziosa, che dai nervi passa alla testa alla spina dorsale alla pianta dei piedi e di nuovo giù, di strato in strato, di peso in peso, divaricandosi impercettibile. Un'onda che ti attraversa. L'onda che vacilla senza tregua dentro il gioco fatuo di un nome.
Si posa sulla spalla sinistra un moscone dalle eleganti striature fumo di Londra, con occhi smerigliati d'amaranto. Punta i miei, con aria di sfida. L'aggressività riflessa nelle nostre facce è un cobra che ci ipnotizza per qualche secondo. Io mostro i denti, allargando con meccanica lentezza le labbra. Lui allunga la proboscide. Immobile. Poi si stropiccia le pelose zampette anteriori. Cominciamo a sussultare entrambi in una risata complice e trattenuta. Allora, ormai in confidenza, ruota su se stesso, esibisce un addome rossastro da babbuino e si strofina anche gli arti posteriori, prima di decollare secco e silenzioso come un lampo all'orizzonte.
Continuano a farmi compagnia i barbagli dei gerani rossi, in alto, ritagliati contro l'azzurro terso, e le ortensie biancoverdi ancora immature. Ronza. Metallo smeraldo di uno scarabeo ronza qualcosa nel padiglione dell'orecchio sinistro e scivola via rapido, con traiettoria curvilinea, come tenuto da un lungo elastico invisibile. Vorrei richiamarlo, perché non ho capito nulla, come al solito. Ma la pelle si beve il piacere di questo calore. E anche l'ombra non ha più voglia di parlare.
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