BUONANOTTE INFINITA

Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano



Questo libro è stato stampato
per la terza edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1998



Francesco Cappè

MI È APPENA SCOPPIATA UNA STELLA SULLA FINESTRA (DI SALA)


Dedicato a Starsky and Hutch



I.
E c'è un tramonto sempre mai un'alba, sono troppo pigro.
Il tramonto potrebbe mestruarsi e così immagino quell'uomo dalla voce grossa a grano che parla di porto e di Genova. Dove la gente non ha tempo ma poi ce l'ha, di vedere, venire iaculare da culo. Così che il tramonto lo lascio mestruato che forse rende l'idea. L'idea di ingoio.
Leggo a fumare mio Dio di nostalgia. Guardo sopra che la "D" è maiuscola per rispetto di chi ce la mette. Guardo sopra. E ci vedo una striscia di ferro e fumo, bianco; poi rosa, poi fumo non fumato e il divieto per lui non vale che se ne andrà a New York a respirare, di là che poi è come di qua. Però no perché Bilbao, perché in fondo non era così, era diverso. Poi penso che in Africa ci si abbronza.
Un freddo d'acqua gelata si versa dentro una mente vuota come un violino. Cazzo, urlo, digurio, sboro, bavoso, grigno, digrigno, gargiula in gola, la gola del vuoto liscio di piscio. Il sapore non è del più buono ma ce l'ho in bocca ora e nient'altro, gniente così si capisce meglio, si capisca che mi sento solo come un abisso. Ma abisso è banale così dico bocca. Come la bocca di una bella donna che ha le grinze, che forse ha ingoiato il mio latte ipocrita e poi apre gli occhi pieni di dolcezza. Le ciglia sottili chiudono piano le due labbra quella alta e quella bassa, quella alta è più rossa. Gli occhi dio mio sono di quelli che piangono mari arancio o come S. Lucia color metallo. Potrei avercelo ancora duro, lei lo saprebbe, ma non tutte. Proprio no, che lo so.
Voi, gradito pubblico, non avete in mente cosa sia il vuoto del fagiolo?! Eh già come potreste saperlo, che forse sognate con me il mio sogno segno di un assolo solo di un fagiolo?
Io mi c'ero messo a spiegarlo; avrei spiegato anche del fagiolo, l'avrei fatto con il caldo delle mie mani avrei gesticolato di più e parlato, parlato, nel parlatoio l'avrei voluta.
Biscuits champagne Lefèvre-Utile, les cycles Français e chissà quanto altro. Ora mi vedrei bene in una vasca con schiuma.
Questa sera c'era un treno e in treno uno rasato con il suo odore, il naso curvo uno sproposito, gli occhi di chi non sapeva.
Il povero si era rotto. Era chiaro anche a lui che non sapeva dove andare. Quell'altro per me ha sbagliato, anche perché mi pare averlo visto sbadigliare. E cazzo... quello non era davvero il momento!
E quell'altro ciaveva la giacca grigia, ma non come il tempo di Huddersfield, che quello sì che era un grigio bello e sapeva del fumo della notte umida quando viene mattina e fa fresco nel buio. Quell'altro ciaveva la giacchetta come un soldatino. Anche perché io credo che questo fumo di alcool che si rincorre di mattina fra la barba indiana di uno con la testa fasciata che mangia curry, bè sì tutto sommato con l'alito che gli puzza di appena sveglio mentre tutto è ancora una pentola di buio. Very long period. Bè tutto questo era Huddersfield e questa sera quello là sul treno lì forse ci sarebbe anche andato, ma il soldatino gli ha detto...
Si era rotto.
E come era bello pensare che stesse nevicando dentro la sua testa. La neve mi fa caldo. C'è sempre un camino. La sua mente, quella del povero cristo, s'imbianca intanto che io mi riscaldo. Posso sentire di qui il rock forte, espanso, come la nebbia di polistirolo inglese di una mattina di Huddersfield. Il rock è proprio forte nella testa di questo mentre parla con il guardiano del treno, che non ha capito che si è rotto, e la musica pompa come una donna nel suo cervello.
C'era un treno anche a Huddersfield quella sera, lettore disattento e sempre più gradito, c'era un mare, no non c'era ma gliene avrei steso uno davanti casa. Il treno andava, quando andava, fino a Bradford.
Quella sera della supernova nella città della supernova il mare anche se di sputi lo avrei steso sotto la sua finestra di lei e ciavrei navigato con delle rose rosse su.
Mio Dio che noia questo, con il suo rock nelle orecchie che gli scoprono quasi il naso da quanto si è voltato.
Mancheranno pochi metri alla stazione. Solo pochi metri e nel povero, nella sua testolona, bè lì ora fa primavera e profuma di rasato e di rose rosse, il guardiano gli parla e lui si fruga in tasca fingendo documenti documentandosi. Sì, sì cià ancora quell'aria che non sa dove va, l'aria di rotto.
Ne approfitto. Gli strappo le rose rosse che nella sua mente è primavera e fa tiepido.
Gli faccio male.
Scappo a dargli una direzione da inseguirmi e lui lì che si documenta cercando documenti Telecom, documentandosi per il guardiano che non lo lascia venire. Orgasmo. Si è rotto. E io scappo nella supernova di Bradford, il mare di sputi con le creste bianche e tutto il resto. Era un mare per essere navigato quella sera, con quelle rose rosse fresche da piantare in mezzo alle gambe di lei.
Quella sera , dio mio, c'era sciopero dei treni.
Mi sono amato a lungo nella vita impugnandomi, metto in bocca a Tony Blair. In fondo era mia. Ma poi sto Tony è inglese e tutto torna. Non il povero che non torna. Rintronato, guarda il guardiano che se ne va. Lui rimane solo, ora che fa estate e si suda. Esce un po' del suo rock e sono i Pearl Jam, e quelli trombano su quelle chitarre che non scherzano, si piegano, pompano, si alzano più di quello più piccolo che non può. Imbarcano suono che è bello da sentire. Fila via tutto quello che canta il cantante, canta il chitarrista, batte il batterista vicino al bassista che è basso. Vedo i cubi del Picasso più vecchio ballare con i cavalli del Goya più giovane sulla più bella linea di basso... mi vedo una color oro in una bocca piena di sangue e lì ci proiettano il bosco secco di una pura formalità di Tornatore.
Creperei, dice Tony Blair, in questo mare di acciaio rumore d'orgasmo bianco.

Che quando la sera ha le sue mestruazioni come ogni sera le acciughe sembrano d'oro a pelo d'acqua a pelo di fica a pelo d'aria e l'acqua sa di brodo tiepido il cielo sbrodato com'è dai rumori del ferro delle stringhe siringhe delle chitarre di quelli di Seattle.

Una cagna su di un prato tiepido di verde con il sole giallo nella pancia sente scattare la fica fine della cassetta cosicché il cantante torna a fare quello che faceva prima e non canta più per me.
E il bassista basso lo segue.
Ma per me c'è una fotografia lì sul culo della Repubblica, che poi non è così blasfemo dirlo perché è un giornale di carta e non di tela. C'è una città che va a letto. Pari-Paris.
Un pezzo di Champs-Elysées, che io ci sono stato e c'era il sole, ma qui no. File di luci, di ferro, nel sonno di un inverno tiepido nella bocca di lei che ci deve avere un gran culo a tutto tondo di carne che deve sapere di questa Parigi di sera.
C'è una luce di traffico dove i bambini escono alle loro orge dalle loro difese, gli altri nelle loro copertine di raso rasoio di tela dagli occhi chiusi e fuori si sa di pelle e organetto. C'è chi sa di ferro fra le gengive e fa la scia. Sanguinerebbe il sole se fosse in questa fotografia sul culo della Repubblica che poi è un giornale di carta e non di tele. Intanto il povero, dal naso che ormai si bagna nella bocca da quanto non sa dove andare, continua a documentarsi per il guardiano del treno. La stazione ci viene incontro e lui deve avere pensato che era lì che doveva andare.
Lo deve avere pensato quando mi vede scendere, correre, inciampare con le sue rose rosse strette dolcemente in mano. Si schiaccia ad un finestrino piccolo di vetro sporco con il naso completamente in bocca. Rotto.
Io che vado verso la sera della supernova, e lui con la parte alta del naso rotta che spruzza fiotti di sangue su quel vetro di vetro che si vede benissimo che il guardiano del treno nuota nel rosso chiedendo documenti e quello a documentarsi. Il treno così se ne va via. Io nel moto a luogo ad aspettarne un altro. Il mio documento poi lo trovo in una tasca e recita: "DI PATRIA ITALIANA".

II.
Sempre di più la notte si fa notte come la donna donna. Poi il freddo si fa freddo come i denti denti e tutto risulta lieve e secco come la pelle di una ruga esposta, assetata al sole. Se poi l'uva passa figliasse vino e Mozart si masturbasse con gli Smashing Pumpkins allora sì che tutto rompe e riempie il buco lasciato dal sole in questa notte dai nei bianchi. Se poi per caso vi trovaste a passare per questa notte non mettete mai in bocca, che di bocca bella rossa di sera si parla, a un onnivoro cose in fila. Puzzano come un fiume scuro di tabacco masticato e sputato. A un onnivoro neanche toccategli l'uccello uno dopo l'altro. Questa notte tutti insieme.
Questa notte che nella bocca dei Pearl Jam proiettano senza soluzione di continuità. Ma io non ho voglia di andare al cinema no teatro, così passo di là. Piove fitto su delle canale di rame, la musica di finestra in finestra e sfinestrato con il vento è Coltrane, in un'altra una tromba fa da tenda ad una abat-jour fra Smells like teen spirit e Vivaldi.
Giù, qua vicino, c'è uno che ha perso un dente e lo cerca nel suo sangue, sa di notizia da tele delle otto.
Un nero più in là suona il sedere nero della sua donna, lui che può che è il suo uomo, donna che scura com'è suona di un bel blues.
A vederlo intravederlo, quel sedere scuro bello tirato mi fa venire sete.
Mi butto da qualche parte per bere che ho i soldi e me lo permetto. E' implicito che mi butto in un pub, è implicito che non mi butto in un fiume perché ho i soldi per non farlo. Sic!

Sono in un pub, l'ombrello, bagnato com'è, sgocciola sulle scarpe di quello accanto. Incazzato. Al mio paese dicono bagno, avrebbero detto "l'ombrello, bagno com'è, gronda". Avrebbero fatto bene che è più corto da dire. (A quello dalle scarpe bagnate, che non è più accanto, la precisazione gliela risparmio). L'altro giorno ho aperto a caso l'Ulisse di Joyce. Per caso l'ho aperto a pagina 291, diceva, scriveva Stoke Newington. Per caso ho visto "Stoke New" e poi spezzata la riga, spezzate le righe, a capo "ington". Così a caso un giorno ho comprato l'Ulisse di Joyce. Che poi sia tanto per caso ho ancora da crederlo, fatto sta che in quel posto ci sono stato e ciò messo così tanto per capire come si scriveva Stoke Newington che una volta imparato già ciavevo le valigie in mano con tutti i miei casini del sentimento dentro.
Lì vicino, a Finsbury Park, due isolati più avanti, tanto per dirla come gli americani, la gente ha tirato ai Sex Pistols dei pomodori perché loro tiravano ai soldi, a giugno, in agosto non era cambiato . In quella parte di Londra c'è l'aria satura di quelle case con i mattoni inquinati dove è d'obbligo immaginarsi ci sia una vestaglia da notte inglese, ciabatte inglesi, tè inglese. Ci sono insegne rosso sbiadito appese, neri con il rap pompato in macchine lunghe di lamiera e bianchi visi pallidi. Una mamma, il bambino con la lama in mano, il breakfast 1.80 e uno a farlo. C'è una radio che passa punk. Il rumore si vede in cielo quando ancora l'alito sa di sveglio e te glorifichi il mattino con un'erezione gigantesca.
Mi ricordo una sera pestavo con Howard delle tavole in uno di quelli che chiamano club, c'era una con giacca e mezza gonna blu, spaccava il rumore con i fianchi e se lì dentro quel suo vestirsi non c'entrava, lei il rumore lo spaccava lo stesso con i fianchi. Aveva le mani e i capelli in aria e poi giù di tacco a spaccarsi la mezza gonna con i fianchi e io a spaccarmi le mutande.
La Guiness va giù che è un piacere con la luce bassa, più bassa di Paolo Rossi e del re Vittorio Emanuele III messi insieme.
C'è quel po' di jazz che scivola bene, scivola via.
Il pub ha una finestra che perde. C'era uno che ha iniziato che a suo dire una stella marina passava di lì ogni tre anni, poi ha finito con il viso viola. Il viso che cade, scroscia per terra e poi il solito via vai con lui a leccare con la lingua quel po' di vino, con lui a ridersi addosso, sul bruno del legno del tavolo, del via vai.
A questo punto mi viene voglia, così, come dire, di attirare l'attenzione dentro una storia che abbia le pareti del mio boccale e sul fondo lasciarci una donna con il viso di gatto riverso sul fondo.
- Lei deve non capirci niente!-
E questo dalla cravatta da dove salta fuori? Mi chiedo - scusi?-
E' quello che leggeva il giornale del giorno prima, dietro il tavolino sotto la finestra dentro il pub vicino a una finestra a perdere. Ha tutto un polsino della camicia (i polsini ce l'hanno anche le giacche?) ce l'ha fradicio che se lo sapeva si poteva anche spostare.
- Si ha l'aria di chi viene da fuori.- Fa lui.
Ora due cose: ho l'aria; e poi fuori dove , sono bagnato anch'io?
- Fuori?-
- Sì , che non è di qua... no? -
L'aria sta in effetti arrivando. E' possibile che la mia faccia se ne accorga e riprenda un certo piglio, appiglio, erpice. E' possibile ma non sicuro.
- Però vedo che la mia lingua la capisce -
- Sì. Sa, merito delle canzoni. - Cazzo, risposta stupida a domanda ovvia.
- Mi scusi signore la disturbo? - mi dice ripensandoci e mi dà del signore proprio mentre una di quelle mi passa una coscia di là con tanto di pensiero smorzacandela, io spacco a ridere e lei che la candela oramai l'aveva accesa va via come chi ha perso a carte. Quell'altro ride compiacendomicisi.
Scrivo una carta: Dear Bill, please come to visit me in Green Way close number 48, I'm so drunk. Standby... see you soon mate. Bye.
Mi guardo a tutto torno.
Impugno il vaso di birra lo porto alla bocca mi picchia nei denti. La birra va giù insipida che non c'è più succo di luppolo.
Mi vengono in mente i lupini della casa del Nespolo e padron 'Ntoni e la Provvidenza. La Provvidenza ci vorrebbe con tutta quest'acqua ci vorrebbe una barca.
Tiro indietro la sedia. Mi alzo attento a non bagnarmi d'ombrello. Penso che - paragua -sia più bello da dire, più chiaro. Saluto e c'è chi non lo fa, c'è sempre quello che non lo fa, penso io. Alzo il bavero della giacca negra e la luce continua bassa e è più bassa del bassista basso dei Pearl Jam.
Questo fa - se crede le offro un'altra birra, pago io.-
Questo che non ha capito che siamo in strada.
Mi fa ancora - lasci che mi presenti... mi chiamo Transito.-
Gli faccio piacere e mi verrebbe da rispondergli con la faccia da scocciato rottoinculo.
Neppure a pensarlo, camuffo da muffa che è una parola che mi ricorda quelle caramelle che ti si appiccicano ai denti in alto e in basso che alla fine ci provi a staccarle con le dita ma ti rimangono lì. Poi infindeiconti il signor Transito non mi disturba nell'illusione che ho che si bagni più di me e ne risparmi un po' a me con quelle spalle che si ritrova e l'acqua non è vino.

Passiamo davanti alla luce di finestra di prima e c'è sempre il nero. Questa volta il sedere teso è il suo ma la donna non sa cosa farci e ci si butta sopra a coperta. Così noi a guardarci quei lucidi suoi di lei, noi di passaggio.
Fra i vetri passa l'aria satura di Territorial Pissings di una fender di città. Fra i vetri passano i fumi del rosso da ventiduemilalire a bottiglia, pressappoco, i fumi che vanno nella nebbia bianca ballerina.
Mi viene una battuta per scioglierci un po' - nebbia da tagliare a fette...come il latte... eh?! -
Rido perché sia chiaro che bisognava riderci. Volevo complicarla un po', ma visto che lui già era partito a ridere, lascio fare. Meglio così che come cosa, a finirla, valeva poco.
Intanto continua a pioverci addosso a raggi via via più fitti.
L'aria carica è gonfia come una valvola di un Marshall. In una stanza piena di persone fino al bordo, gira una lampadina che picchia in testa ai più alti.
Tutto questo che da fuori sembra ballino, tutti spinti pelle contro pelle lì dentro. Mi vengono in mente quelle pianure d'erba e aria e quegli animali che saltano pelo a pelo, appiccicati che sembrano spinti.
Tutti a guardare il leone. Il leone che sta largo e spesso sta solo.
Quella stanza dà l'idea del piombo.
Intanto questo signore parla e s'impinta qua fuori e dentro che si può saltare.
Io mi sento fuori e senza camino. Questo parla e mi dice che anni fa viveva più a nord e mi dice che pioveva di più e mi dice che lui non ci ritornerebbe - a fare cosa, che forse qui non sto bene, dico, lei non mi trova bene? -
Io dico sì e mi sposto un po'.
Lui riparla e io mi risposto. Poi l'aria di un Marshall mi pompa ormai in testa. La lampadina la tocco io quando salto, ma la luce è la stessa anche quando mi piego e non mi dà agli occhi. Sudo senza spazio e mi ritorna l'idea del piombo mentre la lampadina non dà agli occhi neanche quando mi piego di più.
Sudo quando salto ma la luce è la stessa di per terra. "I don't care, I don't care, I don't care" canto da Breed.
- Ascolti Transito ! - Transito e il suo impermeabile all'acqua dondolano composti, gli occhi un po' chiusi, la testa all'indietro.
Come antilopi tutt'intorno saltano pelle a pelle. Una dal culo grosso prende la cravatta a Transito e dondola con lui e il suo impermeabile, e lui, i suoi occhi chiusi e la testa all'indietro. Io salto e mi piego e quando salto e quando mi piego sudo. Sono sudato e quando salto la lampadina non mi dà agli occhi.
Una preghiera ?
Che la batteria regga! Che regga anche la voce, che già non ha più retto, che regga anche il basso. Che regga questo culo di donna. Transito dondola composto e sembra essersi tutto addormentato. Ora dondola anche di testa un po' su di una spalla e un po' anche sull'altra.
C'è something in the way e si va nell'alba di una mattina ariosa alla niveina. Esco e mi rendo conto che rilegherò questa mia canzone.

- Mi permetta di dirle - fa Transito - bè sì a proposito della birra... la prossima volta provi una Bitter... la prossima volta che ha sete... s'intende.-
- S'intende - gli faccio io da eco e calcio i sassi piccoli.
Lui - faccio il giornalista - si aggiusta il polsino, fa il collo a casablanca - l'ho fatto da tante parti che lei non se ne fa un'idea. Pensi sono stato anche a New York, anche a Madrid, sono stato anche a S. Francisco.-

III.
Ho gli occhi che mi bruciano e vorrei che il sole se lo mangiasse qualcuno in un bosco secco. L'autunno sdraia le sue foglie come le auto su questo tappeto di strade di S. Francisco.
E penso che c'è un'abat-jour in mezzo all'autostrada. E penso che c'è un bosco verde alla menta. Che non importa se sono vestito perché faccio il bagno caldo in una vasca di una pensione e c'è il bagno schiuma e un braccio che se lo tiro fuori sa del fumo dell'acqua calda. E mi piacciono, in questa macchina a S. Francisco, i fanali bianchi contro. No quelli gialli che sembrano denti troppo fumati.
C'è un basso che fa da mamma e cià le tette su una di quelle chitarre sgranate, mai messe a fuoco. Mi immagino come possa essere questo spaccare nel mattino con Anarchy in the U.K fra le uova fritte di un mattino di S. Francisco . Breakfast point. Mi immagino una telecamera di tela.
Riprenderei una che lo ciuccia a uno come fosse normale affiancherei l'oceano di questa notte.
I Pearl Jam che l'oceano in Ten ne anno più di uno, e fa oceani, continuano a essere il mio buio preferito.
- Il buio di S. Francisco te lo puoi anche immaginare. Mi ricordo una sera che stavo pensando, pensavo che se esageravo nel respiro, il buio, da denso com'era, l'avrei potuto ingoiare tutto come si ingoia un churro con chocolate. Pensa il denso che era! E quelli che mi dicevano la notizia è in strada, Transito buenas noches. E sì io qualche notte in strada l'ho fatta davvero.-
Questo se ne stava lì e l'alba gli passava da parte a parte e faceva e diventava scuro. La figura di un grattacielo apriva così, come una secchiata d'acqua a me che dormivo.
Ricordo che a S. Sebastian c'è quella cosa che pettina il vento che non te la posso spiegare, se non la vai a vedere io non te la posso spiegare. C'è una donna incinta di un metalmeccanico in forse e c'è una nonna che veste asessuata e c'è Andy Warhol che non ne so molto ma cià il nome che mi suona bene. Un dente d'oro sulla bocca di uno con la pelle secca e scura.
Il Mata Mua su un cartellone sotto un blocco di case in fila prima di un cinema dopo un lavavetri a fianco di una strada dai fianchi rossi di semafori, rossi quasi come quella che ne ha preso troppo da chi troppo ne ha dato.
Passa Trainspotting che è la fotografia più bella. C'è una pera e uno che se la fa. C'è Trainspotting che è la fotografia più bella.
C'è un'imene che si rompe e fa un mare grande come il mondo.

C'è una pila contromare e c'è un'acciuga dal dorso che brilla. C'è una città d'onde d'argento. Trainspotting che è la fotografia più bella... Ein tag aus dem leben des Kleinen Johannes, la petite émouvante di Wassily Kandinsky e la sua La salida de la Johannisstrasse.
Transito se lo scrolla e mentre fa così mi dice che il mare di S. Francisco è bello .
- Vivevo con Maria di Spagna, di pelle scura e capelli pure. Ciaveva la bocca che sapeva di sale tanto che me la bruciava, le curve anche se andava matta per i maglioni larghi. Gli occhi li sapeva puntare e abbassare. Sapeva non parlare .-
Intanto da di sotto per la strada veniva su un buon odore di croissant fresco.
- Sai un giorno il capo mi manda su una spiaggia.-
Mi fa lui tirandosi su la cerniera. Tirando lo sciacquone. Aprendosi le mani e un rubinetto. Lavandosi le mani e chiudendo la porta che non fa rumore perché quando uno dorme una porta non fa rumore, e io dormivo come un cuscino.
- Ciavevo la cravatta quella mattina, Maria con le sue labbra che neanche appena sveglia sapeva di alito e io sempre a pararmi il mio e ad annusarmi.- Dalla porta accanto saltava fuori una frequenza giusta e bassa.
- Io abitavo da Maria. Una zona molto alla Starsky and Hutch. C'erano anche dei parchi e io ciandavo a fumare. Maria aveva un pezzo di giardino dietro casa ma era un po' di tutti.-
Sapeva di dolce la voce di Transito e la confondevo con la frequenza radio di un blues da New Orleans, la confondevo con una coperta di lana.
Cazzo che non mi sia mai innamorato? Mi viene da pensare ma cazzo lasciamo stare.
Stoke Newington, Summoner's tales, Notting hill carnival and fish and ship come c'era nell'insegna a Granada parte araba.
Si fa tutto bene con la luce fra le persiane di pomeriggio. Ci sono delle cortine di raso rosa alla finestra che fanno il paio con delle gambe e una radio di notte. Potrebbe bastare come una dote, come una detrazione dei redditi più bassi e un giornale che fa un cumulo di ragioni del tutto evidenti.
New News: riduzione del tasso di sconto!
La radio la notte, come poche cose, fa buio.
Sono entrato in un loop e non penso ad altro che a uno che se ne esce fuori campo. Io lo inseguo con una lavatrice sulle spalle. Esco dal loop e mi entra una che sa dell'est.
La stanza sembra essere stata imbiancata senza spostare i mobili dalle pareti. Lei ha una faccia da intonaco, due occhi ombreggiati albicocca e un maglione che riprende sul solito frutto.
La televisione passa i più bei colori del deserto di Priscilla the queen of the desert, delle piume di struzzo color Rio de Janeiro e io ciò tutta una nostalgia, come una vena d'acqua acida di un bosco di un dolce inverno inglese.
Mi arriva fresco che le potrebbe piacere il verde, dipingere di rosso. Pensa al sesso, lei timida, che non regge gli occhi in su. Le piacerebbe l'idea di chissaquale castello di neve. Il Castello di Kafka. Se ne sta chiusa come un libro. Si potrebbe vestire di blu, poi, così vestita, potrebbe andare ad un ricevimento a Salisburgo fra bicchieri di cristallo, Mozart e nobili chiacchierate, come potrebbe andarsene in un centro sociale a sbattersi in un cesso o a spingersi più in là.
Potrebbe stare ore su di un soffice da classica.
Non ammazzerebbe i trans.
Timida com'è si potrebbe ubriacare in una notte gentile.
Chissà quanti anni ha? Chiude le gambe come le hanno insegnato in chiesa ma sul più bello le apre un po'.
Nelle notti piene d'acqua si rilegge L'Idiota di Dostoevskij.
Per lei Dio lo potrei anche scrivere minuscolo ma non per questo ammazzerebbe i preti. Parigi le fa un bell'effetto. Una lampadina stanca la eccita e confido in questo per pensarla con le gambe spalancate.
Transito mi dice - quella mattina amavo più i parchi d'erba che la spiaggia-
Si riferiva a prima....... al suo capo...... a prima.
E' probabilmente più democratica di quello che sono io. Potrebbe salire sulla luna con me se solo sapessi come fare ad invitarla. Fosse un cibo lei sarebbe la polenta scura di castagne con ricotta, e io, lei pensa, un maiale. Si vorrebbe sposare all'alba fra l'erba con musica intonata al colore dell'erba, ma l'hanno abituata all'organo e all'arenaria, così... Berlino che è timida come lei e che lei pensa che io ci sia stato. Ma io no, e inizio a dirglielo. Lei inizia a parlare e parlarsi. Stop!
In più, le avrei voluto solo dire di quel mio amico che non si masturba per orgoglio, ma lascio perdere di parlare.
Di là c'è uno dalla pelle così scura, così nera che cià anche le ossa nere, le leve lunghe e i denti color ebano.

Le ore passano grandi come le stelle.

E' tanto tempo che non ci capiamo, penso, e penso lì fermo al primo sole pronto per essere salato se non fosse che l'erba è umida e mi fa umido tutto, l'erba prima di tutto. Transito fa la mano a visiera a vedere dove finisce il parco, dove inizia la città, dove passa l'aereo, dove caga il cane.
Dice anche - la macchina da scrivere che avevo a S. Francisco viaggiava bene... una favola. La mattina che il capo mi ha detto vai alla spiaggia, io ci gingillavo e già ciavevo in mente di scrivere, fare il mio servizio, farlo alla tipa della scrivania accanto che quella mattina se lo meritava, con il suo caffè. In fondo il mio era un modo come un altro di fare il maschio, in realtà Maria era oceani oltre ogni altra.-
- Transito ma che voce hai? - Poi non glielo chiedo, ma ‘sta mattina cià una voce da quark.

C'è un muro e uno che ci spruzza su, che se viene un bobby qualunque colorato di blu, come sono, quello del muro è fritto. Certo è, che quello del muro ha fantasia da vendere e se l'altro lo becca lui fingerà certamente di darsi un po' di deodorante. E se lo spruzzo sarà blu magari finirà tutto blu, bobby anche lui.
Se lo spruzzo sarà color veleno, questa mattina, quello del muro, si confonderà con il cielo. Troverà un alieno che gli farà fare un paio di giri sul mondo e poi cadrà giù con la pioggia nella mente di uno che fa fumetti.
Sarà un fumetto e chi lo beccherà più ! ? !
Questione di culo.


Intanto Transito va slegato - bè infondo pensavo, perché alla spiaggia adesso ! ? Fa freddo, qui c'è il caffè e chi me lo porta. Aspetto cambi aria il capo e mi sbatto un po' per di qua. Il capo era un cane da tartufi, meglio un cane da notizia, meglio... un cane. Voleva scavassimo per la città fino a far straripare il giornale di news. Quella mattina gli dissi pensando qualcosa di brutto, di brutto e di forte. Chiamai Maria.-
- Maria la spagnola ?-
Si Maria Maria. Stavo lì a chiedergli del suo... bè sai la sera prima c'ero andato forte in mezzo a quei fianchi. Non ci giurerei ma è probabile che la mia voce fosse un po' da scemo arrapato che ciavevo di fronte quella del caffè che mi faceva segno di masturbarsi con la mano da uomo, su e giù. E io ci cascavo sempre e lei lo faceva a giro quel verso, a farci togliere tutti gli impermeabili della redazione. Poi se ne andava e i cessi si intasavano e io al telefono che Maria mica ci cascava.-

IV.
Oggi è una giornata chiara di quelle che respirano.
Oggi è una giornata di quelle che escono i colori. Mi giro e faccio: - Transito schiocca su Time's up.- Lui smette di fare le dita a visiera, di contare i cani, di cantare inglese, d'inseguire i cani che inseguono i gatti che dormono.
- Ho sempre pensato che i cani assomigliassero a noi.-
Finita la parentesi filosofica Transito fa due dita lunghe a pistola e mi dice che ho ragione. Poi prende l'altra mano, quella che va alla tasca. Prende una chiave. Penetra la macchina che gira bene come la chitarra di Vernon Reid, che gira veloce come un urlo. Pompa il vento contro la macchina che è arancione. Guardo il sole che cià su una camicia a quadri e sta tutto dentro la lente dei miei occhiali. L'aria di armonici e di gomma dà addosso alla sigaretta.
La sigaretta si spegne per ‘sto cazzo di vento. La luce no che è come il vetro la mattina alle cinque. Schiaccio il culo sul seggiolino con Transito che fa il pugno in aria e segue quei matti dell'autoradio.
- Guarda dove vai,...guardi! -
Lui con il pugno a batteria - che no, che non si preoccupi che mi sento tanto a S. Francisco.-
Il sax s'inchiappetta la chitarra, la batteria gli va in bocca e come una palla, questa mattina fresca, quei matti ci scoppiano in testa.
Cosa c'è di meglio ? ! C'è, c'è. C'è che scendo dalla macchina che mi fa male. Che scendo dalla macchina che mi fa vomitare. C'è che non mi piace il colore.

V.
Così ingoio tutto. Una chiesa che sa di pittura. Una donna dalla lacrima bianca. C'è luce tanta luce e vado in un confessionale di legno che fuori ho paura e fuori fa freddo. Il confessionale stringe e fa caldo. Mi sento come uno che si mangia le croste di nascosto. Che ha i denti di ferro e le gengive con tutto quel sapore. E pensare che tutto non corrisponde e io devo solo realizzare.
Parasi il culo cara, parasi il culo, che poi è una metafora stronza e sciocca.
La metafora del ferito quando in realtà qualsiasi Gesù del mondo potrebbe capire che io sono la mia paura del vuoto, insaziabile vertigine.
Io sono la mia piaga. Profonda. L'amante della mia voragine. La paura del mio silenzio freddo e secco come un frigorifero.
Io sono il corridore che vedete correre e ritornarmi.
Che a gettarsi in una piaga ci vuole qualcosa di più o forse di diverso (tanto per restare in quella visione orizzontale del mondo a me tanto cara).
E, gradito pubblico mi rivolgo a voi, veramente pensate che io possa vivere in questo vostro mondo se solo iniziassi a scoprirmi al mio silenzio?
Veramente pensate che si possa indossare una qualsiasi regola, casual, in doppio petto, slandrita, slanciata o accartocciata e anche un po' smerdacchiata, senza giocare a nascondino con se stessi, con il proprio pene o vagina, con il vento senza dio.
C'è uno che ha lavorato dieci ore al giorno per una vita. Non gli piaceva. Ma doveva. Cosa faceva.
Andiamo a dirgli che abbiamo scherzato!
Bè, gradito pubblico, la morale della favola sta qua "o parlo con me o sto con voi". (Al limite giracchio sul bordo della piaga...)
Lo so che voi potreste eccepire che da queste righe fuoriescono dette o non dette altrettante sicurezze, ma se di queste si tratta, il primo a non crederci sono io, e la mia pigrizia ad argomentare o credere forse è la qualità più utile che un buon Gesù mi ha dato.
Del resto anche l'elogio a me stesso è qualcosa che infastidisce.
Non tanto voi che al massimo ne risultate "disturbati" o ancora peggio ne traete fonte di ragione, e siccome al peggio non c'è mai fine, confondendo la mia persona con ciò che dico.
Infastidisce il tono da finale di partita, limite stabilito di crescita.
Infastidisce la cristallizzazione di una qualità come "utile" la quale non avrà mai, in queste pagine, in questa espressione, la possibilità di diventare inutile o altro. Una specie di epitaffio della qualità, peraltro mia, meritevole della più lunga e pelosa lustrata di palle del mondo.

C'è una strada distorta larga, come le strade che lunghe si stringono.
Larga larga apre le gambe a un'alba di S. Francisco con un confessionale nel mezzo. La chiesa ha una serie di mattoni grigi, uno sopra l'altro. Ci sono ceri e fiammelle rosse, di quelle che si rubano per farsi.
La Madonna com'è dolce!
E per me vuol dire tutto quello che voglio sentire.
Tutto attorno ci sono ragazzini che pisciano in aria. Il più grande che conta, e allo zero si punta il pisello al sole e si fa fuoco. Che hanno voglia di dire ma qua, il loro, già si chiama uccello.

Pietra porca che floscia viene giù questa sera. Viene giù. Viene giù sta merda a cascata in questo buco di stanza a fianco di una via larga. C'è una crosta di cesso e una nenia tutta elettrica che se la tocchi sa di seta e ti scivola e ti masturba i peli ritti della gamba. L'elettrico è rosso come questa strada di S. Francisco. Sa anche un po' di lamiera. Schiaccio le chiappe contro un freddo di coccio di cesso. L'India sa di questa musica, penso io. O anche la Sicilia, la Napoli degli Almamegretta e via di seguito.
Sembra una lamiera gentile, elettrica. Sembra una notte d'oro.
Sembra una notte d'oro e di cammelli.
Come scorre tutto quello che ho mangiato, va giù a pioggia. Una libanese ora mi potrebbe anche danzare sugli occhi la danza del ventre. L'elettrico arabo sta a mezz'aria come un lenzuolo rosso. Sento i Gregoriani che si facevano d'oppio. Poi, infondo la testa è di scatola e vai via di lì come chi è stato troppo in un letto di febbre, t'immagini l'illusione e siccome il turista non fa per te, tu sei l'illusione tua. E allora buon te stesso parti e arrotoli e ti spari in un fiume, buon costruttore ti costruisci le tue cascate di diamanti e rubini rossi con l'acqua dalle vene d'oro.
Non sopporto la forza di gravità che c'è! Greve. Sax. Pax e tutto il latino dei latini che partivano per l'alieno con gli occhi Incas e una voce fuori campo che fa il conto alla rovescia.
Mio Dio come va lento il mondo ondo corto dio corro anch'io ma calmo tu.

Strizza la pancia, gli ultimi coiti di vomito. Un tè indiano. Una parete d'oro. Una candela di raso fino di seta. Il mio pene potrebbe anche ora finire la corsa del mio stomaco. Mi vedo il mio pene giusto giusto in un buco di donna, muoversi lento a tempo, lento a tempo in questa notte di cammelli caldi dell'Africa, da marciapiedi con gli occhi di ghiaccio, da lamiere da mani nei capelli. Lento a tempo tempo lento tempo d'oro piano, nel buco caldo di saliva di morbidi oceani.
Stiro le gambe rinsecchite per un giorno. Apro la finestra e la musica elettrica, da flauti da giungla e sax indemoniati non mi va fuori ! ! !
Fa il lampione.
Fa la tenda di quella di fronte che sbatte per il vento, fa il cavo dell'alta tensione, un gelato che cade dalle mani di un bambino, un bambino che raglia, uno tutto solo come una domenica sera dal giacchetto di pelle di vacca nero sceso da un autobus da un lungo viaggio che ha fame è solo e questo lo strugge, fa il ghiaccio, fa la neve verde dall'erba che da sotto si vede, l'insegna porno,
fa rosso questa sera bel tempo si spera.
E la musica elettrica blu non mi va fuori! Fa il lampione, fa il traffico di questi probabili puttanieri motorizzati.
Cazzo io cosa sono scemo ! ?
Chiudo la finestra. Spazzo via il mio fiume di merda che da difficile com'era ora va via che è una bellezza. Il muro risà di crudo e di crosta. Chiudo la porta. Annuso il cous cous con la candela a lato che danza e vola di vento in vento.

VI.
- La notte prima era la notte delle regine.-
Lo dice Transito che mi parla quasi dalla metà del confessionale.
- Maria, la notte più lunga di tutto l'anno, la chiamava la notte delle regine. Il nome mi dava l'idea dell'incenso che lei accendeva solo quella notte.
"Che l'oro di suo non ha valore e se a una cosa non gli dai un valore quella di per sé non lo ha" lei lo diceva poi puntava gli occhi e ci dava dei coglioni a tutti.-

Guardo Transito e per un attimo mi vien voglia di gridargli che non menefreganiente! Non sono mai stato un ascoltatore, se mai ne esistesse uno.
Idiota, ma chi cazzo ti conosce, specie di addobbo di natale, pastore di lesbiche.
Magari !
Cià il culo sul cuscino a cuscino il cuscino d'India come i fichi.
Guardalo lì come si accende e come si spegne, come un night club. Mi annoia terribilmente, peggio di un vaso di miele condito di melassa e cannella. Poi c'è il legno che sa di tarlo... cameriere!...cameriere! ! !...cameriere un altro legno, presto!
Un branco di voci strozzate mi fanno... sssssssssst!
Allora io, che in principio volevo sottolineare "branco" ma poi non lo faccio, chiamo a bassa voce "cameriere... (con la voce sempre più bassa e chinandomi anche un po')... cameriere mi porta quel legno dai forellini!" non lo dico ma se mai avessi potuto, nei forellini, ciavrei infilato un gran cazzo da trenta centimetri. Se mai ci fosse stato.
- Che fai, fumi ? Transito che fai fumi ?-
Mi fa di sì.
Fuori la notte si sente, scricchiola nelle ruote e fra i cuscini di favola dei più piccoli. Sull'asfalto c'è un freddo porco che gioca a far male. Maiale.
S. Francisco è anche un po' a dossi; da uno che mi piace, la vista va sopra l'uomo, va giù sul mare, va dalle tette di quella che a toccarla, e lei belava, mi avrebbe asciugato il palmo, inumidito com'era da tutte quelle viole e violette che ciaveva fra le gambe. Il mare in prospettiva fa da cielo a quei lucidi cementi. Alzo l'orlo della vacca che porto, che parto.

Maria quella sera l'aveva passata con me. Non quella dell'anno prima, che non so perché, ma la immaginavo contro il vetro di una finestra e uno da dietro che gli entrava davanti però.
Forse a causa di questa mia visione, evitai sempre di chiederle della sua notte delle regine dell'anno prima. Forse per questo... che poi l'ho sempre pensato in ogni mio coinvolgimento... ho sempre evitato il prima. Comunque quella sera, la mia sera per intenderci, Maria se ne stava sul sofà. Una gamba a pendergli ma toccava terra, l'altra si piegava sul cuscino del divano e finiva sotto la coscia di quella lunga. Penso abbia avuto, a questo punto, le labbra fra le gambe un po' allargate. Così pensai anche allora.
Io fra me e me faccio di sì con la testa e provo la gamba e mi ci vedo.
Maria che sapeva a cosa stavo pensando sorrise.
- Così mi fa Transito continuando e quando parla gli si vedono le costole da quanto è magro. E poi fa anche un freddo boia. Il boia che ha freddo a S. Francisco anche di giorno quando il mare è meno blu perché i gabbiani hanno le gambe arancio così che tutto mi sembra un piumino dell'adidas.-
Senta si è mai trovato con una regina antica, con una mosca di novembre, con un corallo sangue, pensare che la sua donna abbia la voce della neve quando cade... non potevo sciogliermi quella notte. Mi sentivo timido e impacciato nella scelta dell'espressione più intelligente, dolce e spietata di tutto il mio repertorio peraltro modesto.
- Transito dammi del tu o mi perdo -

Mi ricordo che c'era il tavolino con la tovaglia e un piatto pieno di insalata, le candele come si usano e i vetri che ballavano del vento.
Il vento che se ne stava fuori bussava piano. L'aria era di quelle velate dove i più si fasciano di erba a finire in palloni di fumo fra nastri colorati degli Alpha blondy e fuori forse si fanno di roba più forte... pensi... e poi ci tagli il forse. Un'aria un po' senza gravità e un po' sì. Sentivo un pezzo venirmi in faccia dritto dritto dal display rosso della radio, buffo, si risolveva in un bel accordo mentre i colori mi davano in profondo negli occhi... non in su... in profondità.
Avevo paura di imbarazzarmi... poi mi dicevo che non si fa così, no con la mia donna, mi conosceva...
Mi ricomponevo o fingevo di farlo per quanto ero composto.
Mi sforzavo di prestare attenzione a quello che diceva e intanto pensavo che come era chiaro che lei era la mia regina io ero il suo re, un po' come nelle favole.
Iniziai con la mia voce che stavo ancora pensando che lei... sì insomma... era proprio bella... pensavo alla bocca e pensavo al sale. Che poi non era neanche così!
Stavo iniziando a parlare che già mi sentii uscire che il mio lavoro... scrivere... era probabilmente l'unica cosa che mai avessi potuto fare. Sì, un lavoro che cambia ogni giorno a seconda di come si alza o va a dormire il mondo. Evitai di dirle che il giornale andava così, così, e che oggi era andato un po' tutto a ‘fanculo, questo non lo sapeva... per il momento... ma, poi sì.
Sostenevo tante belle cose... sostenevo che non sopportavo, sopporto proprio lo stare fermo; innaturale situazione stagnante di non crescita. Il mio lavoro cambiava le carte in tavola come gli stimoli in mano. Fondamentalmente era una parte di me che andava a vincere sull'altra la tranquillizzatrice, la tranquillizzante comunque e dovunque si chiami.
Sostenevo che tutto ciò che si può vedere o toccare si muove, dissi esattamente "balla come il sole". Usai termini come storce, cambia, cresce, decresce, crepa, appassisce, arrossisce, ingoia, saluta, si sforza e forza, manca ma corre e cambia.
Volevo, mi sforzavo in tutti i modi con tutte le espressioni a dare un senso di moto perpetuo a quello che stavo dicendo.
Ecco cosa!
Sostenevo che io, sovvertitore dello stato dei fatti, non potevo che prendere atto di quell'agitazione, di quella palpabile eccitazione, del mare orgasmico che ci circondava e circondandoci ci inumidiva. Via via che quello che volevo dire si disegnava nella mente il mio tono prendeva più sicurezza.
"Tutto cambia e io non mi fermo".
Però, sostenevo anche, che io, incallito sovvertitore dello stato dei fatti quale ero, tendevo invece a lasciarmi andare, recintarmi, umanamente creavo il mio piccolo orto degli affetti. Ma come può una persona eleggersi a guardiano dell'orto quando è, ahimè del tutto, consapevole che la forza della passione per scaricarsi ha bisogno delle più oceaniche pianure a perdersi!?
Sovvertitore dello stato dei fatti quale ero, mi giocavo il cervello in un poker, perdevo e mi fermavo ad ogni secco, profondo, quanto umido e florido, stop.
Sostenevo che era forte quanto innaturale la mia voglia tranquillizatrice-tranquillizzante, e io nota bene, sovvertitore dello stato dei fatti, creavo ardentemente, fisicamente e affannosamente il mio personale, ingenuo dissi, stato dei fatti. Sic!
Al mio stato dei fatti seguiva la ricerca di due elefanti da metterci a guardia.
Finii battendo il palmo della mano, pacatamente, sulla poltrona. Accavallai le gambe nel modo signore che conoscevo. Guardai Maria, e come se solo allora realizzassi la sua presenza, ebbi la sensazione di una sua mogezza, quasi se ne stesse lì a guardarsi completamente fradicia, vittima della mia calda e copiosa pisciata introspettiva.

Lei a questo punto avrebbe potuto rispondermi utilizzando espressioni come: visione omnicomplessiva, valori precostituiti, ipotesi di verità, eterosessualizzazione dei principi. Poteva rigettare ogni cristallizzazione di chicche sia, qualsiasi sia, quindi anche il mio pensiero, o che so... poteva suggerire di rallegrarmi per la mia presunta originalità... per l'esposizione. Probabilmente, fosse stata in vena, avrebbe contestato il definire come innaturale certe espressioni umane benedicendo il contrasto in sé.
Fosse stata in vena, chissà... mi avrebbe fatto cambiare idea. Comunque... bè se non ne aveva voglia... voglio dire... poteva dirlo.
- Sì, hai ragione... in un certo senso... andiamo va che l'insalata è fredda.-
Rise un po', poi la volevo forte, il più possibile.
Calma, calma, d'accordo non ero sereno... alcuni tra i migliori psicologi, psicoanalisti, neurologi, fuckologi (questa è liberamente tratta dai Sex Pistols) si potrebbero scomodare definendo, la mia, come tipica sindrome del carcerato che si innamora del carceriere che poi si trasforma in liberatore o meglio in liberatrice visto che ‘sti crani starebbero parlando di Maria. Tipico. La cura: aprire gli occhi alla realtà che è varia, tanta, ma soprattutto non è una prigione.
Che il mio carcere sono solo io. E allora... dormire il giusto... lavorare senza stress... lettura, televisione e teatro. Una sera a settimana lasciarsi un po' andare, mai nel bere o in quel senso lì... Una bella quadratura del cerchio per riacquistare il senso del reale.
Roba da non crederci; e non ci crederebbero neanche i Sex Pistols, Carroll, Dostojevskij, Boyle, Kundera, Carmelo Bene o Leonardo da Vinci....... quella sera la realtà mi si rispalancò davanti, proprio spalancata.
Anzi... prima, andiamo con calma, Maria si mise spalle a me faccia al tavolo a fare la biscia a tempo del rap dei neri. Poi mise le mani, tutte e due, sullo schienale di legno della sedia. Si curvò un po'. Scosse la testa per far appoggiare i capelli neri neri sulla schiena. Si voltò, il viso sulla spalla verso la finestra e solo gli occhi neri verso di me.
Roteava tutto, i jeans (con dentro il culo... per gli ignari senza fantasia) il maglione, la lampada, le candele, la casa, S. Francisco e il mondo. Lo faceva con quel viso un po' timido di quella che quasi chiede il permesso.
Come una bambina nel suo regno. Il suo regno dalla porta aperta e lei che non ci bada se entro ma in realtà sì che lo sa, già da prima, da quando mi ha visto, nascere.
C'era l'aria dei bassi di un violoncello.
Faceva scuro e un po' triste come in una fabbrica di ferro.
C'erano altoparlanti grossi, alti, neri come corvi che spruzzavano nell'aria pezzi crudi come: Love, Drain you, Lounge act. C'erano contadini che pitturavano Magritte Renè fra gli applausi dei bambini dai denti a rastrello. Donne che si baciavano con la lingua. Anziane signore che si infilavano aghi da calza su per la bianca fica e tutto intorno, composto, un applauso.
Ho visto uomini pettinarsi le sopracciglia, altri strapparsi peli dalla lingua. C'erano donne gentili e nude che si pulivano gli occhi come gatte.
Tutti a dire che io non ero del corpo - Catturatelo! -
Squadroni alti, bruni a corsa. Davanti ciavevano cani più veloci con il muso lungo a finire con tre lunghi denti ricurvi, due dall'alto e uno dal basso e si incastravano perfettamente, gli occhi due, il pelo lungo che ad ogni falcata si muoveva in qua e in là, in qua e in là.
Fortuna che erano lenti e macchinosi un po' come ‘sto posto.
Io corro via senza fiato.
Bordeggio due rocce seguendo un sentiero che dà su di un campo, che va giù. Io non mi volto ma corro, corro forte nell'aria strana e rarefatta condita solo da quegli altoparlanti ciechi. Corro come un matto giù per il campo. Corro a salti. Ogni salto mi sembra un monte in meno e l'aria finisce diritta, a folate, nelle vene. Mi aggrappo ai rami arcuati per saltare più in alto e più in lungo. Saranno ore che corro e non mi fermo né mi volto più. Un altro dosso sempre più ripido ma chi se ne frega. Non so se ho ancora qualcuno dietro, non sento e né posso da quanto il vento mi entra nelle orecchie. In discesa vado sempre più forte, neanche i miei passi bastano così che tocco terra solo di tanto in tanto e con un piede. Non sembra più possibile rallentare e impossibile fermarsi.
Non sento più la vista ne tantomeno il ghigno del respiro, poi...... non mi ricordo più niente..... forse che sono scivolato..... non lo so.
Avevo davanti solo delle bellissime donne dagli occhi alla menta coi fianchi e ogni cosa al suo posto. Avevano in mano caschi simili a quelli dello squadrone e mi condussero via.
L'aria un po' verde era spaccata a intermittenza dai laser rossi di un temporale. Così disse una dalla lingua lunga che allungava fuori dalla graziosa bocca solo per leccarsi gli occhi. Mi resi conto che gli altoparlanti si erano un po' calmati, mi sembrava stessero passando Liszt ma non ci giurerei, forse un po' di rinascimento... ero distratto dalla cascata di fiori bianchi che la gente tirava, anche un po' forte, al mio passaggio.
- Il corpo ti saluta - fece una di quelle dal miglior culo del mondo.
Lo disse senza voltarsi. Tutto di botto si fece sereno. Il cielo era limpido e fresco, sapeva di ghiaccio, ma il sole pompava quasi morboso. Pensai, per un attimo o anche di più, che si sfiorasse l'implosione.
Non faceva caldo e anche questo sapeva di strano.
Questo posto aveva l'amaro dei tubi, delle fiere della domenica. A tratti volavano volantini come coriandoli o che so io. I colori schizzavano veloci da ogni parte e anche se fisicamente avevo l'impressione di scendere chissà in quale cunicolo e mi veniva su un vago di claustrofobia, tutto questo pentagramma di colori mi distraeva.
Cambiava in fretta.
C'era una mamma che partoriva un merlo e tutti che commentavano. Una ragazza che passeggiava con un vecchio al guinzaglio, poi la ragazza ciaveva la gonna su e gemeva sorridendo al vecchio che spingeva e ringiovaniva a vista d'occhio, bello e forte. Uno sulla quindicina che ricordava ad occhi chiusi ma stringeva i denti fino al sangue mentre un pubblico si dichiarava non pagante e discuteva con il bigliettaio. C'era una bambina che si invaghì del bigliettaio e lo voleva adottare come bambola.
Davanti a me lo squadrone scivolava fra la folla con quei capelli d'argento e oro.
Io pensavo, così, che tutta questa gente non ci doveva un gran che da fare. Quasi capisse il mio pensiero, il pubblico ammutoliva se passavo, quando passavo. Poi presi giù per delle scale, entrai nel "Tribunale" e c'era scritto su color azzurro.

Lo squadrone varcata la porta perse come uno scivolo la sua tuta e già vestivano diverso. Ora che la folla si era strappata come la nebbia al sole iniziai a voler capire e iniziai con il contare quelle... come chiamarle... liriche, che non centra niente ma suona bene. Vestivano, o meglio si fasciavano, con costumi rosati del settecento o giù di lì, con gonne di pelle a fiori e calzoni da uomo, che altro... similasciugamani come pezze da bidè che riportavano cascate di foglie color secche. Rimasi senza fiato in canna, capendo quello che può capire uno rinchiuso in una lavatrice. Accesa.
Passai la porta del Tribunale e stavo vestito ancora come prima.
Faceva tiepido, questo si capiva dalle formiche alle mani. C'era uno strano odore di bruciato e non era legna arsa, piuttosto saldatura.
Mi resi conto che importava solo quella gran finestra sul cielo o sul mare, non si capiva bene.
Un uomo solo gonfio era seduto su una sedia color bambù, vestito a lucine come Elvis Presley, dagli occhiali dallo strano liquido che faceva le lenti striate al mercurio. Mi guardava.
Il posto, così, era altissimo e un po' solo con questa finestra disadorna.
Mi sentivo a mio agio?
No, non proprio.
- Tu non sei del corpo - fece l'Elvis inzeppandosi.
Ecco ci risiamo con ‘ste frasi, con sta voce a sentenza. Non avevo capito niente ma avevo la voglia ed il tempo per incazzarmi.
Dissi - No -
Con lo sguardo mai troppo fisso cercai quelle dello squadrone. Ne vidi una seduta gentile con il vestito lungo a fiori piccoli rossi completamente seria e concentrata fino alle rughe.
- Qui siamo nel non pensiero del desiderio.-
Dio mio, ho pensato fra me e me, la filosofia lo confesso non mi piace. Ho sempre pensato che è tutta questione di stile, di bassezza nella voce... sì... che dia un po' ai budelli.
Quello da quella sedia a trono riprese stancamente - là fuori come hai visto, se ancora puoi vedere, il desiderio sta su ogni cosa, nel senso di dominio, tranne che sul non corpo.
Ebbene tu caro Transito sei, ora, il non corpo.
Hai la sfortuna di essere insensibile a quale che sia la fantasia di chi ti sta pensando. Sei in altre parole inutile a soddisfare qualsiasi desiderio.
So che è... difficile capire... usa, se vuoi, un altro senso e guarda!-
E così l'Elvis si voltò verso una dello squadrone.
Quella era vestita di nero e se ne stava alla mia destra, composta. Poi prese a strusciarsi le mani al suo drappo nero, lo stringeva fino alle sue forme. Fiatava e con le mani si allargava le cosce. Aveva il viso più dolce e leggero che avessi mai visto, la pelle completamente rosa.
Aprì la bocca e si passò la sua lingua lunga fra le gambe divaricate.
Lì vicino un'altra di quelle dello squadrone, vestita di regale blu e pizzo bianco, stava graziosa dormendo preda del più chiaro e trasparente dei sogni.
Mi giro e vedo l'anfitrione, il cicerone... come chiamarlo, l'Elvis completamente terrorizzato schiumando di paura alla vista di un vattelo a pesca d'invisibile. L'aria era verde forte, la vista era verde, poi arancio, poi ancora più forte al bianco e la vista era bianca. Saliva un lenzuolo di archi e accompagnava il ricomporsi di quell'ambiente di cui io potevo solo avvertire gli odori, i colori, i rumori, il sereno tepore.
Seduto nel suo trono di bambù il tipo, sudato e ansimante, riprese a parlare ma questa volta vivace e veloce dal timbro della voce che mi buttava un po' in una foresta dei tropici dove fa caldo caldo ma ci sono anche vene di fresco proprio nel primo pomeriggio, e poi c'è il cocco che va solo spaccato e qua e là le banane gialle di sole.
- Tu qua non ti fare mai troppe domande, dimentica di aver mai pensato di capire qualcosa. Quello che c'è l'hai visto, noi del corpo disponiamo in maniera naturale l'un l'altro, ognuno soddisfa ed è soddisfatto del desiderio.
Non c'è costrizione, impensabile, quindi tanto meno l'applichiamo su chi del corpo non è, onestamente neanche ne saremo capaci.
Tu non sei del corpo.-
Io sudavo non so di che e avevo voglia di bere e di sentirmi Julie dei Levellers. Avevo voglia di tirarmi su la lampo dei calzoni anche se era giù, potevano anche tirarmi delle cornamuse o dei violini irlandesi, potevo fare tante cose e invece stavo lì a dirgli - sì ma lo squadrone prima è passato fra la gente senza che per questo succedesse nulla.- (In pratica continuavo questa penosa tiritera della spiegazione). (Da sbadiglio adesso a pensarci da sbadiglio).
- Certo ti sarai accorto di quelle tute, bè sono l'unica cosa che protegge le nostre elette dalla altrui fantasia. Solo loro le possono indossare, però solo fuori da qui, una volta entrate nel Tribunale le perdono e, come hai visto, ritornano ad essere parti sensibili del corpo.
Io non ho alcun diritto ad indossare la tuta ma sono anche l'unico che può parlare con il non corpo, può entrare qui con le elette e decidere.-
Finì con un sorriso da rabbino.
- Decidere? - chiesi senza capire da dove mi usciva la domanda.
- Caro mio sei pur sempre un non corpo e quindi non soggetto al nostro naturale modo di vivere, potresti essere in pericolo o, tanto peggio, rappresentarlo. Un tuo contatto con un qualsiasi abitante del corpo potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Sono qua apposta, devo vedere...-
- Sono prigioniero?- avevo la lingua impantanata completamente nella mia saliva.
L'altro fece un ghigno che dava su di un sorriso profondo come una ruga.
- Ma... forse meno del solito... ricorda qua non c'è costrizione...-
Sentivo una parola qua ed un là in un aria dei Soul Coughing "It's Chicago it's not Chicago".
Che scena era quella! Con quell'Elvis impasticcato e quella dalla pelle rosa che alla fine di tutto quasi schiumavano dalla fatica.
Li ho visti quasi perdere la vista, screpolarsi le labbra e finire tremanti quello straccio di spiegazione, quelle ragioni che evidentemente vivevano nel mio linguaggio e a loro costavano tanto. Li ho visti trascinarsi alla porta stremati e poi sparire tutti, lo squadrone e il tipo dalla giacca luccicante a perline.
Ero solo con quel finestrone e un po' di Mozart che passava da quell'azzurro importante. Mi sentivo stonato come quella volta che offrii un tozzo di pane con il maiale ad un indiano d'India, questo mi si mise ad urlare in faccia e a guardare il cielo, mi disse che suo figlio era morto e ora io lo stavo mangiando, o qualcosa giù di lì, lui chiaramente non avrebbe mai potuto e mi lasciò lì. Senza fame.
Ero di spalle quando la luce della finestra cominciò a saltare e ballare, fare scuro e fumo.
Goccioline d'acqua striavano il vetro riflettendosi in strani lampioni di luci.
La finestra così com'era sembrava sanguinare. Si mise a pompare immagini sfuocate e accavallate di cavalli e di case, ragni, erbe, cascate d'acqua viola... che ne so, odore di paglia e di scarico, regni velati di scimmie e stelle di zuccherofilato.
Le goccioline solcavano il vetro come il parabrezza di un temporale, come il disegno di uno che non sa disegnare e l'odore forte di un viaggio di mattina presto con i polmoni larghi così. Mi viene in mente quel film che dice che in montagna il polmone gode e non è mica mia. Che le goccioline graffino il vetro? Mi chiedevo. Sentivo i brividi freschi della febbre e l'arsura del mio cervello ingolfato, le palle impanate com'erano andavano verso l'avvizzirsi e mi sarebbe piaciuto dire "passo".
Ho bisogno d'acqua o di farmi una donna in un angolo quando piove. La lavandaia se ricordo bene fa al caso mio.
Vi dico un tronco di poesia che mi piace:

Perché sapete che ha detto O.K
E' meglio stare allegri
Con l'uva allegra
Che avere musi lunghi
Guaendo tutta la notte
Cercando un senso
Che non esiste.

(J. K.)

La faccia di un vecchio che poi pian piano ringiovaniva e quello lo vedevo fare. Lo vidi diventare giovane, passare dal dolce al vivace dal salomonico al tatuato. Lo vidi strapparsi gli occhi dalla noia che colava come melassa in primo piano e dietro la solita Babele di fuori.
Mi sentivo dentro i soffi che accompagnano i tiepidi di primavera, immaginavo, mai abbastanza, quello che prova la terra quando si contrae e raggrinzisce fino a strabozzare di verde e gorgoglia fiotti colorati, scoppietta come pop-corn e si liscia al primo caldo.

Il finestrone passa come tracce troppo lente, le vorrei più veloci, le fotografie di Eadward Muybridge, Vertigo della sua Kim Novak e James Stewart che si impauriscono fra Fort Point e la faccia del maestro Hitchcock. The birdman of Alcatraz, Murder in the first, Rock, Escape from Alcatraz. Passa forte Godfather, Star Treck IV, e il futuro film di Coppola On the road, lì in cima alla North Beach dove finiva e iniziava il mondo dei "Kerouac and his buddies". (Stop. Mi ha chiamato proprio ora ora David da New York - New Jersey proprio ora che sto battendo per la prima, scusate l'interruzione ma me la dovevo, buonavisione).
Mi sentivo sempre di più come chi parte per la corsa all'oro.
La finestra sembrava il video un po' sfuocato di un computer con in alto a sinistra la scritta "gold rush" e io a braccia larghe, palmi aperti sotto una fine pioggia d'oro.
Cavalcavo dorsi di balene, finalmente con un'energia da far tremare le mani, lo ricordo come fosse ieri. Passavano immagini di cuoio all'odore di salsedine, schiocchi d'alba che frustavano lo sguardo fino all'osso.
Brillava e si riaddolciva un cubano marrone come la terra.
Mio dio come mi affogavo d'aria, sterpi e ferro, stavo lì sul tetto più alto per respirare fotoni, con il sole d'Islanda che mi passava fra i capelli. Passo e lascio.
La velocità faceva l'aria color rosmarino dell'odore della gomma bruciata e masticata da quell'argento vivo e sgranato che abbaglia, forte, più forte, spacca faccia, e il pensiero attorcigliato com'è a quelle corde sorde e rosse sempre più rosse.

Cristo, ciavrei scommesso, da lassù vedeva nuvoloni di suono rotolare contro onde dell'oceano alte metri d'acqua e schiuma, metri di città dalle finestre accese e aperte. I nuvoloni che non cianno appiglio e neanche possono affogare, sono così straziati da quelle montagne liquorose e Dio non può far niente a ciò che ha fatto.

Come vi posso dire... ci si sente forti e alti come sul più grande palco del mondo annaffiato dai soliti laser e quintali di suono utile a liberarvi. Io tutto teso e scoordinato stavo sulla sabbia ascoltando la più profumata musica del mondo, mi caricava tanto che avrei respirato via tutta la vita o non avrei respirato per niente come si fa quando si mette la testa fuori dal finestrino di una macchina che va a tutta birra, come fa il pesce quando cerca la sua acqua.
Poi le luci più bianche spaccano sul buio, crescono i bassi che portano la tensione a livello di sparo, crescono con il bassista basso dei Pearl Jam, si aprono i teli al primo colpo sordo, e alla prima unghiata si apre la porta del Tribunale azzurro.
Entra dentro, seria nel volto, una dello squadrone, quella dal culo più bello del mondo. Entra e non ci bada che ha perso la tuta e che ora veste lungo.
Si piega a cercare con i capelli argento lunghi sugli occhi, lunghi dietro sulla schiena come dorsi di pesce, lunghi su una veste stretta ai fianchi. La finestra da buon terminale rifletteva sulle curve di lei strane scritte a graffiti come sulla pellicola di uno schermo bello.
Balbettai - senti... scusa... cosa mi sta succedendo... per favore.-
Lo chiesi così e non sapevo se aspettarmi o no una risposta.
Non lo sapevo.
Lei stentava a voltarsi e cadde spalle all'indietro palmi a terra.
Girò leggermente il viso e i suoi lunghi occhi. Si capiva che mi implorava qualcosa... di andarmene.
Lo faceva con quel cruccio suo che oramai era un ghigno, sudava con quelle gocce che si mescolavano alle lacrime e alle labbra che tremavano. Non esisteva altro che quelle labbra rosse che insalivavano ciocche di capelli argento come una bella cornice.
Lei, che sembrava strapparsi la pelle a dentate, smise di cercare, staccò le mani dal suolo e sudata com'era si mise diritta. Forse. Sudata ciaveva la veste che le cadeva male e da una parte le stava sopra il ginocchio.
Si strofinava le mani contro fino a lasciarsi strisce bianche.
Chiuse gli occhi ma si vedeva dalla bocca ballerina come stava piangendo. Lei si muoveva piano tenendo i piedi a terra si muoveva lenta perché sentiva e sentivo anch'io uscire lontana la bella Henry Lee, bella come lei bella anche meno. Sentivo di dirle che lei era la mia stella femmina ma mi suonava male e alla fine no. Lei aveva le mani a pugno in basso e più che poteva, si dondolava e portava avanti i capelli a nascondersi mentre per l'ultima volta mi implorava di andarmene quando ormai Henry Lee veniva giù forte, sempre di più, ossessiva gli induriva le lacrime che iniziarono a colare come cera.
Si strinse i fianchi e cominciò lentamente a ballare piangere giocare e ridere saltare parlare scrivere avvolgersi in lenzuola che si aprivano al freddo godendo per scorrere scivolare e ridere che la musica squassava la finestra che si spezzò in mille vetri in mille piccoli gabbiani che volarono via.
Io lì che sembrava non potessi far niente come nei più bei miraggi e lei a ridere come a dire ce la siamo voluta.
Gettava gli occhi all'insù nell'aria gialla e poi fino al blu. Voltava la faccia con i capelli bagnati dal sudore e l'argento si perdeva nel verde intenso dell'aria che soffiava via dalla finestra rotta.
Gli oceani dovevano essere alti e gonfi di maree quando io mi misi piano a dondolare, abbassai il viso, feci dei passi e finii sudato a piangere sulla sua fronte.
Lei rise di sollievo e appiccicò il suo corpo al mio.
Stava ridendo e sentivo i suoi seni caldi ballarmi contro e sapevano di liquore.
C'era andata bene ed era evidente che (ora) (io) ero del corpo anch'io, c'era andata bene, che se non lo fossi stato io e lei avremmo fatto la fine della finestra e saremmo volati via in mille piccoli gabbiani di vetro.
Ci ridevamo addosso alle labbra e piano io le entrai dentro e dentro lei sentiva caldo e mi guardò come fossi la cosa più bella... e dio mio bastava così.

"Mia lettera...
Sai già, anche se non ne abbiamo mai parlato, che penso che le parole siano troppo strette o troppo lunghe ma mai il troppo che intendo io.
Corro da dove vengo perché ho paura di non ritornarci.
Mi passa in mente che vengo via con gli occhi chiusi che non ti voglio vedere sdraiata dormire anche se così ti penso e allora vengo via con gli occhi più chiusi di un mattino.
Me ne torno via prima che finisca per crederci davvero, che già l'atto di finire qualcosa mi mette tristezza.
E poi se devo essere sincero tutto ‘sto vagabondaggio esistenzialista da provetta non mi calza mica tanto.
Leggi e quando leggi immaginami una lucertola che si gonfia e si sgonfia al sole.
Appoggio questo bofonchio...

Tuo per sempre
Transito"

VII.
Mi fa di mattina, mi fa Maria, che è troppo... (non gli viene la parola)... eccessivo (io continuo a pensare che poteva anche non venirgli).
Tutto gira come il disco di Happy Days e via così fino a finire il tempo che poi è il problema di Maria, mi sembra di capire.
Mi sembra di capire che c'è bisogno di tempo.
Mi sembra di capire così.
E non glielo dico del re e della regina, no... non glielo dico.
Che poi sarebbe ipocrita e lo so anch'io, parlare ora sarebbe un po' come morire in mille tutti uguali. Io lo so figuriamoci lei che si guarda la televisione con i suoi teleromanzi, e poi basterebbe passare dalle parti di Manzoni e via così post- e pre- Manzoni.
In fondo, mi viene da pensare, Maria i caffè non li ha mai saputi fare, e questo è grave specie di mattina. Intanto la guardo infilarsi via le mutandine come un guanto, stropicciare la lettera dentro il pugno con la faccia dispiaciuta di chi aveva perso un po' del suo tempo ed un po' del mio.
Infindeiconti a me fa male, aldilà della faccia, il guanto o tutto il pensiero dell'ultimo mentre la bocca mi si riempie di respiro come i sacchetti di plastica controfreddo.
Neanche la coperta di un Dio... neanche... penso lì.
Poi la porta sbatte via e lei va via e gli occhi miei sul letto spalancati come persiane cercano l'aria.
L'aria non c'è e mi sembra un pugno alla bocca dello stomaco.
Vado via dal mio pensiero che sa di vuoto come una cantina umida. Ho uno strano sapore di vino sulla lingua, sembra viola nella luce e me la guardo a lungo a rischio di diventare strabico.
Mi sento un po' solo e cambierei via tutte le mie idee per una persona che mi fiati addosso.
Un po' come io con una pepita d'oro in mano in un mondo tutto d'oro, io la cambierei con un bicchier d'acqua, io sì, e così farei con le mie sacre idee sull'eccessivo e tutto il resto.
Mi ci vedete ad attaccare un quadro se non c'è la parete?
E se poi la parete ci fosse andrebbe bene una qualsiasi? Vorrei forse una parete tutta d'oro?
Mi basterebbe una casa di un condominio, un castello con il giardino, il giardino andrebbe bene verde? Il quadro?
Il dipinto è futurista o un po' astratto?
Giallo forse risalterebbe di più, giallo forse mi rallegrerebbe le mattine senza caffè?
E se il muro fosse di cioccolato?
E se poi il muro non ci fosse e ci fosse sdraiato un deserto?
Il quadro non lo attaccherei... no in quel caso lì!
Because the night belongs to lovers se ne sta stampata sul soffitto sopra al materasso e io fra loro mi vedo come un'inquadratura lontana, sempre lontana e di più.

VIII.
Transito aveva le mani piegate giù come le braccia e cambiava via la musica ma non il giorno né il suo colore trasparente di sole, fuori.
Transito si stringeva le ginocchia alla bocca e sentiva l'amaro della sua saliva sulle ginocchia a punta, si annusava la saliva.
Guardava come uno sgraffio passare le ore del lavoro con le sveglie tutte a suonare fra le campane, più forte, e la più forte (delle) che sa di Pasqua.
Lui di Pasqua conosceva solo quella della sangria e così che tutti i pensieri sull'Andalusia via in coda per entrare in quel letto di quella casa vicino all'erba verde menta di un giardino in comune fra più muri su quella via di sassi, su quei colli che vanno su e giù nel quartiere che c'è segnato come un segno in ogni mappa, ogni mappa di S. Francisco, la città che va fino al mare, e il mare che è più grande dell'America, che l'America tutta nel mentre sa di nuovo e in quella casa invece ci si sbroda nel letto con Because the night alta fino al tetto, alta fino all'Empire state... e forse di più, che pur di qualcosa bisogna coprirci e il nostro Transito da un po' si copriva di musica fino a non sentirsi più.

Al giornale le solite se non che quel giorno si pagava.
Transito entrò tardi, il caffè e le chiamate, corse contro il capo lo spinse giù dalla sedia fino a farlo sbattere con la testa per terra quel tanto per afferrare cinquantamila dollari e scappare via fra file di bocche aperte non attente alle mosche che era caldo e giravano.
Il capo gli aveva appena detto (prima) di andare alla spiaggia e a Transito l'idea piaceva, un po' per lui un po' per il capo.
Prese un taxi, il più bello e più largo e chiese, per favore, una corsa da cinquantamila dollari.
Il taxi filava in quella giornata che gli si rifletteva addosso tutta lunga. Al taxista venne chiesto di finire la corsa alla spiaggia perché Transito pensava che S. Francisco come tante cose finiscono nella North Beach.

Leggo su una stampa un po' vecchia che Transito è morto con i piedi nell'acqua e un buco grande come un sole in prospettiva nel petto, nel mezzo granchi rossi vestiti a festa lo portavano via.
Io da parte mia dico una mezza preghiera perché tutta non me la ricordo.
Metto due mani in tasca mentre viene fuori una di quelle sere di seta dai colori delle ali di un fagiano maschio.
Mi allontano con quel pensiero che mi aveva messo anche un po' di fame.



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